“Quanto più il Nord abbandona il Sud, tanto più l’Italia si smarrisce”. Secondo Adriano Giannola, presidente di Svimez, il Sud va anzitutto ricostruito, con un progetto che consenta all’Italia di recuperare nel Mediterraneo il ruolo di cervello logistico del Sud Europa.
L’economista Adriano Giannola, oltre a essere il presidente della Svimez – l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – è una voce ascoltata ad Harvard e a Cambridge e un profondo conoscitore delle dinamiche economiche italiane ed europee. In questa fase di timido riformismo post pandemia non cela il suo disappunto per il fondato timore che l’Italia non riesca, nemmeno adesso che il contesto europeo lo permette, a trovare il bandolo della matassa, la strada che le consenta di uscire da quella che vede come “una crisi ormai ventennale”.
Del Sud Italia si ha spesso una immagine stereotipata e immobile. E in ogni caso, una volta enunciati i problemi annosi che si porta dietro, non viene mai detto in quale trasformazione dovrebbe inserirsi. Per lei, professore, cosa è il Sud e cosa dovrebbe essere?
Il Sud è l’Italia: un elemento drammaticamente condizionante e al contempo un patrimonio straordinario, disponibile, da mettere a valore con atti e interventi concreti. Non è elegante, né politicamente corretto sottolinearlo, ma prima di tutto occorre dirci con serena chiarezza che dobbiamo fare i conti con il fatto scomodo – oggi più evidente di ieri – che l’Italia è un sistema profondamente dualistico, anche se dal 1992 facciamo di tutto per non vederlo, per illuderci di essere normali con il non piccolo effetto collaterale di peggiorare la condizione e le patologie endemiche del Mezzogiorno. Il risultato è che invece di far leva sulle opportunità evidenti, insistiamo a parlar d’altro, quasi per esorcizzare uno stigma: l’inferno di cui scriveva Giorgio Bocca.
Prima ci svegliamo e meglio è. Non sembra che il Nord se ne avveda e neanche Roma, sempre più pallida regista, rassegnata a una rotta senza stelle polari. Uno per tutti, il neo-presidente di Confindustria insiste nel dopo-pandemia sull’assioma che l’Italia è il Nord, e neanche tutto, perché siamo ormai al ridotto Lombardo-Veneto-Emiliano, senza Piemonte e Liguria (che aspirano a restare ospiti nel club) e neppure la Toscana, patria nobile di un distrettualismo che doveva metterci al riparo dalle insidie della globalizzazione. Una retorica cara dal 1998 alla didascalica pedanteria della “nuova programmazione” somministrata al riottoso Sud.
È del tutto evidente che l’inestimabile patrimonio produttivo del Nord, motore e regista dell’economia nazionale necessita di manutenzioni significative e di rivedere il suo ruolo in un contesto globale in seria ristrutturazione. In particolare, va preso atto che da quando cavalcando la questione settentrionale ha rivendicato e gestito in solitudine il ruolo, sempre più esclusivo, di locomotiva (dalla riforma del titolo V, fino al fuoco fatuo dell’autonomia rafforzata del governo giallo-verde) esso ha clamorosamente fallito, non ha saputo cogliere non solo l’obiettivo-Paese ma anche quello di superare il confronto con i competitor. Si è così ingigantita la contraddizione per la quale il ruolo orgogliosamente rivendicato di seconda manifattura d’Europa, lungi dal lenire, si è accompagnato al progressivo deterioramento dell’Italia, oggi grande malato d’Europa.
Il dramma è che c’è della logica in questa follia che induce il Nord a interrogarsi ossessivamente su come risolvere la propria crisi fino adapprodare all’idea di farsi Stato.
Ma ora che il corto circuito dell’epidemia ci mette con le spalle al muro, questa ossessione che accampa pretese in barba alla Costituzione e alle condizionalità dell’Unione (sostenibilità e riduzione delle disuguaglianze) non farà che accelerare l’eutanasia del Sud e con essa il collasso del Paese. Non si è ancora compresa la portata dell’effetto boomerang prodotto dalla vicenda dell’autonomia, reso manifesto dall’operazione verità che tra il 2018 e il 2019 ha analiticamente documentato l’impatto territoriale delle asimmetriche somministrazioni di austerità (spesa storica docet) che ha intaccato diritti di cittadinanza, spaccando il Paese in due sottoinsiemi accomunati da una crescente ma asincrona debolezza.
