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Riconvertire dal militare al civile si può

In Sardegna la fabbrica del gruppo Rheinmetall a Domusnovas produce bombe e droni-killer a brevetto israeliano. Ma un comitato di cittadini ha lanciato il progetto Warfree, il più recente tentativo dal basso di riconversione dal militare al civile.

Dalle mine Valsella alle bombe Rwm

Davanti alla sede delle Nazioni Unite, a New York, la statua bronzea di un uomo che con il martello trasforma una spada in un vomere, opera dell’artista sovietico Evgeniy Vuchetich (1908-1974), richiama la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, contro un’altra nazione non impareranno più l’arte della guerra» (1). E ci ricorda il ruolo delle Nazioni Unite come strumento-chiave per la pace, nell’orizzonte della «pace perpetua» proposto da Immanuel Kant nel 1795. Non si tratta di un’immagine astratta. A Herat, in Afghanistan, nel 1999 gli sminatori dell’associazione Omar consegnavano a una spartana fonderia, previo disinnesco, le parti ferrose degli ordigni bellici accumulatisi nei suoli in trent’anni di conflitto. Da quel cortile polveroso uscivano zappe e vanghe (2).

Ma in mondo dove si moltiplicano i conflitti, aumenta la spesa militare e cresce l’industria degli armamenti, che spazio c’è per la questione della conversione dal militare al civile? In Italia la traiettoria di Leonardo (ex Finmeccanica) è stata quella opposta (3), e perfino la legge 185/1990 che regolamenta l’export militare è sotto attacco per le pressioni dell’industria.

Elio Pagani, già obiettore di coscienza alle produzioni militari alla Aermacchi di Varese, sostiene che «è necessario riflettere su come mettere al bando la guerra e tutti gli strumenti utili alla sua conduzione: concetti strategici, alleanze e spese militari, basi nucleari e convenzionali, porti e servitù militari, missioni “di pace”, finanza armata, ricerca, produzione ed esportazione di armi». Sottolinea la complessità delle iniziative per la riconversione e dell’impegno politico ed economico necessario: nelle campagne passate, «molti non tenevano conto che processi come questi potessero costare molto ai lavoratori, in termini di occupazione, di salario o di condizioni di lavoro. Molti trascuravano la difficoltà della relazione, su queste cose, con i lavoratori sottoposti al ricatto occupazionale, e di come questo ricatto veniva usato come pretesto per non fare nulla» (4). Oggi resta l’esigenza di tutelare in tutti i modi il reddito e la professionalità dei lavoratori, ma l’obiettivo è «la messa al bando delle industrie di armamenti».

Il più recente tentativo dal basso per la riconversione di un’azienda militare, tentativo depotenziato dalla difficoltà di avere rapporti con i lavoratori e i sindacati interni, è quello del Comitato riconversione Rwm in Sardegna. La difficoltà a co-definire con sindacati e lavoratori Rwm piani di riconversione ha spinto il Comitato a preparare sul territorio un’alternativa all’occupazione bellica. Ciò si è tradotto nel progetto Warfree per supportare le imprese ecosostenibili ed etiche della Sardegna in maniera da facilitare lo sviluppo di un solido tessuto economico solidale alternativo all’industria bellica. Un Comitato e un progetto frutto dell’indignazione per l’export all’Arabia saudita delle bombe prodotte nella fabbrica Rwm di Domusnovas, controllata del colosso tedesco della difesa Rheinmetall, con gli ordigni che andavano a uccidere i civili yemeniti. E’ l’idea dell’alternativa territoriale, più che della conversione aziendale: il «metodo Iglesiente».

