La Cina si sta riprendendo dall’epidemia. La Banca Mondiale ne prevede una crescita nel 2020 del 2,3%. Negli Usa e a Londra c’è chi chiede il suo soccorso all’economia mondiale. Pechino punta sull’Europa e lancia un nuovo standard per le tecnologie dell’informazione.
Da quando è scoppiata l’epidemia del coronavirus, la Cina è stata costantemente sotto i riflettori del resto del mondo e pensiamo che lo resterà ancora a lungo, anche se le ragioni di tale interesse per il paese asiatico sono cambiate nel tempo e dovrebbero cambiare ancora.
La direzione dell’attenzione cambia nel tempo
L’arrivo dell’epidemia nel paese asiatico è stata dapprima osservata con un certo distacco, come un affare lontano, solo con un poco di timore, semmai con scoppi qua e là di razzismo e di dicerie assurde (“i cinesi mangiano i topi vivi”; “quelli che in Cina non rispettano le regole vengono fucilati sul posto”). Successivamente, invece, il paese è stato guardato sempre più con rispetto e meraviglia, prima per come è riuscito a costruire degli ospedali dal nulla a tempo di record, poi soprattutto per la sua abilità nel domare pressoché totalmente il morbo, almeno sino a questo momento.
Questo anche se i commenti, sui media occidentali, si sono concentrati contemporaneamente sul come trovare i punti deboli, veri o presunti, di tutta la faccenda; si è così sottolineato il forte ritardo del paese nell’attaccare il problema, si è suggerito che i dati ufficiali non erano veritieri, si è persino parlato, su testate molto autorevoli, di uno stato di quasi rivolta della popolazione contro il governo, con possibilità di rovesciamento del “regime”. Molti si sono anche parallelamente esercitati nel complicato e in parte almeno grottesco esercizio di distinguere un modello “democratico” alla guarigione, come quello della Corea del Sud e di Taiwan, da quello autoritario cinese. E certamente problemi e ritardi non sono mancati, ma essi sembrano giustificati, almeno in parte, dalla novità del fenomeno.
Ora l’attenzione verso la Cina ha ancora cambiato obiettivi ed essa è riposta, per una parte importante, sugli aiuti che dal paese asiatico stanno partendo in tutte le direzioni, come sostegno ad altre contrade per combattere il virus. Solo tale paese dispone di produzioni in quantità adeguata nel settore; sembra, ad esempio, che le fabbriche locali siano in grado di produrre almeno 130 milioni di mascherine al giorno. Tutto il pianeta, in una corsa caotica, sta implorando ora la Cina per ottenere le mascherine di protezione e i preziosi ventilatori.
Anche in questo caso si cerca da più parti, comunque, di sottolineare soprattutto gli aspetti negativi, più o meno reali, di tali spedizioni. Arriviamo al paradosso di un ministro francese che, subito dopo che il proprio governo aveva firmato con la Cina un contratto per la fornitura di 1 miliardo di mascherine, ha attaccato il paese asiatico come colpevole di fare della propaganda con le sue consegne di materiale sanitario al resto del mondo.
Intanto anche negli Stati Uniti montano, a destra come a sinistra, da Mike Pompeo ad Elizabeth Warren, i toni nazionalistici contro la Cina e contro la troppa dipendenza statunitense dalla produzioni di quel paese, nel caso delle mascherine come in quello dei medicinali. Ma il fatto è che, se esse non arriveranno al più presto dall’Oriente, gli americani mancheranno crudelmente di attrezzature adeguate per combattere la pandemia, con tutte le conseguenze prevedibili. Questo sembra comunque spiegare i toni più concilianti che almeno Donald Trump ha cominciato, sia pure tardivamente, ad usare verso “i suoi amici cinesi”. Per altro verso, quanto durerà la tregua?
Ma l’attenzione di molti commentatori sta andando ora sempre più, al di là della questione della consegna delle mascherine, verso la possibilità che, come nel 2008-2009, la Cina aiuti il resto del mondo a uscire dalla crisi economica che avanza a larghi passi. Il 2 aprile viene annunciato che negli Stati Uniti si registrano già 10 milioni di disoccupati.
Comunque, mentre da una parte ci si interroga sul possibile ruolo della Cina nella eventuale ripresa mondiale, dall’altra ci si può anche domandare, guardando ad un orizzonte un poco più distante, oltre il coronavirus, in che direzione si muoverà il paese sul piano economico, all’interno e nei suoi rapporti con il resto del mondo.
