Top menu

Un “Rinascimento” paradossale: cupole e scudi stellari

Nomi rinascimentali e contesti apocalittici, i megaprogetti Michelangelo Dome di Leonardo e Golden Dome di Trump promettono difesa contro tutti gli attacchi, anche cyber. Sono il via libera alla corsa al riarmo insieme alla trasformazione delle società in sistemi di sorveglianza di massa, in nome della paura.

A partire dalla fine dello scorso novembre, nel pieno del clima bellicista che stiamo tutti subendo, assistiamo ad una sequenza di eventi e dichiarazioni che descrivono il futuro del Paese come inevitabilmente appeso allo sviluppo di tecnologie fantascientifiche, uniche in grado di difenderci dai numerosi attacchi potenziali, frontali o ibridi, che il “nemico” potrebbe scatenare. Un pericolo che arriva fino a paventare il rischio di estinzione nel caso qualche missile ipersonico ci lanciasse addosso una o più testate nucleari. Ha dato inizio alla sequenza l’AD di Leonardo Roberto Cingolani, con la presentazione di Michelangelo Dome il 27 novembre, scudo europeo multidominio e multipiattaforma contro tutte le minacce possibili. Ha  poi rinforzato il concetto il ministro della Difesa Guido Crosetto in audizione alle Commissioni Difesa di Camera e Senato il 4 dicembre, parlando della necessità di uno scudo spaziale nazionale per 4,4 miliardi di euro, ed a seguire la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che approvando il riamo, ha parlato di deterrenza per costruire la pace. Poi, nel caso non avessimo capito bene, sempre Cingolani l’11 dicembre scorso ci ha fatto notare con veemenza che i missili ipersonici russi possono colpire Roma in 3 minuti, e che noi non siamo pronti, e che Michelangelo Dome è proprio quel che ci serve per esser finalmente pronti.

Nello stesso intervallo temporale, a mo’ di chicca sulla torta, Donald Trump, con la sua Strategia Nazionale di Sicurezza, prende a calci in faccia l’Europa intera, descrivendola come un alleato in declino e inaffidabile. Le chiede di farsi carico della propria difesa, rimanendo tuttavia subalternamente ben allineata ai bisogni statunitensi.  Seppure la forma è ora sguaiata, il presidente USA ribadisce cose non nuove, ed anche la proposta dello scudo di Michelangelo nella forma proposta da Leonardo sembra ben incastrarsi come un tassello nel puzzle di origine statunitense, ben poco visibile nel nostro dibattito: il Golden Dome di Trump. Vediamo nel seguito di che si tratta.

Reagan, Trump e il ritorno delle Guerre Stellari

L’idea di uno scudo spaziale tale da rendere gli Stati Uniti invulnerabili a un attacco missilistico russo risale al 1983, anno di annuncio della Strategic Defense Initiative (SDI) da parte di Ronald Reagan, immediatamente ribattezzata “Guerre Stellari” per la sua visione fantascientifica. Il progetto tecnicamente non andò buon fine, ma risultò vincente sul piano politico, capace di mettere in crisi l’economia russa e di determinare il successivo crollo dell’Unione Sovietica. Donald Trump si candida come erede anche di quel sogno reaganiano, proponendo l’implementazione di una nuova cupola difensiva spaziale, progetto denominato “Golden Dome” (Cupola d’Oro).

Non tutti i dettagli sono stati resi pubblici, tuttavia il cuore del sistema dovrebbe essere una rete di intercettori spaziali,  progettata per colpire i missili nella loro fase iniziale di volo. Nonostante le tempistiche estremamente ravvicinate, che puntano a un primo test entro il 2028, le sfide appaiono titaniche, con costi diretti stimati fino a 831 miliardi di dollari e in presenza di una fattibilità tecnica oggetto di forte scetticismo. E tuttavia appare essere proprio questo il nuovo “Progetto Manhattan” di cui vagheggiano i tecnoligarchi oggi al potere a Washington, e ciò, di fondo, non appare di per sè un buon segno, viste le loro visioni ultrareazionarie. Il pericolo più grande mostrato dal progetto è di natura strategica: il Golden Dome minaccia di innescare una nuova e pericolosa corsa agli armamenti. Russia e Cina interpretano la Cupola d’Oro come un tentativo americano di sfuggire alla “vulnerabilità reciproca”, principio cardine della deterrenza nucleare fin dagli albori. Per ripristinare il loro potere di dissuasione, le potenze rivali sarebbero spinte a sviluppare arsenali più numerosi, missili più avanzati e contromisure quali testate multiple ed esche, tali da poter saturare lo scudo. Questo può mostrarsi particolarmente destabilizzante in coincidenza con la scadenza del trattato New START, pilastro del controllo degli armamenti. Aumentando, almeno nelle intenzioni dichiarate, la sicurezza statunitense, il Golden Dome rischia così di aumentare il rischio di conflitto, rendendo il mondo più pericoloso. Il progetto si presenta come l’erede del sogno di Reagan, ma ne ripropone anche l’effetto più destabilizzante: dispone la distruzione dell’equilibrio strategico in nome di una sicurezza illusoria, essendo oggi la potenza cinese ben più forte e stabile dell’Unione Sovietica di allora.

