Berlusconi ha scritto una nuova pagina di quell’autobiografia della nazione di cui il fascismo era stato sintesi e che allinea un po’ tutte le tare storiche del nostro Paese. Nell’Italia post-berlusconiana, tutto questo viene quasi unanimemente restituito come esempio di virtù, degno di solenne onoranza, a conferma della morte della politica che stiamo vivendo.
Quella di Silvio Berlusconi è stata una morte ampiamente annunciata. Ognuno ha dunque avuto tutto il tempo necessario per elaborare un punto di vista meditato sul suo profilo, quello che troviamo nei tanti coccodrilli pubblicati a tamburo battente e nelle immediate dichiarazioni di politici e opinion leaders, tutti improntati a una pressoché unanime apoteosi. Una laudatio tanto servile quanto pressoché trasversale, che ci accompagnerà purtroppo nei prossimi giorni, e che culmina nella decisione – per quelli come noi incredibile ma per il deprecabile stato del Paese e per le sue stesse leggi invece credibilissima – dei funerali di Stato, alla presenza delle massime autorità istituzionali e di tutto il mondo che conta. Per questa ragione, pur convinti che la morte di qualsiasi essere umano meriti il massimo rispetto, ci sentiamo in dovere di manifestare il nostro pensiero sulla sua vita.
Dalle mie parti, quando si vuol esprimere un’opinione libera da ipocrisie di circostanza su un defunto, si dice “parlandone da vivo”. Allora, “parlando da vivo” di Silvio Berlusconi credo si debba dire che, qualsiasi espediente retorico si possa inventare per negarlo, esso ha incarnato nella sua lunga carriera un’Italia pessima. Non dico “l’Italia peggiore”, perché al peggio non c’è mai fine, e il “melonismo” si annuncia fin dal suo nascere persino peggio del berlusconismo (se non altro perché di questo ha condiviso buona parte dei misfatti aggiungendovi un retrogusto neofascista finora contenuto sui margini). Ma un’Italia ”pessima” sì, perché ne ha messo in pratica e ostentato fin oltre i limiti della legalità i vizi maggiori: la vocazione all’evasione fiscale e al conflitto d’interessi, il disprezzo della legge in nome dell’utile e la convivenza con figure e logiche della pratica mafiosa, l’ostentazione dell’impunità del potente e la messa in campo di raffinate tecniche corruttive ed elusive.
Seguendo Piero Gobetti potremmo dire che Berlusconi ha scritto una nuova, nera pagina di quell’ “autobiografia della nazione” di cui il fascismo era stato sintesi e che allinea un po’ tutte le “tare storiche” che hanno fatto del nostro Paese una nazione fragile, refrattaria alla serietà politica e alla moralità pubblica, pronta a lasciarsi catturare dal primo avventuriero che se ne faccia padrone, per spirito servile e per incapacità critica (Bobbio ne rilevò l’analogia fin dall’inizio, dal ’94, in un articolo premonitore intitolato Quell’Italia modello Berlusconi). L’”irresistibile ascesa” del tycoon di Arcore dimostra infatti che qui un personaggio che intenda muovere alla conquista del potere, purché mosso da un’illimitata ambizione di vincere e da un’altrettanto illimitata disponibilità di risorse monetarie e/o relazionali, può avere successo senza trovare sulla propria strada adeguati anticorpi capaci di preservare il sistema democratico da simili incursioni. E Berlusconi, della smodatezza e dell’assenza di limiti come misura antropologica del proprio Sé, è stato campione. Come è stato scritto, “solo nell’Italia di Berlusconi c’è un premier che possiede tutte le tv commerciali e una tra le maggiori squadre di calcio, costruisce un ceto politico fatto di avvocati e manager delle sue aziende, di veline e intrattenitrici dei suoi spettacoli; viene poi coinvolto personalmente in scandali sessuali e sfruttamento della prostituzione, e miscela tutto questo con un’ideologia anticomunista, sessista e omofobica, con toni forti di revisionismo storico”… (Fabio Dei). E solo nell’Italia post-berlusconiana, possiamo aggiungere, tutto questo viene quasi unanimemente restituito come esempio di virtù, degno di solenne onoranza, a conferma della morte della politica che stiamo vivendo.