Il possibile ruolo della Cina nella ripresa
Fa indubbiamente una certa impressione vedere come il comitato editoriale del Financial Times, il quotidiano che in qualche modo è espressione della City, arrivi in questi giorni quasi ad implorare il paese asiatico, in una sua nota (The Editorial Board, 2020), perché aiuti il resto del mondo ad uscire dalla crisi, mentre appaiono i segnali di una rilevante ripresa delle attività economiche in quelle contrade.
Il comitato editoriale ricorda che nel 2008 la Cina, con un rilevante sforzo finanziario, aiutò anche il mondo a riprendersi, mentre riconosce peraltro che la situazione oggi è molto diversa. Ormai il paese è fortemente indebitato, anche in relazione allo sforzo di allora, e può quindi permettersi meno facilmente di lanciare un piano della stessa dimensione di quello messo a suo tempo in campo.
I suoi sforzi, continua l’editoriale, sono ora rivolti in via prioritaria a mantenere sotto controllo tale livello di debito, mentre comunque il gruppo dirigente sembra anche avere meno interesse di allora a fare qualcosa per risollevare il resto del mondo, potendo anche ormai oggi, tra l’altro, contare, rispetto ai tempi della crisi precedente, su di una molto più robusta presenza di un mercato interno, che forse si riprenderà abbastanza rapidamente senza bisogno di grandi stimoli.
Ma la Cina, afferma l’editoriale, deve riconoscere che il suo destino è legato a quello del mondo, al di là del fatto che le sue relazioni con gli Usa sono ora molto conflittuali e che all’inizio essa veniva puntata al dito da tutte le parti per lo scoppio del virus. Il suo interesse di fondo va, dice sempre il giornale, nel senso di acquisire un ruolo di punta nella ripresa economica mondiale. Operativamente, tra l’altro, la Cina dovrebbe tendere, secondo il Financial Times, ad accrescere le sue importazioni e a mantenere fisso il cambio del renmimbi contro il dollaro.
In ogni caso va sottolineato che, per quanto riguarda l’andamento del pil del paese nel 2020, mentre la Banca Mondiale prevede una sua crescita del 2,3%, fonti interne parlano invece, negli ultimi giorni, di un 5,0%.
Intanto cambiano i rapporti di forza
I giornali statunitensi, certamente con analisi e conclusioni molto diverse da caso a caso, si vanno interrogando da tempo sul mondo che uscirà dal cappello dopo il coronavirus. Anche alcune testate tradizionalmente di orientamento “atlantico” ospitano ormai correntemente, in particolare, opinioni piuttosto pessimistiche sulla capacità degli Stati Uniti di mantenere ancora il loro ruolo egemonico nel mondo di fronte ad un’emergente Cina.
Così, diverse riviste che sino a ieri mostravano in generale, nei contributi ospitati nelle sue pagine, una incrollabile fiducia nella capacità degli Stati Uniti di mantenere la loro presa sul globo, ora vengono anch’esse prese dai dubbi. Ad esempio, un recente articolo pubblicato da Foreign Affairs Today (Campbell, Dashi, 2020) sembra abbastanza rappresentativo di questa tendenza.
Come il 1956 con l’avventura di Suez la Gran Bretagna perse lo status di grande potenza, ora in questa occasione, afferma la rivista, se gli Stati Uniti non si mostreranno all’altezza della situazione, dovranno anche essi registrare il loro “Suez moment”. Bisogna a questo proposito riconoscere che il mondo, continua l’articolo, ha perso la fiducia nella capacità e competenza degli Usa, sia per quanto riguarda il suo settore pubblico che quello privato, nel governare le cose del mondo. In questo vuoto si sta infilando Pechino, tendendo a prendere il suo posto come leader globale.
Per altro verso, altri commentatori sottolineano come, in realtà, la crisi da coronavirus accelererà un mutamento che non è certo improvviso e che è già iniziato da tempo; ci si sta muovendo, in sostanza, per tali opinionisti, da una globalizzazione usacentrica verso una globalizzazione cinocentrica.
In realtà e per altro verso la Cina non sembra avere alcuna voglia di diventare il nuovo gendarme del mondo e neanche il suo egemone; quello a cui essa mira sembra essere, invece, la volontà di continuare a sviluppare la sua economia e ad aumentare il livello tecnologico delle sue produzioni, assicurando parallelamente un posto di lavoro ai suoi abitanti.
Tra qualche tempo la tregua trumpiana finirà ed è probabile che riparta l’offensiva statunitense sul commercio, le tecnologie, i diritti umani, l’influenza geopolitica, allargando ancora, così, la divisione tra Usa e Cina (Tisdall, 2020), mentre per altro verso l’Europa si troverebbe costretta in una specie di terra di nessuno.