La visione di Leonardo: il Michelangelo Dome

Ad una lettura dei fatti, se non delle denominazioni, appare del tutto logico affermare la discendenza di Michelangelo Dome dal padre americano Golden Dome. Di quest’ultimo infatti si propone di essere la configurazione europea, più piccola e pragmatica, ma forse, proprio per questo, anche più realistica. Entrambi i progetti militari nascono dalla stessa ansia strategica di fronte a minacce esterne di nuovo tipo. Tuttavia, mentre lo scudo americano con l’ambizione di produrre sicurezza assoluta rischia di diventare un “buco nero” finanziario (come fu già per le guerre stellari reaganiane) e politico, con l’innesco di una nuova corsa agli armamenti, l’approccio di Cingolani evita abilmente le ambizioni più pericolose e velleitarie dello scudo spaziale. Il Michelangelo Dome, con un occhio più che di riguardo ai mercati della guerra e con parecchio pragmatismo, punta a gestire il rischio all’interno del  frammentato quadro europeo e NATO, proponendosi di coordinare mezzi e sistemi differenti integrandoli con tecnologie di Intelligenza Artificiale. Se il Golden Dome è una struttura che forza l’attuale equilibrio della deterrenza, la sua derivazione europea si limita all’attualizzazione delle possibilità tecnologiche difensive (e offensive?) militari potenziandole e integrandole con le tecnologie digitali. Più che alle guerre stellari, sembra richiamarsi ad una potente evoluzione dell’Iron Dome di Israele, Paese con il quale l’azienda italiana ha più di una collaborazione.

Il Dome di Leonardo è un dispositivo di difesa integrata multi-dominio (acqua, terra, aria, cyber) concepito per affrontare le minacce vecchie e nuove: non solo aerei o missili, ma sciami di droni, vettori ipersonici o attacchi nel cyberspazio. Il sistema di difesa non è centrato su singoli apparati, ma su una rete di componenti diversi: sensori distribuiti (radar, satelliti, sistemi cyber); attuatori diversificati (missili, contromisure elettroniche, armi laser), un comando e controllo ad alto utilizzo di Intelligenza Artificiale, per elaborare i dati e coordinare la risposta. Viene costruito un “reticolo di ingaggio” distribuito (sullo schema del web) per reazioni rapide e flessibili a minacce diversificate. La proposta sembra voler mettere a frutto le expertises che derivano dalla fusione tra il  ramo americano di Leonardo, RDS, con l’israeliana Rada Technologies, nonché dalla presenza dell’azienda negli incubatori tecnologici israeliani.

Lo sviluppo, programmato per fasi progressive, è previsto per una prima capacità operativa limitata all’Italia entro la fine del 2027 (e di qui probabilmente le dichiarazioni di Crosetto) con l’obiettivo di una difesa federata paneuropea nei primi anni ’30. Nella crescente spesa per il riarmo europeo, il progetto si inserisce in un mercato della difesa che mobiliterà complessivamente oltre mille miliardi di euro nel prossimo decennio, dei quali Leonardo punta a conquistarne 200, puntando sia al rastrellamento in Borsa che a finanziamenti pubblici come l’European Defence Fund  o altri fondi nazionali.

Necessità e carenze tecnologiche

Come ad oggi tutte le applicazioni di sicurezza e di guerra digitali, il funzionamento del Michelangelo Dome poggia sull’ Intelligenza Artificiale, la connettività, il cloud e la potenza di calcolo. Questi sono i nodi che ne rappresentano al tempo stesso l’ambizione e la vulnerabilità. E la soluzione scelta per scioglierli non è semplicemente tecnica, comporta profonde implicazioni politiche. 