Il Centro sperimentazione autosviluppo (5) – ci spiega Teresa Piras – è un gruppo impegnato da anni a tessere reti «per nuovi modi di coltivare, produrre, lavorare, abitare, consumare, far turismo in modo etico e sostenibile sulla nostra terra, insistendo su autosufficienza alimentare, biodiversità e autonomia e dignità di contadini e artigiani». E continua: «Con la chiusura delle miniere, alla fine degli anni 1990, si progettò la riconversione al militare di quella fabbrica di esplosivi a uso civile. Nel gennaio del 2001 nacque un movimento spontaneo di opposizione alla produzione di bombe, vi partecipammo subito. Una petizione popolare firmata da 11mila cittadini chiese alle istituzioni di sostenere il passaggio a produzioni favorevoli all’ambiente. Non furono ascoltati». Dalla saldatura fra la lotta contro l’export di bombe ai sauditi e l’impegno decennale per uno sviluppo ecologico e socialmente equo nasce il Comitato che si impegna per la «riconversione dell’intero territorio, dalle attività estrattive e da quelle militari verso l’economia di pace, il lavoro sostenibile, la partecipazione civica al cambiamento, la valorizzazione del patrimonio ambientale e sociale».  

Cinzia Guaita e Arnaldo Scarpa del Comitato per la riconversione della Rwm (nato nel 2017) danno conto dell’evoluzione degli ultimi anni (6): «Tra il 2019 e il 2021 il Comitato Riconversione Rwm ha ottenuto, insieme a tante altre organizzazioni della società civile e grazie all’azione congiunta di un gruppo di parlamentari, prima la sospensione e poi la revoca definitiva delle autorizzazioni concesse per l’esportazione di bombe e missili verso l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti. A causa della fortissima dipendenza della fabbrica dalla commessa saudita, con oltre l’80% della produzione destinata a quell’ordinativo da 400 milioni di euro, il blocco dell’export ha portato contestualmente alla fermata pressoché totale degli impianti, alla cassa integrazione per la gran parte dei dipendenti diretti e al licenziamento dei precari interinali che la direzione aziendale da sempre utilizzava per coprire le lavorazioni meno garantite, massimizzando risparmio e flessibilità: oltre 300 all’anno, a fronte di una novantina di lavoratori stabilmente in organico».

Qual è stata la reazione dell’azienda? «Il management ha agitato lo spettro della dismissione dello stabilimento e del ricatto occupazionale, purtroppo in sinergia con i rappresentanti locali dei sindacati maggiormente rappresentativi. In alcuni interventi politico-sindacali si arrivò persino a chiedere l’acquisto in blocco da parte dello Stato italiano delle bombe rimaste invendute, oppure nuovi investimenti pubblici per la trasformazione della fabbrica sarda di Rwm in un hub europeo degli armamenti. Dopo qualche mese di chiusura, alcune commesse europee e altre provenienti da Australia e Turchia hanno trainato la ripresa dell’attività a pieno regime, presto alimentata dalla guerra russo-ucraina e dalle strategie di Israele, che ha preso accordi con Rwm per produrre un modello di drone-killer a brevetto israeliano».

Che percorso ha avuto la ricerca di una riconversione civile? «Nel 2019 un incontro  tra il Comitato Riconversione Rwm e K. Gebrewold, rappresentante della Chiesa evangelica del Baden Württenberg (Germania) per la campagna contro le armi, getta le basi per il progetto “Peace Conversion Sardinia”. Nel 2021 nasce la rete di imprese per la pace e la transizione ecologica “Warfree – Lìberu dae sa gherra”, alla quale corrisponde oggi il marchio registrato europeo Warfree che identifica una cinquantina di imprese con oltre 200 referenze commerciali e di servizi. Le imprese Warfree sottoscrivono una Carta dei valori che contiene, al primo posto, il ripudio della guerra e di ogni attività in qualsiasi modo ad essa riferibile, sono prioritariamente collocate in Sardegna, soprattutto nel sud-ovest, dove ha sede la fabbrica di bombe e di droni-killer, e rappresentano una possibilità concreta per la riconversione sostenibile di un territorio, purtroppo in parte contaminato da attività industriali (minerarie e metallurgiche) condotte senza scrupoli per i danni ambientali e sanitari. L’idea scaturita dall’incontro con la Chiesa del Baden Württenberg, sviluppata anche in collaborazione con un gruppo di docenti dell’Università di Cagliari, e grazie al lavoro di alcuni giovani, consiste da una parte nel sostenere l’attività di aziende che hanno al centro la sostenibilità etica ed ecologica, offrendo servizi di consulenza, dall’altra nel promuovere la cultura dell’economia civile e dell’attenzione per l’ambiente».