Garantire una razionale revisione al motore lombardo-veneto-emiliano è altra cosa dal perseverare nella fallimentare esperienza illustrata in grande dettaglio dall’operazione verità. È invece del tutto evidente, come sosteniamo alla Svimez da anni, che il Paese ha l’esigenza di attivare un secondo motore, cosa che può venire solo dal Mezzogiorno. Se così non sarà l’Italia si condanna a inseguire in perpetuo il miraggio di recuperare una mitica “quota 2007” del Pil. Un traguardo che i prevedibili risultati 2020-2021 allontanano di altri 5-6 anni al Nord e di 14-15 anni al Sud, mentre tutti (tranne la Grecia) lo hanno ampiamente superato da molti anni. In altri termini, il fossato tra noi e gli altri rischia di divenire incolmabile. L’esigenza della “ricostruzione”, che si aggiunge ora a quella del “recupero”, non si soddisfa aspettando di gonfiare le vele con il vento del Nord o con la miracolosa industria 4.0; tutte cose necessarie per galleggiare, se va bene, non per tornare a navigare.
Dove si è sbagliato?
Bisogna fare uno sgradevole ma necessario processo alle intenzioni e dire che mentre le reiterate Agende della sedicente politica di coesione hanno egregiamente funzionato non per lo sviluppo ma solo per ibernare – come da programma – il mal meridionale, molto meno efficace è risultato il motore centro-settentrionale in questa sconclusionata strategia complessiva senza modello. La Lombardia, l’Emilia, il Veneto sempre più integrate con la Germania tra il 2000 e il 2017, hanno perso in termini di reddito pro-capite tra il 25 e il 30% rispetto alla media dell’Unione e rispettivamente 25, 29, 34 posizioni tra le regioni d’Europa. Il Piemonte ha fatto molto peggio su entrambi i fronti, retrocedendo di 58 posizioni e con un reddito pro-capite sceso dal 131% a un 102% pre-pandemia che lo candida già nel 2010 a entrare tra le regioni in transizione e, a breve, tra quelle della coesione. Lo stesso dicasi per la Toscana e – a ruota – per il Friuli Venezia Giulia, mentre sono già retrocesse Umbria e Marche. Al ritmo attuale (e senza tener conto dell’accelerazione indotta dal virus) tra pochi anni il Meridione economico annetterà Toscana e Piemonte. Non siamo né diventeremo la Mitteleuropa, proprio no, e questa illusione la stiamo pagando cara.
Nei decenni in cui si celebrava l’autopropulsività a macchia di leopardo del Sud e l’originalità del modello italiano centrato sui distretti industriali, si teorizzava anche che il potere monopolistico fosse patrimonio intrinseco messo al sicuro dalle tante piccole imprese distrettuali, “progetto di vita” operanti all’unisono, come uno sciame d’api; un’armonia che rendeva il distretto simile alla grande impresa oligopolistica. Una illusione presto tramontata dal 1998, quando l’euro ha rapidamente chiarito che il “vero” scudo non era l’operoso sciame distrettuale, bensì la reiterata prassi della svalutazione competitiva del cambio per di più garantita dalla protezione di un mercato europeo, per noi “domestico”, fortemente protetto.
Mi permetta una domanda politica: è per questo, allora, che anche in Toscana, addirittura in Campania e nelle Regioni del Sud è cresciuto il voto per la Lega?
Sembra plausibile correlare i successi della Lega in Toscana e anche in Emilia alla crisi del modello distrettuale che aveva una forte connotato inclusivo, cooperativo, partecipativo. Diversa ritengo sia la motivazione del (relativo) successo della Lega nel Mezzogiorno dove i valori distrettuali non hanno mai significativamente inciso sulla società locale. Qui la Lega adotta, per così dire, una strategia opportunisticamente speculativa che punta a intercettare e raccordare al populismo senza strategia che predica al Sud le svariate e fluttuanti reti relazionali sensibili e permeabili all’atavico esercizio del trasformismo e che attraggono gli arrabbiati, i discriminati che certo non scarseggiano al Sud. Anche il Movimento 5 Stelle, per vie diverse, a tutto campo ha ampiamente beneficiato di questi spazi. A Napoli i corifei leghisti sono spesso più o meno direttamente i legittimi eredi di quelli che nel ’68 definivamo i mazzieri, nostalgici del Ventennio, mentre la valanga dei voti meridionali al M5S, documenta l’informe sfaldamento dell’identità progressista nel Mezzogiorno. In questo inverno del nostro scontento la trasformazione e ricomposizione del blocco sociale vive e compete per gestire bandi e risorse a valere sui fondi strutturali e di coesione, con bassissima capacità – come noto – di visione, di progetto e di realizzazione.