Il cervello del sistema è un complesso sistema di algoritmi di Intelligenza Artificiale e di “Data Fusion” ospitato nel modulo di comando. Questo software non si limita a ricevere dati; deve compiere in millisecondi un lavoro di sintesi e decisione estremamente complesso. Deve fondere in un’unica immagine coerente informazioni disparate provenienti da radar terrestri, satelliti spaziali e sensori cyber. Deve riconoscere, grazie a modelli di Machine Learning addestrati, se un segnale è un drone commerciale disperso, uno sciame di droni-kamikaze coordinato o l’inizio di un attacco missilistico. Infine deve decidere e ordinare automaticamente quale sia il miglior effettore/attuatore per neutralizzare quella specifica minaccia, gestendo una rete dinamica in uno scenario potenzialmente saturo di pericoli simultanei e di falsi obiettivi.

Per permettere a questo cervello di pensare e agire, è indispensabile un sistema di connettività estremamente robusto e rapido. Il flusso di dati tra sensori sparsi, centri di comando e piattaforme d’ingaggio deve essere continuo, sicuro e a latenza quasi zero. Questo richiede, in primo luogo, una costellazione satellitare resiliente e ad alta banda, un’infrastruttura su cui l’Europa è ancora in ritardo, dipendendo da soluzioni estere o dal futuro sistema IRIS², non ancora pronto. In secondo luogo, necessita di un cloud militare ibrido, che combini l’elaborazione immediata “sul campo” (edge computing) per le decisioni critiche con la potenza di calcolo centralizzata per le analisi strategiche e l’addestramento degli algoritmi.

È qui che entra in gioco il terzo pilastro: la potenza di calcolo pura (HPC). Gli algoritmi AI che devono gestire questo flusso di dati e prendere decisioni in tempo reale richiedono un’enorme capacità computazionale. Servono supercomputer per addestrare i modelli, unità di calcolo ad alte prestazioni distribuite per l’operatività e hardware specializzato (come GPU) per accelerare i processi. Senza questa “forza bruta” dell’elaborazione, il cervello più sofisticato rimarrebbe paralizzato.

È proprio nella realizzazione di questi tre pilastri che si annida il paradosso critico del progetto. L’Europa possiede competenze d’eccellenza in alcuni di questi campi, ma manca di infrastrutture sovrane complete. Per colmare i gap in tempi utili, la tentazione è rivolgersi a soluzioni pronte ed efficienti, ma controllate da attori extraeuropei: utilizzare la costellazione Starlink (nella sua versione militare Starshield) per le comunicazioni o affidarsi ai cloud hyperscaler americani (AWS, Azure o Google Cloud Platform) per calcolo e storage. Questa scelta, pragmatica sul piano tecnico, minerebbe alla radice la sovranità che il Michelangelo Dome sembra voler costruire (si veda in tal senso il Cloud Act americano che impone alle aziende tecnologiche a fornire i dati in loro possesso), creando una pericolosa dipendenza strategica in ambiti critici per la sicurezza. La sfida, quindi, non è solo tecnologica, ma profondamente politica e industriale.

La fortezza europea, tra subalternità ed autonomia

Nel bellicismo imperante che ci sta sovrastando, con classi dirigenti che alimentano continuamente la paura di pericoli che vengono dall’esterno, non viene messa in discussione la costruzione difensiva e securitaria del continente: tutto è pericolo, tutto necessita difesa. L’Europa si sta configurando come una fortezza, realtà mostrata come inevitabile e diffusa, ai cittadini come indiscutibile, pena l’accusa di tradimento in pieno clima di guerra. Anche la costruzione della fortezza, tuttavia, pone l’Europa ad un bivio: tra dipendenza americana e autonomia europea, la scelta tecnologica diventa anch’essa scelta pienamente politica. La Fortezza Europa può esser declinata in due modelli opposti, a seconda delle scelte tecniche che questa adotterà. 

La prima opzione, che va verso una sovranità continentale, mira a edificare la fortezza europea come territorio politicamente autonomo. Scegliendo di sviluppare con pazienza e grandi investimenti le proprie infrastrutture critiche – dal satellite IRIS² ai cloud militari europei – l’Europa può puntare a diventare un terzo polo strategico. In questo modello, il Michelangelo Dome può essere il cervello di una difesa comune indipendente, rappresentando anche l’espressione tecnologica di un progetto politico di emancipazione e autonomia. 