I risultati sono incoraggianti, spiegano Cinzia Guaita e Arnaldo Scarpa: «Il numero di addetti stabilmente impegnati nella rete Warfree ha superato quello dei dipendenti a tempo indeterminato della fabbrica Rwm e, anche se la possibilità di una riconversione industriale al civile appare lontana, l’iniziativa ha avviato la costruzione di una consapevolezza che porterà i suoi frutti. La riconversione a cui punta Warfree va oltre la fabbrica di bombe e abbraccia l’intera isola, riguarda gli effetti degli insediamenti delle imprese multinazionali, le servitù militari, il degrado ambientale».

Sono diverse le esperienze di lotta per la conversione al civile che meritano di essere ricordate. In Europa tra le prime e più rilevanti è quella della Lucas Aerospace inglese, dove nella prima metà degli anni Settanta, di fronte ai rischi di licenziamenti, tecnici, impiegati e operai, sotto la guida di Mike Cooley,  svilupparono prototipi di prodotti alternativi socialmente utili – dalle pompe di calore a attrezzature sanitarie – presentati poi all’azienda. I licenziamenti arrivarono, ma un esempio era stato costruito, e lo stesso Mike Cooley continuò a lavorare negli anni Ottanta nel Centro per lo studio dei sistemi industriali alternativi (Caits) e anche nel Greater London Enterprise Board, del comune metropolitano di Londra, allora una roccaforte laburista contro il governo di Margaret Thatcher, sviluppando 150 prodotti di possibile realizzazione. (7)

Negli Stati Uniti un approccio analogo è stato sostenuto da Seymour Melman, a lungo professore alla Columbia University e punto di riferimento per il pacifismo statunitense, autore di Guerra SpA. Al centro della riconversione c’è il recupero di controllo da parte dei lavoratori su che cosa si produce, la riscoperta della democrazia economica, la «disalienazione» del lavoro, per un’economia al servizio della società anziché del potere militare. (8)

Erano gli anni in cui in Italia la Federazione lavoratori metalmeccanici – in particolare con Alberto Tridente, responsabile internazionale della Fim Cisl – creava un coordinamento dei delegati dell’industria bellica per far crescere la consapevolezza fra i lavoratori, per capire quali erano le produzioni ed esportazioni realizzate dalle aziende, per chiedere una legge per il controllo e la limitazione dell’export di armi (sarà la 185/90) e per spingere le aziende a diversificare.

Con la fine della Guerra fredda, negli anni Novanta, il calo della spesa militare pone il problema della riconversione in termini concreti. Accanto alla diversificazione avviata da molte grandi imprese militari, la Commissione europea lancia i programmi Konver 1 e 2, e l’uso dei Fondi strutturali per intervenire nelle regioni più dipendenti dalle vecchie produzioni di armi. In Italia è il caso della Liguria, dove la cantieristica navale si riorienta verso navi civili e le politiche territoriali sostengono le aree di crisi.

Di rilievo è stata la vicenda Aermacchi, dove un gruppo di lavoratori – fra i quali Elio Pagani – aveva denunciato la violazione dell’embargo alla vendita di aerei al Sudafrica e lanciato l’obiezione professionale alla produzione di armi, chiedendo il trasferimento ad attività civili e progetti di riconversione. Nel 1991 arriva la cassa integrazione e lo sciopero della fame a Varese – nel mezzo della prima guerra del Golfo – con la richiesta di «coniugare diritto al lavoro e diritto alla pace». Le produzioni civili si allargano e il Comitato dei cassaintegrati Aermacchi lancia nuove iniziative e ottiene nel 1993 la creazione di un’Agenzia regionale lombarda per la riconversione, che opererà fino all’insediamento della nuova giunta di centro-destra (9).