Così, sembra gravare per i prossimi mesi una possibile minaccia sui rapporti internazionali, in particolare quella derivante da un forte aggravamento del blocco statunitense contro l’esportazione di prodotti strategici (dai chip ai motori per aerei) verso la Cina, con Trump che potrebbe anche spingere su tutti i suoi alleati perché partecipino a tale tentativo (ma chi lo seguirà?) (Tisdall, 2020).
Se questa mossa, di cui si intravedono i primi segnali, dovesse andare veramente avanti, si aprirebbe, con le prevedibili dure contromosse cinesi lasciate intravedere dalla stampa locale (Global Times, 2020), un periodo molto turbolento per il mondo.
Le mosse di lungo termine
- I chip
Al di là degli effetti immediati della crisi da coronavirus sull’economia del mondo e sui suoi equilibri geopolitici, ci si può chiedere in ogni caso quali saranno le linee guida tendenziali che il paese asiatico perseguirà nel campo economico e finanziario dopo la fine, più o meno precaria, della crisi.
È ovviamente difficile prevedere con accuratezza tutte le strategie che la Cina metterà in campo per continuare a svilupparsi nei prossimi anni e per affermare la sua forza economica nel mondo; altrettanto difficile valutare se e come le linee guida precedenti siano state modificate dalla crisi. Si intravede, in ogni caso, un possibile rafforzamento della spinta del paese verso l’esterno.
Cerchiamo a questo punto di mettere in evidenza soltanto alcuni aspetti relativi ai suoi rapporti con il resto del mondo.
Anche nel pieno della crisi da coronavirus, anche a Wuhan, l’attività dei centri di ricerca e produzione di chip avanzati non si è mai fermata. È noto che è questo il settore in cui il paese mostra le sue più grandi debolezze tecnologiche; ancora oggi l’importazione di tali prodotti – da imprese coreane, di Taiwan, degli Stati Uniti in particolare –, rappresenta la prima voce della bilancia commerciale cinese, prima del petrolio e del gas, mentre sino a qualche tempo fa la situazione appariva molto difficile.
Ma negli ultimi anni i grandi investimenti stanziati dal governo per il settore, nonché il reclutamento in tutto il mondo di un grande numero di tecnici e scienziati, comincia a dare i suoi frutti (Cheng Ting-Fang, Lauli Li, 2020). Stanno aprendo nel paese diverse grandi fabbriche nel settore ed entro qualche anno la dipendenza dall’estero dovrebbe essere relativamente ridotta, anche se certamente non annullata. Intanto lo sfrozo, sotto le minacce di Trump, si accelera. - La Belt and Road Initiative in Europa
Sul fronte estero, invece, continua, sia pure con le difficoltà del momento, la grande spinta agli investimenti nella Belt and Road Initiative. Sembra, a questo proposito, che negli ultimi tempi grandi sforzi si dirigano per una parte importante verso l’Europa, con la messa sul piatto di centinaia di miliardi di dollari.
Segnaliamo soltanto tre iniziative che danno un’idea di quanto sta accadendo.
Degli imprenditori dell’area scandinava stanno portando avanti, sia pure con qualche difficoltà, un progetto per la costruzione di un tunnel sotto il Baltico, che dovrebbe collegare Helsinki a Tallinn; il costo dovrebbe toccare i 15 miliardi di dollari, dovrebbe essere finanziato da capitali cinesi e costruito sempre da imprese dello stesso paese.
La Cina vede nel progetto, da una parte, la possibilità di sfruttare meglio il suolo dell’Artico, ricco di minerali, petrolio, gas, mentre, dall’altra, quella di avviare concretamente la “via polare della seta”, che percorrerà i mari artici sempre più liberi dai ghiacci, riducendo così in maniera rilevante il numero dei giorni necessari per viaggiare da Shangai a Rotterdam (33 giorni invece dei 48-40 attuali) (Libre, 2019).
Intanto in Gran Bretagna il governo ha ricevuto da poco dai suoi tecnici le stime approfondite dei tempi e del costo di un progetto per l’alta velocità che dovrebbe collegare Londra al nord del paese, con varie ramificazioni. Le ultime valutazioni parlano di un costo totale di 106 miliardi di sterline e di un completamento del progetto nel 2040.
Ma ecco che, a questo punto, si fa avanti un’impresa cinese che offre, tra lo sgomento e l’incredulità dai suoi interlocutori, di costruire l’opera in soli cinque anni e spendendo molto meno. Non si sa alla fine che decisioni prenderà il governo.
