L’Italia del dopovoto/ Il dibattito pre-elettorale ha seguito un’agenda imposta e un linguaggio sloganistico, ignorando temi fondamentali. Gli astenuti restano al 27%. Ora serve uno sguardo nuovo, più obliquo.
Una società profondamente diseguale, divisa e impoverita, individualista e atomizzata che pensa di vivere in un paese in pieno declino economico e sociale; la sfiducia ormai radicata nella istituzioni e nella classe politica, ma anche nei cosiddetti “corpi intermedi”; la semplificazione e la polarizzazione del dibattito pubblico: sono ciò che, con una nettezza superiore a quella attesa, riflette l’esito del voto del 4 marzo, spaccando a metà l’Italia in modo molto più articolato di quanto non emerga dalle mappe bicolore elettorali.
La visione ottimistica di un’Italia uscita dalla crisi proposta dal Governo uscente non ha convinto neanche gli elettori del suo principale partito di riferimento. Le scelte economiche e sociali adottate negli ultimi cinque anni hanno approfondito e moltiplicato le distanze e le diseguaglianze a tal punto che siamo costretti a festeggiare una partecipazione al voto del 73%, seppure non abbia fermato la sua tendenza decrescente. Eppure, il 27% di coloro che hanno scelto di non votare, se potesse contare, rappresenterebbe il secondo partito del paese.
Almeno una parte di questo 27%, insieme al voto liquido che fluttua rapidamente da un partito a un altro (il 40% di consenso al rottamatore Renzi risale solo a quattro anni fa), lasciano aperti degli spazi all’azione politica che voglia interpretare e praticare da sinistra la forte domanda di cambiamento presente nel Belpaese.
La campagna elettorale è stata giocata tutta o quasi sul posizionamento dei tre maggiori partiti in materia di lavoro e reddito, tasse, sicurezza e immigrazione, più a colpi di slogan, che sulla base di un confronto dialettico di merito sui diversi programmi elettorali.
Scarsa l’attenzione per il modello di welfare del futuro, con effimere eccezioni dedicate all’istruzione e alla sanità: il dibattito sulla proposta sul reddito del M5S lo ha sfiorato marginalmente. Grandi assenti la questione di genere (tematizzata solo da poche candidate), le politiche abitative, quelle culturali e soprattutto l’ambiente (il che, in un paese devastato da politiche urbanistiche irresponsabili e dalle catastrofi naturali, è un paradosso).
La politica estera e per la difesa e, persino, la questione dell’Europa sono rimaste sullo sfondo e non sembrano aver pesato molto sui risultati elettorali: del resto sarebbe stato imbarazzante per i principali attori in gioco (tranne che per la lista +Europa).
Il Pd al Governo, pur avendo strappato qualche margine sulla flessibilità di bilancio, ha sostanzialmente accettato i dogmi imposti da Bruxelles (politiche di austerità, pareggio di bilancio, contenimento della spesa pubblica, riforme strutturali su lavoro e pensioni), ma ha aumentato in questi anni la spesa militare e ha bloccato il dimezzamento del programma di acquisto degli F35.
La Lega Nord, l’interprete più convinta dell’euroscetticismo italiano, ha preferito puntare tutto sulla flat tax e sulla sua carta più vincente: la retorica della paura e della competizione tra cittadini italiani e stranieri sul lavoro e nel welfare, che ha aperto il varco a una xenofobia e a un razzismo diffusi e spudorati come mai prima (ed è qui che è convogliata parte dell’onda nera tanto temuta). Questa carta è risultata più vincente rispetto al passato anche grazie a una gestione delle politiche migratorie nazionali ed europee incapaci di fare i conti con una globalizzazione che oltre a spostare merci e capitali, approfondendo le diseguaglianze, alimenta anche i movimenti delle persone. A livello nazionale, lo slittamento sicuritario dell’ultimo anno, fortemente voluto dal nuovo Ministro dell’Interno, anziché erodere il consenso alla Lega Nord, l’ha munito di nuova linfa.
Il Movimento 5 Stelle, impegnato a trasformarsi da movimento di protesta in partito di governo, ha preferito glissare sul cambiamento della propria linea politica sull’Europa, non ricordare troppo spesso la sua proposta di tagliare le spese militari e mantenere una posizione oscillante e ambigua sulla questione migratoria.
Incasellare l’esito del voto in modo categorico non è semplice né, forse, è l’esigenza prioritaria. Un voto contro il sistema in tutto il paese certo, identitario e autoconservativo al Nord, di sostanziale ribellione (ma anche di grande e disperata speranza) degli esclusi al Sud. E’, insieme, il frutto di una perdita di radicamento sociale per la sinistra, della crisi del modello di rappresentanza e della deligittimazione delle istituzioni, ma anche della trasformazione della politica che sembra cedere trasversalmente, almeno nella comunicazione e nel linguaggio, a uno scivolamento populista, affidato alla televisione e ai social network, più che alla presenza nei conflitti e sul territorio, ai comizi in piazza e alle assemblee nei quartieri.
L’analisi e l’agenda che Sbilanciamoci! ha proposto su questo sito e per ultimo nel suo Bilancio di fine legislatura, nel tentativo di coordinare in una visione di insieme la critica al modello neoliberista e le possibili prospettive di cambiamento, troveranno probabilmente scarso ascolto nel prossimo Parlamento e nel prossimo Governo.
Eppure, proprio l’esito del voto, suggerisce di non abbassare lo sguardo, semmai di riorientarlo di lato, moltiplicando le occasioni di riflessione collettiva e di mobilitazione comuni, in collaborazione con la rete di campagne, movimenti e soggetti sociali con cui Sbilanciamoci! ha lavorato sino ad oggi.
Uno dei temi da affrontare per noi, ma anche per molte altre esperienze della società civile, è quello di riuscire a rompere le vere e proprie bolle informative e organizzative che circoscrivono in nicchie ancora troppo ristrette il nostro lavoro di analisi, di informazione e di ricerca critica prezioso, se maggiormente condiviso, per ampliare e favorire la partecipazione, soprattutto a livello locale. Certo, servirà anche da parte nostra affinare la capacità di ascolto e di interpretazione dei complessi cambiamenti economici e sociali che si sono espressi il 4 marzo. Ma, soprattutto, occorrerà difendere e abitare quei luoghi in cui siamo, dove i bisogni e le contraddizioni sociali si esprimono, cercando di limitarne l’autoreferenzialità e l’eccessiva frammentazione.