La seconda opzione, quella dell’efficienza atlantica immediata, dà forma a una entità continentale subordinata. Optando per le soluzioni americane già efficienti e pronte, dalla connettività satellitare di Starlink ai cloud di AWS, Azure e Google, l’Europa accetta il ruolo di gestore della sicurezza regionale per conto di altri. In questo scenario, il Michelangelo Dome diventa lo strumento avanzato per il controllo militarizzato del vicinato, e la Fortezza Europa si configura come l’avamposto tecnologico di un’alleanza guidata da Washington, forse efficiente ma priva di ogni autonomia decisionale finale.

In sintesi, la guerra in Ucraina ha bloccato le scelte europee sulla rinuncia ad un ruolo di mediazione e pacificatore dell’Europa che ha reso il modello-fortezza indiscutibile. Quello che ancora non appare del tutto risolta è la collocazione dell’Europa. La scelta tecnica per il Michelangelo Dome sarà dunque scelta geostrategica, tra costruzione di autonomia e perpetuazione di subalternità.

Non sudditi passivi ma cittadinanze attive

La scelta dell’Europa di diventare una “Fortezza” non è un adattamento al mondo, ma una sua sconfitta. Nata per superare la guerra che l’ha attraversata per secoli, la Vecchia Europa sembra capitolare di nuovo di fronte alla logica bellica. Progetti come il Michelangelo Dome, comunque declinati, non sono solo scudi tecnologici; sono il sintomo della trasformazione dell’idea europea, da progetto di civiltà aperta a meccanismo difensivo e chiuso, alimentato dal motore della paura.

Questa scelta ha un doppio effetto tossico. Verso l’esterno, trasforma i territori vicini in zone da controllare, alimentando i risentimenti che vorrebbe prevenire. Verso l’interno, istituzionalizza uno stato di emergenza permanente. L’architettura tecnologica dello “scudo” – sensori, reti, intelligenza artificiale – possiede una intrinseca ambiguità: la stessa piattaforma che traccia minacce, droni e missili si può facilmente trasformare per profilare i cittadini. Il cervello della fortezza può facilmente diventare l’occhio del Grande Fratello digitale, giustificando la sorveglianza di massa con la perpetua minaccia esterna. La “repubblica tecnologica” delle tecno-oligarchie viene realizzata, soppiantando la democrazia in nome della sicurezza.

In questo quadro, debbono essere i cittadini a diventare il fulcro della resistenza alla deriva militarista. La paura è un motore potente e passivizzante. Contro questa logica, l’azione collettiva rappresenta l’unica forza in grado di riaffermare la primazia di una politica di convivenza democratica sopra le tecniche della difesa e della guerra. Attraverso il controllo democratico dei budget militari, il rifiuto della propaganda bellicista, la costruzione di legami civili transnazionali e la difesa intransigente dello Stato di diritto, la società civile può opporsi alla trasformazione della sicurezza in un dogma che giustifica ogni restrizione. Gli investimenti nella deterrenza non possono sostituire diplomazia, cooperazione e costruzione di pace. I cittadini, in definitiva, possono rifiutare il ruolo imposto di destinatari passivi di protezione tecnologica, ritessendo i fili di un progetto politico comune.

La vera alternativa non è tra un tipo di fortezza o un altro. È una scelta radicale tra due strade inconciliabili. Da una parte, il paradigma stesso della fortezza: isolamento, militarizzazione, paura come orizzonte. È puro pensiero reazionario, rinuncia a plasmare il mondo, difesa da esso in un eterno stato d’assedio. Dall’altra, un modello aperto, dove la sicurezza è basata sulla forza dei legami, sulla giustizia interna e su una politica estera coraggiosa che investe in diplomazia, cooperazione e trasformazione dei conflitti, accettando i rischi della relazione con gli altri

Le fortezze, nella storia, sono sempre state superate. Costruirne una significa uccidere l’anima dell’Europa per salvarne forse un corpo sempre più asfittico. L’altra strada è rischiosa, ma viva. E dipende anche dalla scelta quotidiana che noi cittadini faremo rifiutando di vivere nella paura.