Infine, va avanti con decisione un progetto per la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità tra Budapest e Belgrado, per un valore di 2,3 miliardi di euro, con i finanziamenti sempre cinesi. - Un nuovo progetto per la rete
In queste settimane di clausura ci sono almeno tre cose su cui si è accentrata l’attenzione della popolazione dei molti paesi severamente toccata dal virus e costretta alla quarantena: il sistema medico, la televisione, internet (Rusbridger, 2020).
Da una parte appare difficile che, dopo la crisi, il sistema sanitario nazionale dei vari Stati non ne esca rafforzato (anche se tutto è possibile), così come hanno acquistato nuovo peso le nostre, pur certamente emendabili, reti televisive. Ovviamente anche internet e i suoi derivati hanno acquisito un’importanza crescente.
È anche da questo punto di vista che assume un grande peso un nuovo oggetto del contendere tra la Cina e gli Usa.
Come è noto, attualmente la rete è sostanzialmente controllata da degli attori privati (in particolare da Google, Apple, Amazon, Facebook – oltre che ovviamente dei servizi di spionaggio – e tutti i dati di internet vanno a finire in quella direzione), con i problemi che ne sorgono. I governi hanno al momento poco da dire sulla questione.
I cinesi presentano ora una proposta di radicale cambiamento (Gross, Mergia, 2020; Murgia, Gross, 2020).
In particolare il ministero cinese dell’industria e delle tecnologie dell’informazione, insieme ad Huawei, China Telecom e China Unicom, ha proposto all’apposito organismo delle Nazioni Unite, l’ITU, l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, cui aderiscono circa 200 paesi, di adottare un nuovo standard per le tecnologie della rete.
Tale nuovo standard è comunque già da tempo portato avanti, con il coinvolgimento di molte imprese e di diversi altri Stati (tra gli altri Russia, Iran, Arabia Saudita), mentre gli stessi cinesi dichiarano che esso è aperto ad ulteriori contributi degli scienziati e dei tecnici di tutto il mondo.
Con il nuovo progetto si dovrebbe supplire al fatto che l’infrastruttura esistente è non solo tecnicamente difettosa, ma soprattutto che essa ha raggiunto i suoi limiti tecnologici ed appare largamente inadeguata per venire incontro alle necessità del mondo digitale entro il 2030; entro tale traguardo bisognerà prevedere il suo utilizzo per le auto a guida autonoma, per l’internet delle cose, per il teletrasporto olografico, per la chirurgia a distanza e così via.
Naturalmente da parte occidentale si manifesta una rilevante opposizione al progetto; si afferma da più parti che la nuova rete proposta dai cinesi sarà controllata dagli Stati (oggi, come abbiamo già rilevato, essa lo è da parte di alcune imprese private Usa) e porterà quindi ad un controllo dall’alto di internet e anche dei suoi utenti.
Ma ad oggi per l’adeguamento della rete alle nuove realtà del mercato c’è sul tavolo solo la proposta cinese.
Una studiosa come Shoshana Zuboff commenta in un suo contributo: “…attualmente noi abbiamo quindi due versioni di internet, una versione capitalistica basata sulla sorveglianza ed una autoritaria basata anch’essa sulla sorveglianza…” (Murgia, Gross, 2020).
È prevista una conferenza internazionale sul soggetto in India nel novembre di quest’anno.
Vedremo come andrà a finire, ma il rischio che internet si spacchi in due pezzi a livello mondiale appare molto concreto, paradossalmente con la parte cinese alla fine molto più avanzata tecnologicamente di quella occidentale.
La mossa successiva riguarderà probabilmente il fronte monetario.
Testi citati nell’articolo
-Campbell K. M., Dashi R., The coronavirus could reshape global order, Foreign Affairs Today, marzo-aprile 2020
-Cheng Ting-Fang, Lauli Li, How China’s chip industry defied the coronavirus lockdown, Nikkei Asian Review, 18 marzo 2020
-Global Times, Countermeasures against US restrictions should be discussed at China’s two sessions, www.globaltimes.com, 2 aprile 2020
-Gross A., Murgia M., China and Huawei propose reinvention of the internet, www.ft.com, 27 marzo 2020
-Libre, Tunnel sotto il Baltico: la Cina prenota il tesoro dell’Artico, www.libreidee.org, 15 agosto 2019
-Murgia M., Gross A., Inside China’s controversial mission to reinvent the internet, www.ft.com, 27 marzo 2020
-Tisdall S., Using the virus to bash Beijing could trigger a new cold war, www.theguerdian.com, 4 aprile 2020
-Rusbridger A., Amid our fear, we’re discovering utopian hopes of a connencted world, www.theguardian.com, 29 marzo 2020
-The Editorial Board, China should stand up to revive global demand, www.ft.com, 29 marzo 2020