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L’acciaio in Europa, tra obsolescenze e un futuro green

Nel secondo trimestre la produzione di acciaio si è contratta in Europa del 40%. Metà della forza lavoro è in cassa o a orario ridotto. Il declino del primato europeo e del polo di Taranto. E la prospettiva del Green Deal.

Sui media italiani non c’è alcuna traccia. Questa volta, però, è difficile prendersela con i giornalisti. Sto parlando della European steel action day, messa in campo il primo ottobre da industriAll Europe. Fino il giorno prima la notizia non appariva neppure sui siti e sulle pagine social dei sindacati italiani. Complice il Covid-19 o il crescente disincanto o l’abituale provincialismo, nel nostro Paese non c’è stata alcuna mobilitazione. Almeno di considerare un comunicato o un video-messaggio, una forma di mobilitazione. Eppure i motivi sindacali per un’azione di lotta dei lavoratori siderurgici coordinata a livello europeo, non mancano di certo. Basti pensare al numero uno del settore: l’ArcelorMittal. 

Solo gli sprovveduti (e l’ex-ministro Calenda) non si sono ancora accorti che la “spinta propulsiva” (a trazione finanziaria) di Mittal per allargare il suo “impero” nel settore siderurgico si è esaurita da qualche tempo. Sono lontani gli anni dello shopping in giro per il mondo, così come quelli dell’Opa ostile con cui Mittal conquistò il Gruppo europeo Arcelor. Mentre sono sotto i nostri occhi gli anni dell’acquisizione (opportunistica) degli stabilimenti italiani di Ilva e della corrispondente dismissione di sei propri siti produttivi in Europa (con oltre 16 mila occupati complessivi), non più ritenuti d’interesse per il Gruppo. In questi giorni assistiamo alla prima ritirata strategica. La vendita all’impresa mineraria americana Cleveland-Cliff dei suoi stabilimenti siderurgici negli USA. Soddisfatto il sindacato americano degli steelworkers USW, i cui rapporti con ArcelorMittal negli ultimi anni non erano per nulla buoni. 

E mentre in Italia continua il “braccio di ferro” di ArcelorMittal per sganciarsi da impegni giudicati troppo onerosi, nel resto d’Europa il gruppo prosegue un processo di dismissioni e riduzione del numero di occupati. L’ultimo annuncio riguarda il Lussemburgo. Meno 570 posti di lavoro, di cui due terzi tra gli operai e un terzo tra tecnici e impiegati. È solo l’ultimo taglio di una lunga serie. 

Basti pensare che, dopo aver sperimentato dal 1996 al 2007, un boom imprevisto dei profitti e della produzione di acciaio, grazie all’imponente crescita della domanda cinese, il settore siderurgico europeo – a causa della crisi economico-finanziaria globale (2007-2013) – ha perso 90 mila posti di lavoro. 

Nello stesso periodo, mentre la produzione di acciaio in Europa è diminuita, nel mondo è aumentata. La quota di produzione UE è ora inferiore al 10% del totale mondiale. E il Covid-19, facendo crollare i consumi, ha aggravato la crisi strutturale dovuta sia al rincaro del minerale di ferro e dell’energia, sia alla sovra-capacità produttiva globale essenzialmente cinese. 

Nel secondo trimestre 2020 la produzione di acciaio si è contratta in Europa del 40% e i nuovi ordini del 70-75%. Il sindacato europeo dell’industria stima che poco meno della metà della forza lavoro sia in cassa integrazione temporanea o a orario ridotto. Ci sono veri timori che entro la fine di questa pandemia la cassa integrazione temporanea possa trasformarsi in licenziamenti permanenti.

Il colosso tedesco dell’acciaio ThyssenKrupp, da diversi mesi, ha manifestato l’intenzione di disfarsi di tutti gli asset siderurgici del Gruppo, compresa l’Ast di Terni. Anche il colosso indiano Tata Steel, tramontata la fusione con ThyssenKrupp nell’acciaio, è pronto a smembrare le proprie attività siderurgiche in Europa, chiudendo impianti e tagliando migliaia di posti di lavoro, per sopravvivere alle difficili condizioni di mercato. 

Non possiamo dimenticare che negli anni ’70 e ’80 l’Europa era il più grande produttore mondiale di acciaio. L’industria siderurgica era regolamentata su scala europea e i principali Gruppi erano controllati o partecipati a livello statale. Negli anni ’90, sotto l’azione di politiche liberiste e finanziarie, si è avviato il processo di privatizzazione, concentrazione e trans-nazionalizzazione, che ha trasformato nel tempo la siderurgia europea in un settore globalizzato, in gran parte in mano a sole tre multinazionali: ArcelorMittal, Tata Steel e ThyssenKrupp.