Mettendo assieme i pezzi, direi che quanto più il Nord abbandona il Sud tanto più l’Italia si smarrisce. Cominciano a capirlo la Germania e il Nord Europa, consapevoli che perdere il Mezzogiorno è perdere l’Italia e con essa il Mediterraneo, cioè la frontiera Sud dell’Unione. È questo rischio che l’Europa oggi sembra voler scongiurare, mentre le Regioni del Nord, il presidente di Confindustria, non riescono nemmeno ad alzare la testa e guardare oltre. Eppure, parlano chiaro le loro performance relativamente deludenti nonostante la micidiale efficacia delle, per loro premiali, pratiche estrattive. Né vedono il montare del macroscopico problema perequativo ormai agli atti di commissioni parlamentari, confermato dal ministro competente e che incombe come una pericolosissima bomba a orologeria da disinnescare. La candida provocazione che raccomanda di concentrare risorse e tecnologia sui territori più integrati e vocati, mettendo in conto la “necessità” di abbandonare le aree più deboli, spiega forse il paradosso del nostro disinteresse per il Mediterraneo, dove assistiamo oggi all’arrivo dei turchi e in prospettiva dei russi.
Adesso il governo Conte bis ha adottato un Piano per il Sud, approntato dal ministro Peppe Provenzano che se non sbaglio viene proprio dalla Svimez. Ma alcuni economisti lo hanno criticato per la scarsa dotazione di risorse. Condivide?
Il ministro Provenzano mi sembra intento al difficile compito di rivendicare il controllo delle risorse, condizione indispensabile per avviare qualsiasi seria iniziativa strutturale. Come ministro della Coesione punta a imporre l’applicazione della famigerata clausola del 34% e un controllo sul fondo sviluppo e coesione. Su molte cose del piano sono d’accordo, su altre meno, ma ritengo essenziale che in concreto egli sia in grado di muovere i primi passi per attivare il famoso motore del Sud spento da decenni. Da questo punto di vista definire e mettere in campo una strategia coordinata sulle attuali 4 ZES (Zone economiche speciali) meridionali e sulle altre 8 potenzialmente attivabili ritengo sia un impegno prioritario e urgente. Mi auguro che la pur circoscritta attività sia decisiva per imporre nei fatti al governo il tema vitale della nostra funzione euromediterranea, indispensabile per il futuro del Paese. Tatticamente il ministro può nuotare sott’acqua verso questi obiettivi e immagino che sia quello che sta cercando di fare, essendo anche ben consapevoli che costruire una strategia comune per il Sud e per il Paese non dipende solo da lui.
Non si può negare che esista un problema di imprenditorialità al Sud, di aziende con dimensioni troppo piccole, senza reti di supporto, senza servizi, banche, pochi investimenti, poco credito, fatiscenti cattedrali nel deserto. Senza parlare della criminalità, che ormai si è spostata con la testa economica a Nord. Quale piano industriale potrebbe invertire la rotta?
È apparentemente semplice, ma in realtà dannatamente complicato. Con le differenze del caso si tratta di fare quanto si realizzò con incredibile velocità ed efficacia in passato. Oggi si tratta in primis di riattivare, costruire un disegno ben preciso di interventi infrastrutturali, a partire da ospedali, scuole, strade, porti e connessioni. Lo slogan dovrebbe essere: spesa in conto capitale invece di bonus e sussidi, per garantire sostenibilità, ridurre squilibri, disuguaglianze ottemperando alle condivisibili condizionalità dell’Unione. Aiuta ma non ritengo sia prioritaria una fiscalità di vantaggio: il Sud va anzitutto ricostruito, con un progetto – il Mediterraneo – e per farlo serve mobilitare e attrarre risorse, definire impegni di medio-lungo periodo: solo quelli faranno entrare in campo gli imprenditori, classe dirigente disposta, a ragion veduta, a rischiare e investire. Gli strumenti ci sono, come la già citata clausola del 34% (già prevista nel decreto Mezzogiorno del 2017, prevede che il 34% degli investimenti pubblici siano incanalati al Sud, ndr), i fondi europei e quelli nazionali del fondo Sviluppo e coesione, tutti rigorosamente aggiuntivi alla quota 34%: sarebbe una rivoluzione alla quale potrebbe contribuire anche la BEI.
