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Referendum, una riforma senza qualità

I 41 articoli della riforma sono privi di ogni orizzonte di sistema che non sia quello di un uso congiunturale delle istituzioni, sono mal scritti e pasticciati, e pieni di contraddizioni, irragionevolezze e lacune

1) La Costituzione italiana non è mai stata la più bella del mondo: il volto della donna radiosa che simboleggia da sempre la vittoria della Repubblica, se dovesse essere adattato alla Costituzione dovrebbe risultare sfregiato da due manciate d’acido, perché fra i primi undici articoli si annidano i due più brutti e controversi: il 7 e l’8, espressione di una vittoria clericale che non ha paragoni in altri ordinamenti liberaldemocratici.

La lungimiranza della Chiesa e l’arrendevolezza delle forze laiche (non una falange, invero, alla Costituente) sono riusciti a collocarli in una posizione strategica, nella consapevolezza della prima che, in una Costituzione senza preambolo, i principi fondamentali avrebbero assunto quell’aura di intoccabilità e di sacertà che è tipica dei preamboli: e così i sostenitori del testo Renzi-Boschi possono menar vanto di non averli neppure sfiorati, in quanto li considerano “patrimonio comune di tutti gli italiani”.

Così dicendo, un criticabilissimo e divisivo indirizzo di politica ecclesiastica viene posto alla stessa altezza ideale del rifiuto del razzismo o della guerra: e, nell’annichilimento del principio di laicità nella narrazione di massa, nessuno osa sollevare il dubbio che non tutti i principi fondamentali sono inviolabili e che anzi alcuni di essi pesano come macigni nella vita pubblica italiana ben di più di una sia pure importante tecnicalità quale è il bicameralismo paritario.

2) Concessomi questo sfogo, vorrei notare che due principi fondamentali escono comunque ammaccati (“demoliti” è un’esagerazione) dal testo che saremo chiamati a giudicare il 4 dicembre, non facendoci ingannare dal quesito, certo ineccepibile sul piano giuridico, ma molto furbo sul piano politico: quello secondo cui la “sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1, II co.), e quello secondo cui la “Repubblica… riconosce e promuove le autonomie locali” (art. 5, I co.).

Cominciando da quest’ultimo, è ovvio che la formula appena citata lasci un margine di apprezzamento al legislatore costituzionale sul come attuarla, ma è anche certo che la scelta operata dal testo Renzi-Boschi è nel senso di un favor nei confronti del centro per quel che riguarda la distribuzione delle competenze fra Stato (che passa da 31 a 48 materie, delle quali alcune – politiche sociali, gestione della salute, del territorio, dell’ambiente, del turismo – dovrebbero costituire il cuore dell’autonomia legislativa regionale) e regioni: al punto di poter considerare una contraddizione più che un bilanciamento la previsione di una “camerina” – il Senato-ircocervo e senza qualità di cui hanno parlato alcuni studiosi – che le rappresenti, dopo averle ridimensionate sul territorio, nell’organo legislativo, dove per di più alcune di quelle materie sono affidate a leggi monocamerali.

Quanto all’art. 1, II co., poi, è difficile negare che se l’elezione del Senato passa dall’attuale forma diretta alla futuribile forma indiretta, sia pure attraverso il misterioso alambicco della “conformità alle scelte espresse dagli elettori” (art. 2 nuovo testo), il potere di questi ultimi subisca una deminutio, non essendo più esclusivo, ma condiviso.

Può anche argomentarsi che i “limiti” di cui parla l’articolo in questione lascia un margine di apprezzamento alla Costituzione nel modulare le forme di esercizio della sovranità popolare, ma resta inoppugnabile che quella prescelta dal testo Renzi-Boschi – per non parlare dello stupido accanimento contro un istituto innocuo come la petizione popolare – va sotto il segno del decremento e non della valorizzazione del ruolo decisionale del cittadino, così come – a prospettiva invertita – è portatore di una democraticità dimidiata un senatore eletto dai suoi colleghi di casta invece che dai cittadini elettori.

