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Neoliberismo, tecnoscienza e democrazia nell’era Covid

Al contrario di quanto fa intendere il senso comune neoliberista, scienza e tecnologia non sono autonome dai rapporti di potere che informano la società. Per evitare derive tecnocratiche o populiste nella gestione della crisi Covid, occorre democratizzare entrambe.

“La fede nel valore della verità scientifica è il prodotto di determinate civiltà, non già qualcosa di dato per natura”[1]. Questa frase di Max Weber, pensatore di cui ricorre quest’anno il centenario dalla morte, offre spunti di riflessione che dovrebbero aiutare il dibattito pubblico italiano a superare concezioni monolitiche del modo di operare della scienza. Negli sconvolgimenti che attraversano società, politica ed economia investite dal Covid-19, queste parole di Weber possono aiutare a superare i cortocircuiti cognitivi che caratterizzano scienza e politica così come vengono concepite in un senso comune definito dall’egemonia neoliberista e da forme di populismo che a quest’ultima dicono di opporsi.

Nell’odierno dibattito pubblico italiano, professionisti della politica e del giornalismo sembrano rivolgersi agli esperti con quell’approccio tipico che in psicologia cognitiva si definisce come “realismo ingenuo”. Si può dire che questo senso comune con cui si guarda agli esperti poggi sinteticamente su due presupposti fondamentali. Il primo è che esista una modalità immediata di vedere la realtà – sia essa riferita alla natura o alla società – ovvero che ci siano modelli e metodi di conoscenza scientifica che prescindono dalle scelte cognitive dell’attore scientifico o politico. Questo aspetto fa del realismo ingenuo nel senso comune la vera epistemologia sui cui poggia il celeberrimo motto neoliberale del “There is no alternative” nella vita politica ed economica.

Il secondo fondamento è che, stante il carattere immediato di tale processo scientifico e politico, le linee d’indagine o di azione disposte sulla base di tali principi abbiano un carattere neutrale e non sussista per l’attore che le persegue alcun problema di etica cognitiva o di responsabilità allo stesso imputabili. Da ciò consegue un fondamento elementare del neoliberismo. Esso non solo ipostatizza il principio che il mercato assolva meglio di altre istituzioni i bisogni sociali di individui e gruppi organizzati, ma inoltre non riconosce il carattere formale e quindi fallibile di tale principio. Secondo tale logica, il mercato non è quindi più un’istituzione umana tra le altre, soggetta a specifiche regole e procedure condivise nel dibattito politico democratico, ma è considerata un’entità naturale.

Sono questi due presupposti del senso comune neoliberista ricorrente nelle questioni che intrecciano scienza e politica in Italia. Nella ricerca delle soluzioni al virus Covid-19, siamo di fronte a una variante particolare del “neoliberismo scientifico”, dove nell’arena globale giocano un ruolo di primo piano le grandi multinazionali farmaceutiche e gli Stati con le loro strategie politiche, dalle cui alleanze transnazionali nascono collaborazioni che mettono assieme laboratori e centri di ricerca privati o pubblici.

Quando si parla di Covid-19, è necessario tenere presente la totalità delle dimensioni scientifiche e politiche che ne attraversano la definizione, evitando scorciatoie cognitive figlie di approcci improntati a modelli ingenui di governance della tecnoscienza, per cui esisterebbe una sfera scientifica autonoma, non soggetta a condizionamento, totalmente libera di determinare le proprie linee di ricerca, di disporre di risorse con cui condurle, o di regolarne applicazioni e risultati.

Se già teorici classici della tecnologia come Karl Marx e Arnold Gehlen ci mettono in guardia dal vizio idealistico di pensare alla conoscenza come a qualcosa di puro e separato dai bisogni umani materiali, di socialità e potere, è quanto mai necessario aggiornare i rapporti tra scienza e società alla loro attualità storico-politica. Dalla svolta neoliberale innescata con l’avvento dei governi neo-conservatori di Thatcher e Reagan, l’aumento del potere delle grandi imprese sull’economia ha significato potere sull’innovazione, imperativo su cui si regge tutto il capitalismo contemporaneo. L’ascesa delle grandi multinazionali nell’economia e nella vita pubblica ha eroso gran parte del modello di “keynesismo scientifico” che durante i Trenta Gloriosi era incentrato su grandi investimenti di Stato. La forte centralità del privato trasforma naturalmente il processo di produzione scientifica in un’attività di profitto e gli stessi prodotti della scienza in merci.