Si tratta di spostare il baricentro produttivo verso Sud con buona pace di ricette, di pura testimonianza di mobilitazione sociale, affidate alla regia del privato-sociale settentrionale che con un opportuno quanto insufficiente senso di colpa interviene a ridurre il macroscopico squilibrio di risorse filantropiche alimentando la “virtuosa” dipendenza assistita del Terzo settore. Tutto ciò non deve far perdere di vista l’obiettivo di mettere in campo un’iniziativa che consenta all’Italia di recuperare nel Mediterraneo il ruolo di cervello logistico dell’Europa del Sud, a simmetrica corrispondenza del Northern range del mare del Nord. È questo il senso e la richiesta implicita che motiva la disponibilità della Commissione europea verso l’Italia; un importante segnale di consapevolezza che il Sud serve, che è indispensabile all’Europa, anche a quella del Nord.
Svimez ha più volte suonato l’allarme sullo spopolamento del Sud, tra giovani che partono e invecchiamento della popolazione. Nel prossimo anno accademico prevede un crollo delle immatricolazioni universitarie.
È l’eutanasia del Sud di cui parlavo prima. Non lo dice solo la Svimez. Lo dice la Banca d’Italia e lo dicono i dati Istat. Già nel 2035 gli italiani residenti al Sud saranno 1 milione e mezzo in meno e, nel 2065, 5 milioni in meno; di conseguenza il Pil si ridurrà del 40% al Sud, e del 20% al Nord. Questo avverrà se si continuerà a non dare prospettive, a non recuperare la partecipazione femminile al mondo del lavoro. Ma agli Stati generali dell’Economia convocati a Villa Pamphilj si è parlato di questo? Non mi sembra. Oggi sono i tedeschi a dirci di far fronte a queste prospettive correggendo le nostre diseguaglianze e i nostri problemi strutturali.
C’è anche una resilienza del Sud e molti giovani che si erano trasferiti al Nord o erano espatriati, con la pandemia, sono tornati. Ventimila soltanto in Calabria.
Sono tornati tutti, di corsa, e mediamente vorrebbero restare. È una reazione psicologica comprensibile, una sorta di orgoglio mista a una reazione polemica, una prova di forte identità culturale. Ma è chiaro che se non verrà affiancata da una prospettiva concreta, ripartiranno.
Il 60 per cento del reddito di cittadinanza è stato elargito nelle Regioni del Sud. Cosa ne pensa?
È da chiarire anzitutto che il reddito di cittadinanza è una risposta all’emergenza, ma non è la soluzione dell’emergenza. Fa sorridere sentire parlare di una corrispondente riduzione della povertà quando la povertà oggettivamente rimane identica, ma in forme assistite viene diversamente contabilizzata (il tutto, purtroppo, a debito). In secondo luogo, direi che reddito di cittadinanza e lavori pubblici dovrebbero, per quanto possibile, essere soluzioni alternative da verificare gestendo la platea degli aventi diritto con grande attenzione. La quota degli assistiti che può essere impiegata in lavori pubblici a parità di spesa non solo riduce effettivamente la povertà ma, alla lunga, realizzando un progetto, in tutto o in parte consente di rientrare dal debito acceso per realizzarlo. Il che è un fondamentale elemento da valutare anche in considerazione dell’esigenza di contenere il rischio di insostenibilità finanziaria insito nella gestione del disagio sociale.
Penso che – ferma restando la necessità di dover far fronte all’emergenza – la priorità nell’impegno di risorse è quella di rendere “produttiva” la lotta alla povertà.
C’è poi da sfatare l’enfasi sulla valenza economica espansiva “di mettere i soldi in tasca agli italiani”, alla quale il reddito di cittadinanza non si sottrae. L’idea secondo la quale sono i consumi a dare il tono dell’economia fa un riferimento del tutto improprio a Keynes e, anzi, di fatto, avalla un approccio profondamente anti-keynesiano. Keynes partiva dagli investimenti e dalle altre componenti autonome della domanda aggregata e conta sul ruolo passivo, inerziale, dei consumi come affidabile veicolo di propagazione degli stimoli sempre riconducibili alle componenti autonome della domanda. Inoltre l’approccio keynesiano, per esser utilmente adottato, va attentamente calibrato rispetto a un contesto che nel nostro caso è di disoccupazione strutturale e non congiunturale, problema reso ancor più complesso dal dualismo italiano, che richiede di praticare politiche di sviluppo poco compatibili con la tradizionale regolazione della domanda aggregata.