E poi le mine della Valsella Meccanotecnica di Brescia, un tempo controllata dalla Borletti, a sua volta appartenente al Gruppo Fiat. «Se non si sono più vendute le mine antipersona, dopo averne mandate nel mondo 30 milioni, non è stato certo per la consapevolezza da parte dei dirigenti, ma perché la legge 374 del 1997 le ha messe al bando». Franca Faita, già operaia e sindacalista della Valsella, fra i protagonisti della lotta antimine, riassume così un percorso che vide uniti pacifisti, comunità cristiane, sindacati. C’è voluta una legge nel 1997, che seguiva gli accordi internazionali per il bando alle mine antipersona, per chiudere l’azienda. Oggi la nuova Valsella Meccanotecnica Spa è un’azienda di engineering e di servizi nel settore auto con 100 progettisti tra Brescia e Torino (10).

Altri esempi positivi non mancano: la più importante impresa eolica in Italia – con oltre 700 occupati, controllata dalla danese Vestas – è nata da un progetto di riconversione di Aeritalia. La Oerlikon Graziano di Bari, che produce sistemi di cambio per auto e trattori, è una diversificazione nel civile della Oto-Melara. La Sirio Electronics in provincia di Firenze ha diversificato buona parte della produzione. Gianni Alioti, che come sindacalista è impegnato da decenni su questi temi, trae queste lezioni: «La riconversione dal militare al civile è un processo complesso, legato alle dinamiche di disarmo; servono investimenti, con costi sociali nel breve e benefici nel medio-lungo periodo; sono necessarie misure macro-economiche e l’emergere di una nuova domanda» (11).

Note

1. https://www.un.org/ungifts/let-us-beat-swords-ploughshares

2. Marinella Correggia, «Lo sminatore di Ghazni», nell’antologia Ho visto, edizioni E/o 2003

3. Gianni Alioti, “Leonardo in armi. La riconversione al contrario”,  su Azione nonviolenta n. 2, 2021, ripreso da https://www.labottegadelbarbieri.org/leonardo-la-riconversione-al-contrario/ e da https://www.pressenza.com/it/2021/05/lo-scandalo-del-riarmo-e-della-riconversione-al-contrario-leonardo-dal-civile-al-militare/

4. Elio Pagani, “I passi della riconversione, 22 settembre 2022 https://ecoinformazioni.com/2022/09/22/i-passi-della-riconversione/

5. Marinella Correggia, “Sardegna Isola di pace”, Altreconomia, giugno 2018,, https://altreconomia.it/sardegna-isola-pace/

6. Comunicazione via email richiesta dall’autrice, gennaio 2024.

7. Elio Pagani, Dalla produzione di armi alla produzione civile: il caso inglese, Centro Eirene e Fim-Cisl, 1990.

8. Seymour Melman, Guerra SpA, Edizioni Lavoro, 2006. Si veda anche Mario Pianta e Alberto Castagnola, La riconversione dell’industria militare, Edizioni Cultura della pace, 1990.

9. Vitaliano Caimi, Nuovo ordine militare internazionale. Strategie. costi, alternative, Edizioni Gruppo Abele 1993. Si veda anche Dossier «Industria militare e politiche di riconversione» di Archivio disarmo,  https://www.archiviodisarmo.it/view/G-fFrOzUjiRkyDH1n-PlNjDIyNhMCHBPJAKVmmfC43o/battistellipresciuttiniindustria-armamenti-e-ipotesi-di-riconversione-apr88-.pdf

10. Michele Cotti Cottini, Valsella Meccanotecnica: storia di una riconversione controversa  https://www.opalbrescia.org/wp_ob/wp-content/uploads/2018/01/Valsella-Meccanotecnica.-Storia-di-una-riconversione-controversa..pdf

11. Gianni Alioti, “Conversione da produzioni militari a civili: storia e prospettive”, in L’industria militare e la difesa europea. Rischi e prospettive, Jaca Book 2008.