Invece che delegare a categorie spesso mal definite di esperti questioni tutt’altro che tecniche ma di interesse generale, una risposta a tale tendenza dovrebbe rimettere scienza e tecnologia dentro il processo di addomesticamento democratico del capitalismo. L’accettabilità o meno della commercializzazione di mappe genetiche, di organismi geneticamente modificati, del riscaldamento globale così come dell’automazione nei luoghi di lavoro, di nuovi dispositivi di sorveglianza, o della proprietà dei dati che ogni giorno produciamo con le tecnologie della comunicazione, fanno pienamente parte delle sfide delle odierne democrazie contemporanee.

Gli effetti della pandemia da Covid-19 mostrano appieno l’integralità delle implicazioni della produzione di una misura di contenimento o prevenzione del virus. La credibilità della produzione di un farmaco o di un vaccino non è solo questione interna alla ristretta comunità di scienziati ma ha dirette implicazioni sulla credibilità di imprese farmaceutiche quotate in borsa, così come la salute pubblica di uno Stato è direttamente legata alle valutazioni degli indici da parte delle agenzie di rating.

Sono queste solo alcune, tra le più conosciute, implicazioni dei legami tra neoliberismo e tecnoscienza, che portano a ridefinire fortemente la nostra concezione della vita, della politica, della conoscenza.

In un recente volume, Luigi Pellizzoni e Marja Ylönen[2] ci ricordano che nel nuovo rapporto tra neoliberismo e tecnoscienza è persino l’idea stessa di cosa sia “naturale” a mutare profondamente, orizzonte che ci spinge a trovare nuovi linguaggi e strumenti in grado di definire e governare le implicazioni “biopolitiche” su queste nuove forme di vita. Tendenze che non devono farci cadere in facili letture che certificano un’espansione illimitata del dominio, invitando al fatalismo, alla sfiducia e al disimpegno collettivi. Se molti muri che separavano il laboratorio e la società sono caduti, assistiamo a nuovi mutamenti di scenario dove, come scrive Massimiano Bucchi “i cittadini entrano in laboratorio mentre gli scienziati scendono in piazza”.[3]

È da ormai diversi decenni infatti che a livello globale esiste un attivismo qualificato di concerned citizens, per mutuare il lessico dal pragmatismo di John Dewey[4], che si associano in “comunità d’interesse pubblico” e ricercano, attraverso collegamenti con scienziati ed esperti sensibili a tematiche di rilevanza pubblica, progetti e sperimentazioni per terapie, soluzioni alternative alle linee dominanti di ricerca determinate da interessi privati o di Stato o dagli stessi trascurate. È questo il segno di un grande cambiamento che investe il rapporto tra istituzioni, imprese, comunità scientifiche e gruppi di cittadini. La scienza è da sempre campo di controversie, ma forse oggi più che mai si scontra con l’esposizione alla sfera pubblica e alla crescente voglia di partecipazione di un pubblico qualificato. Con tutte le sue contraddizioni, è questo uno scenario assai diverso da un corrente dibattito mediatico troppo impegnato a denunciare l’avvento delle fake news e la teatralità di minoranze complottiste spettacolarizzate sui social media.

Da decenni gli studi sociali sulla scienza ci mostrano ben altre consolidate realtà. A Love Canal negli Stati Uniti, residenti iniziarono negli anni Settanta a organizzarsi con esperti locali per raccogliere dossier sul legame tra malattie e mutamenti ambientali sospetti avvenuti nella loro comunità. Criticando i dati parziali e ambigui dell’Environmental Protection Agency scoprirono lo stoccaggio illegale di rifiuti chimici e inaugurarono un filone di attivismo scientifico denominato “epidemiologia popolare”[5]. Tutto ciò non nasce dal rifiuto della scienza, ma al contrario da una volontà sempre più diffusa di usare la scienza per fare chiarezza sulla realtà, contribuendo con la produzione di evidenze più robuste e diversificate, evitando deleghe in bianco a commissioni che nella teoria dovrebbero essere indipendenti e scientifiche, ma nella realtà sono implicitamente subordinate alle pressioni esterne della politica o degli interessi.