Al momento ci sono 12 milioni di persone allo sbando, gli abitanti di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e 4 Zone Economiche Speciali (Bari, Gioia Tauro, Napoli, Taranto), sedi di porti tra i migliori del Mediterraneo. Mettere effettivamente in azione le 4 ZES (ZES, istituite nel decreto Mezzogiorno del 2018, ndr), potenzialmente potrebbe avviare una “macchina” in grado di cambiare l’equilibrio e la dinamica del Paese, iniziando a realizzare quel polo logistico del Mediterraneo simile, concorrente e per alcuni versi alternativo a quello del mare del Nord tra Amburgo e Rotterdam. Abbiamo la possibilità di mettere a valore una rendita enorme per la cui fruizione occorre mettere in campo progressivamente investimenti altrettanto enormi, non enormi sussidi. Fin da ora si può procedere celermente puntando a collegare da sponda a sponda l’Adriatico al Tirreno, realizzando un corridoio euromediterraneo di grande rilievo e potenzialità, un collegamento trasversale che riporta a centralità e quindi a nuove prospettive di vita periferiche e ora desertificate zone interne del Mezzogiorno continentale.
Nell’appello “In salute, giusta sostenibile. L’Italia che vogliamo”, la campagna Sbilanciamoci! immagina la mobilità integrata come uno degli elementi chiave per investire in un’economia sostenibile sul piano ambientale. Se non ho capito male, lei è d’accordo.
Perfettamente. L’asset strategico al quale facevo prima riferimento è lo sviluppo della logistica a valore. Come Svimez lo diciamo dal 2008. Con le 4 attuali Zone economiche speciali possiamo innescare, proprio a partire dalla logistica a valore, la rivitalizzazione del Sud. Io lo chiamo “il quadrilatero del Mezzogiorno”: il potenziamento dei porti e dei retroporti di Napoli, Bari, Taranto, Gioia Tauro e domani Catania, Augusta, trasformati e finalizzati, come ad esempio a Tangeri. Per tutto ciò è indispensabile realizzare zone doganali intercluse, bonificare e attrezzare a distripark, i retroporti, dove ospitare attività logistiche e di trasformazione. Queste Zone economiche speciali devono avere una loro autonomia e uno speciale regime semplificato, funzionare anche da laboratorio esemplare, divenire significativi poli di attrazione e determinare effetti sui territori circostanti. Il modello di semplificazione burocratica va implementato adeguandosi alle più efficaci esperienze dell’Unione; per esempio, a Rotterdam le procedure di sdoganamento si effettuano quando ancora si è in navigazione mentre ancora le nostre procedure richiedono più giorni dall’arrivo in porto.
Non crede che la criminalità potrebbe approfittarne?
Si possono stabilire procedure e controlli sistematici rapidi e mirati. A Gioia Tauro, porto molto attrezzato per il transhipment, manca un retroporto commerciale anche per l’effetto dissuasivo di condizionanti infiltrazioni criminali particolarmente interessate al traffico della droga. Il governo del territorio si impone quindi come priorità assoluta, tanto più per una ZES. Il tema si rivela in tutta la sua importanza se consideriamo che le attuali quattro esistono da tre anni ma ancora non operano e che se ne possono fare altre 8, nel Mezzogiorno (due per ogni Regione), e che ad esse possono affiancarsi Zone Logistiche Semplificate nel Nord. La perdurante paralisi triennale, la dice lunga su come viene intesa e temuta – non solo dalla criminalità – questa prospettiva; occorre quindi agire, evitare di fornire alibi che finirebbero per pregiudicare la possibilità stessa di realizzare il mutamento di rotta che le ZES possono determinare: questa prospettiva non può rimanere un’intenzione, né essere elusa.
È stata diffusa una bozza del prossimo Decreto Semplificazioni che sospende il codice appalti, accelera la valutazione d’impatto ambientale, limita al dolo l’abuso d’ufficio. Per lei è la strada giusta?
Non sono in grado al momento di giudicare il modello di semplificazione proposto ma, per riagganciarmi alla precedente domanda, questo adempimento è ineludibile proprio per consentire l’avvio delle ZES. Per certi versi semplificazione-legalità-criminalità sono temi strettamente correlati attorno ai quali si intrecciano e proliferano pratiche burocratiche poco esemplari spesso incomprensibili o rituali, incompatibili con lo spirito e la pratica che deve caratterizzare attività di natura strategica. Certo, servirebbe procedere alla realizzazione delle opere pubbliche dovendo presentare non trenta ma una certificazione unica; andrebbero calibrati i vincoli ambientali alla luce di specifiche fattispecie predefinite ex ante – ad esempio – per le aree portuali e retroportuali. Per non parlare di intervenire su poteri di incerta utilità e competenza, che pretendono di presidiare territori a destinazione specifica e vincolata.