3) I sostenitori della sinergia perversa fra Italicum (il “veleno incorporato” del titolo, confezionato, contro ogni buona creanza, prima del testo costituzionale e ricorrendo alla questione di fiducia) e riforma costituzionale potrebbero mettere in campo un capzioso ma non aberrante apparato argomentativo: a fronte della tutto sommato modesta attenuazione del tasso di democraticità riguardante l’elezione di un organo strutturalmente depotenziato e dopolavoristico come il futuribile Senato, l’architettura costituzionale risultante da quel combinato disposto aumenterebbe enormemente la densità decisionale del voto (o dei voti, in caso di ballottaggio) che il cittadino esprime per l’elezione della Camera. Infatti quel voto non si limiterebbe a determinare la composizione partitica dell’Assemblea, ma sceglierebbe la forza politica da mandare al governo e darebbe al suo «capo» la legittimazione a insediarsi a Palazzo Chigi, rendendo solo protocollare il ruolo del Presidente della Repubblica: in una parola, restituirebbe lo scettro al principe, cioè al cittadino-elettore.

Occorrono pazienti e complesse argomentazioni per smontare questa visione della democrazia, che non a caso ha dalla sua buona parte del diritto costituzionale comparato e un filone molto importante della teoria politica. Bisogna spiegare che la democrazia ridotta all’investitura del governo e del suo vertice sotto la veste seduttiva dell’omaggio al potere del demos, nasconde la nudità del potere monocratico, fondato sul mitico circuit de confiance fra leader ed elettori, che la logica del sistema tende a trasformare da corpo politico ideologicamente e culturalmente strutturato a pubblico amorfo e atomizzato. Già nel 1937 Benjamin notava che da questo tipo di selezione “escono vincitori il divo e il dittatore”, con l’aggravante che se il divismo evocato dallo studioso berlinese poggia su solide anche se irrazionali basi numeriche, la capacità distorsiva dei sistemi elettorali (di cui è esempio esasperato l’Italicum) è in grado di trasformare un qualsiasi attore in un magnetico divo, il carisma weberiano in potere illusionistico.

4) Le precedenti considerazioni sono volte a segnalare che è in gioco il 4 dicembre una posta di enorme valore politico: nientemeno che la scelta fra due modelli di democrazia, quella predicata da De Gaulle nel discorso di Bayeux del 1946 e quella teorizzata da Kelsen in innumerevoli scritti.

Non si spiega altrimenti l’accanimento con cui è stata finora condotta la campagna elettorale, soprattutto se si pensa al silenzio omertoso che ha circondato nel 2012 la riforma – di ben altro spessore sistemico – dell’art. 81 della Costituzione: invece oggi un poetico sostenitore della riforma la spara così grossa da arrivare a scrivere che si vota non tanto “sul quesito referendario, quanto piuttosto sull’Italia: l’Italia del cambiamento contro l’Italia della conservazione. Nuova contro vecchia generazione. Una nuova classe dirigente che ci prova contro quell’altra che ha già fallito. Il canto della speranza contro la cultura del piagnisteo” (corsivo mio, brano di M. Adinolfi in “Il Mattino” del 7 novembre 2016).

Quei 41 articoli privi di ogni orizzonte di sistema che non sia quello di un uso congiunturale delle istituzioni, mal scritti e pasticciati (si pensi all’art. 10 che sostituisce l’attuale art. 70); pieno di contraddizioni (aboliscono la potestà legislativa concorrente, ma introducono il potere statale di emanare “disposizioni generali e comuni” o “disposizioni di principio”); di irragionevolezza (penso alla sproporzione fra il numero dei deputati e quello dei senatori); di lacune (mancano all’appello norme disciplinanti il voto di sfiducia costruttiva, le commissioni parlamentari di inchiesta attivabili dalle opposizioni, l’attribuzione a un giudice delle competenze in materia di contenzioso elettorale…); di inspiegabili esibizioni di quello che Sartori chiamava “novitismo” (il referendum reso contemporaneamente più e meno praticabile; i cinque senatori settennali nominati dal Presidente della Repubblica, del tutto estranei alla logica territoriale cui è informato il Senato e in grado di configurare un partitino presidenziale più consistente di molte rappresentanze regionali); di incongruenze (su un organo gracile come un bambino settimino si scaricano competenze del peso di quelle enumerate al quinto comma dell’art. 1; allo stesso organo, pur concepito a basso tasso di democraticità, si coattribuisce la più importante competenza legislativa, quella di revisione costituzionale)…