Come hanno mostrato alcune ricerche in Francia e negli Stati Uniti, molti tra gli avanzamenti scientifici sulla distrofia muscolare[6] si devono ad associazioni di pazienti che si sono organizzati costruendo nuove relazioni di fiducia con scienziati sensibili alle loro istanze per riuscire a finanziare con forme di crowdfunding linee di ricerca scientifica che reputavano importanti per giungere a cure e terapie prima inesplorate. Così, anche la corsa al rimedio per il Covid-19 ha bisogno di un dibattito aggiornato e maturo, che sappia far tesoro di queste esperienze internazionali. L’idea francese di istituire strumenti di dibattito come i “forum ibridi”[7], dove scienziati, portatori di interessi privati e pubblici, cittadini si confrontano sui temi dell’innovazione tecnoscientifica è ormai un orizzonte imprescindibile anche per il nostro Paese.

Secondo il New York Times, la ricerca del vaccino per il Covid-19 che è ora al centro del dibattito mondiale, coinvolge ad oggi circa 140 progetti[8]. Come mostrano Massimo Florio e Laura Iacovone[9], la questione del vaccino richiama la necessità di un’infrastruttura pubblica della ricerca sul modello di un Open Science ispirata al “modello Ginevra” di condivisione delle conoscenze[10]. La posta in gioco è talmente grande che nemmeno i più grandi tra i colossi del Big Pharma riescono a farcela da soli e ricorrono a fusioni o all’ausilio di infrastrutture di ricerca statali.

È bene rivedere gli assunti su cui poggia questo neoliberismo scientifico, in quanto la scienza è un’attività che riguarda tutti. È questo il modo di fronteggiare le odierne forme di “populismo scientifico” che può essere riassunto in due posizioni tanto simmetricamente opposte quanto uguali nel rifiuto o nell’ignoranza di ciò che contraddistingue una democrazia matura per affrontare i temi controversi della scienza. Da un lato, il populismo dello scienziato divenuto leader pubblico per acclamazione che parla in forma diretta e assoluta a un popolo che dovrebbe limitarsi al ruolo di ricettore passivo ed eventualmente obbediente rispetto a un mai sufficientemente definito consenso scientifico.[11] Dall’altro, il populismo del cittadino che si radicalizza nella solitudine dell’internauta perché, tentando di trovare in forma diretta e assoluta le informazioni a questioni complesse, finisce prima per essere vittima del sensazionalismo e poi del complottismo, che altro non è se non uno sfogo alla propria disperazione da isolamento e disorientamento.

In Francia, come sottolinea Stéphane Van Damme, il tema del Covid-19 ha sollevato un dibattito sull’“umiltà scientifica”, virtù intellettuale che contraddistingue gli esperti proprio perché consapevoli dei limiti della propria expertise.[12] Proprio in questa direzione dovrebbe muoversi anche il dibattito italiano riconoscendo come in fondo le più alte virtù scientifiche corrispondano alle più alte virtù democratiche, in quanto è su una dura e paziente partecipazione collettiva alla conoscenza che si basano decisioni fondate su razionalità e valori condivisi.

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Note

[1] M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, (1922) 2003.

[2] L. Pellizzoni, M. Ylönen (eds.), Neo-Liberalism and Techno-Science. Critical Assessments, Ashgate, Surrey 2012.

[3] M. Bucchi, Beyond Technocracy. Science, Politics and Citizens, Springer-Verlag, New York 2009.

[4] J. Dewey, The Public and Its Problems. An Essay in Political Inquiry, The Pennsylvania University Press, (1984) 2012.

[5] P. Brown, “Popular Epidemiology and Toxic Waste Contamination: Lay and Professional Ways of Knowing”, in Journal of Health and Social Behavior, vol. 33, no. 3, 1992.

[6] M. Callon, V. Rabeharisoa, “The Growing Engagement of Emergent Concerned Groups in Political and Economic Life: Lessons from the French Association of Neuromuscular Disease Patients”, in Science, Technology, & Human Values, vol. 33, no. 2, 2008.

[7] M. Callon, P. Lascoumes, Y. Barthes, Acting in an Uncertain World. An Essay on Technical Democracy, The MIT Press, Boston 2009.

[8] https://www.nytimes.com/interactive/2020/science/coronavirus-vaccine-tracker.html

[9] https://www.eticaeconomia.it/pandemie-e-ricerca-farmaceutica-la-proposta-di-una-infrastruttura-pubblica-europea-parte-prima/

[10] https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/wp-content/uploads/2019/03/proposta-n-2.x89907.pdf

[11] R. Burioni, La Congiura dei Somari. Perché la Scienza non è Democratica, Rizzoli 2017.

[12] https://www.lemonde.fr/sciences/article/2020/05/20/pour-l-humilite-scientifique-en-epistemocratie_6040201_1650684.html.