Ci si chiede, oggi, quale sia l’”eredità” di Berlusconi. Facile: uno Stato esangue e una Società destrutturata nel suo tessuto civile. Se infatti, da una parte, il suo individualismo predatorio applicato alla lotta politica l’ha portato a ridicolizzare la mediazione dello Stato (delle istituzioni statali) di fronte alla sua indubbia capacità di comunicatore e al suo possesso totalizzante dei mezzi di comunicazione, trasferendo i luoghi del potere dai Palazzi delle istituzioni alle sue residenze private (il compianto Paul Ginsborg scrisse a questo proposito che “il patrimonialismo, o la dittatura proprietaria se preferiamo, è il primo elemento fondante del berlusconismo”), dall’altra parte le sue televisioni hanno prodotto una mutazione genetica dell’immaginario collettivo dalle dimensioni sconvolgenti, travolgendo la tradizionale distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. E generando una pervasiva e trasversale mercificazione della comunicazione che si è trasformata in capillare mercificazione della vita. In qualche misura, attraverso il medium comunicativo posseduto, l’”uomo Silvio Berlusconi” ha trasferito il proprio Io smisurato e incontinente dal proprio ambito individuale alla platea indifferenziata dei destinatari del proprio messaggio, omologandoli a sé, iniettando nello spazio abbandonato dai vecchi protagonisti dell’azione collettiva le proprie pulsioni desideranti e le proprie passioni concupiscenti, stereotipi da goliardi invecchiati e frequentatosi di circoli maschili di provincia. Una subcultura libertina ma mai libertaria, anzi ostile ai diritti individuali che non siano quelli dei forti in grado di imporre le proprie prerogative, fatta di donne-oggetto e di anatomie sensuali (le famose “tette e culi” che segnavano il confine, e il successo, della televisione commerciale su quella pubblica. La via italiana, per così dire, all’innesto tra pop culture e pop politics, fenomeno trans-nazionale ma qui declinato in forma estrema, con una piena commercializzazione non solo della comunicazione ma anche della politica come sua protesi subalterna. Di qui la pratica, da più parti osservata, del Silvio Berlusconi imprenditore politico, di amministrare spregiudicatamente il proprio materiale umano femminile, destinando indifferentemente le prescelte verso lo spettacolo televisivo o la rappresentanza politica, in forma intercambiabile e mobile, e sempre conquistandosene, per via “proprietaria”, la fedeltà.
In questo senso possiamo dire non solo che lo “statista” Berlusconi ha dato il colpo di grazia a una statualità agonizzante, ma anche che l’”uomo di destra” Berlusconi ha cancellato per sempre la possibile immagine di una (per la verità non facilmente rintracciabile) destra italiana tradizionale. Di una destra conservatrice classica, non quella fascista, che meriterebbe un discorso a parte, ma quella risalente alla matrice della “Destra storica”, sobria, rigorosa, conservatrice certo sul piano sociale e su quello politico, ma nemica dello spreco, della illegalità e del disprezzo della tassazione e della finanza pubblica, non certo compiacente verso il falso in bilancio e i costumi goderecci da bordello che costellano la scena semipubblica berlusconiana.
Questo è l’uomo a cui le massime autorità dello Stato si apprestano a tributare gli onori riservati alle grandi personalità che abbiano “illustrato” il Paese, offrendo una prova d’imprevidenza assoluta perché incuranti del danno incalcolabile d’immagine che è destinato a ricadere su una nazione che celebri come un eroe del proprio tempo un condannato per frode fiscale, con alle spalle una carriera interamente dedicata a sfuggire ai rigori della legge scansati solo grazie al proprio immenso potere economico e uno stile di vita che nessuno, dotato di un minimo di senso morale, potrebbe condividere. E’ un fatto questo che nemmeno il coro greco dei servi contenti impegnati a falsificarne il profilo a salma ancor calda, praticamente tutto l’establishment politico nazionale ed europeo, può cancellare, né lo possono le inascoltabili maratone televisive a reti trasversalmente unificate, dalla “sua” Mediaset, alla Rai appena conquistata, alla 7 di Cairo e Mentana… Segni, tutti, del profondo logoramento che ormai quasi tre decenni di improvvida egemonia dell’uomo di Arcore ha inflitto alla fragile vita democratica italiana.
Articolo tratto da VolerelaLuna, sito con cui sbilanciamoci ha un accordo di scambio.