Questi 41 articoli – dico – i cui quorum di garanzia sono strutturalmente falsificati dalla logica ipermaggioritaria che presiede alla trasformazione dei voti in seggi, avrebbero meritato un severo dibattito accademico su riviste del tipo di “Foro italiano”, di “Giurisprudenza costituzionale”, di “Giurisprudenza italiana”. E invece la “discussione” è rimbalzata sui media più diffusi, sulle piazze, reali o virtuali, più affollate, sbandierando una marea di sciocchezze come la riduzione dei costi della politica (quantificabile in percentuali irrisorie, da destinare, proprio perché tali, ai poveri); la velocizzazione della produzione legislativa (in palese contraddizione con l’altra propaganda che snocciola il numero impressionante di “riforme” – in altre parole, di mutamenti peggiorativi dell’esistente in tema di dignità del lavoro, “buona” scuola, pubblica amministrazione; quanto alla stepchild adoption si dimentica di dire che non è stato il bicameralismo, ma il tricameralismo occulto, se si aggiunge il Vaticano, previsto dalla Costituzione materiale a bocciarla) in un paese unanimemente considerato affetto da bulimia e non da astenia legislativa; e poi, e poi…

Tutto questo per cercare di distogliere l’attenzione dal bersaglio grosso che la riforma vuole centrare. Furono ammutoliti e derisi a suo tempo coloro, quorum ego, che vedevano nell’elezione diretta e personalizzata dei tre vertici delle amministrazioni locali, prove d’artista prima di forgiare il capolavoro: il sindaco o il governatore d’Italia, eletti con un sistema che di fatto funzionerebbe come quello che Israele, dopo averlo provato per qualche anno, ha precipitosamente abbandonato.

È possibile che il 4 dicembre questo disegno venga momentaneamente respinto, tenendo conto che la maggioranza dell’ultima votazione alla Camera rappresenta una minoranza del corpo elettorale; dico “momentaneamente” perché in ogni caso sarà difficile trasformare una vittoria giuridica (a portata di mano, dal momento che il referendum, pur con tutte le sue criticità, è l’unica consultazione popolare in cui il legislatore non può barare con alchimie che assegnano a un voto un valore giuridico che va da zero a due, così creando maggioranze parlamentari artificiali): il vento della storia continuerà a considerare la “governabilità” il bene assoluto (basti pensare che l’Italicum parla di partiti e gruppi politici “che si candidano a governare”) e la rappresentatività un fastidioso optional, e il costituzionalismo sarà sempre più soppiantato dall’ingegneria costituzionale: la quale, peraltro, non necessariamente deve identificarsi con i crismi della sciatteria, dell’arroganza, della “vertigine del nuovo” (Dogliani), dell’arbitrarietà esibiti in questa occasione, e può persino essere gestita da uomini politici di valore (penso a un Mendès France e al suo disperato tentativo di rianimare la IV Repubblica) e non orgogliosi della loro “straordinaria inesperienza” (copyright Marianna Madia).

Già ora comunque si deve prendere atto dei danni collaterali irreversibili che questa dissennata “guerra” ha prodotto: fra quelli che mi stanno più a cuore segnalo il fatto che ancora una volta la Costituzione da casa comune è stata per sempre trasformata in campo di battaglia, nel quale la fa da padrone la logica amico-nemico, nonché in capro espiatorio che maschera le enormi insufficienze della classe politica; che è stato distrutto il patrimonio culturale inestimabile rappresentato da un giornale come l’“Unità”, ormai ridotto a scendiletto corrivo dell’ex democristiano insediato a Palazzo Chigi (quasi come l’“Avanti!” finito nelle mani di Lavitola); che l’Oscar per la posizione più indifendibile assunta in questa vicenda tocca alla sinistra PD, ora a rischio di scissione dell’atomo; che una finora dignitosa corporazione scientifica – quella dei costituzionalisti – si è sbranata al suo interno in un conflitto autodistruttivo, lasciando solo macerie di servilismo troppo impudico e di antagonismo troppo indignato. Il 5 dicembre sapremo, fra le tante altre cose, chi sarà sommerso e chi sarà salvato. E temo che non si faranno prigionieri.