Per capire la crisi attuale dell’acciaio in Europa e le prospettive future bisogna analizzare il recente passato. Non possiamo più cullarci con l’idea che la siderurgia europea sia tra le più avanzate al mondo. Con la crisi dal 2007 al 2013 le aziende siderurgiche (multinazionali e no) operanti in Europa hanno perso la base di capitale proprio o l’hanno trasferito nei paradisi fiscali, come ha fatto il Gruppo Riva. La conseguente riduzione dei loro investimenti e della loro capacità (volontà) d’innovazione, ha profondamente compromesso il futuro dell’industria siderurgica europea (e italiana).

Tutto ciò, mentre le migliori aziende d’ingegneria (come la tedesca Siemens, le italiane Danieli e Arvedi, l’italo-argentina Techint, le giapponesi Mitsubishi e Hitachi, l’americana General Electric, l’austriaca Voestalpine, la lussemburghese Paul Wurth (ArcelorMittal), hanno in questi anni realizzato nuove acciaierie (a ciclo integrale o elettrico), con le migliori tecnologie di processo disponibili, in giro per il mondo e quasi mai nel nostro vecchio continente.

L’Ilva di Taranto, pur rappresentando il paradigma di questo ritardo tecnologico accumulato tra la siderurgia europea e quella dei Paesi emergenti, non è l’unico caso di obsolescenza impiantistica, insostenibilità ambientale e impatto negativo sulla salute (alta incidenza di patologie cancerogene tra i lavoratori e la popolazione) presente in Europa. 

Nell’elenco dei siti siderurgici europei più inquinanti e maggiormente responsabili di emissioni di CO2 (l’indiziato numero uno per i cambiamenti climatici), oltre l’Ilva di Taranto troviamo lo stabilimento di Port Talbot nel Galles, di proprietà del Gruppo Tata Steel; le acciaierie di IJmuiden sulla costa dell’Olanda settentrionale, sempre di proprietà del Gruppo Tata Steel; lo stabilimento di Scunthorpe nel nord dell’Inghilterra, messo in liquidazione nel 2019 e recentemente acquisito dai cinesi di Jingye Group e lo stabilimento di Košice in Slovacchia, di proprietà dal 2000 degli americani di U.S. Steel.

Una caratteristica comune di tutti questi siti siderurgici è la loro dimensione ciclopica, l’alto numero di lavoratori occupati (tra diretti e indotto) e l’obsolescenza degli impianti. Un indicatore di quest’ultimo aspetto, nel caso dello stabilimento Ilva di Taranto, è il frequente numero d’infortuni mortali e gravi incidenti (near miss) che si sono verificati a causa di cedimenti strutturali di gru, macchinari, carri ponte, passerelle ecc. 

Se c’è una scandalosa continuità tra la gestione dei Riva, l’intervento della magistratura, la gestione dei commissari (con l’eccezione di Bondi) e, in ultimo, quella di ArcelorMittal è non essersi mai posti il problema della messa in sicurezza del sito e della sostenibilità ambientale, intervenendo sul processo produttivo dell’area a caldo eliminando e/o riducendo alla fonte le cause principali d’emissione di sostanze cancerogene (cokerie, agglomerato, altoforni, parchi minerari). 

È una questione posta da anni, tuttora, motivo di contrasti. La cosa kafkiana è che quanti negli anni hanno difeso lo stabilimento di Taranto così com’era, in nome del realismo e della difesa dell’occupazione, sono quelli che hanno creato (loro malgrado) i presupposti industriali (prima ancora che ambientali) della sua chiusura. Una chiusura che Eurofer (l’associazione europea dell’acciaio), aveva già “contabilizzato” nelle previsioni di riduzione di capacità produttiva in Europa, dopo il sequestro cautelare degli impianti da parte della magistratura.  

Non meno responsabili sono quanti, nelle istituzioni e nei sindacati, hanno difeso – nonostante la loro retorica su Industry 4.0 e sulla digitalizzazione – lo status quo del “siderurgico” di Taranto. Il mantra che solo in Italia si mette in discussione l’industria siderurgica per motivi ambientali e che, nel resto del mondo, ambiente e acciaio vanno d’accordo, è stato (e continua a essere) implicitamente un modo per minimizzare e banalizzare i disastri ambientali e i danni alla salute, lasciando le cose come stanno.

Sul lato opposto, la drammatica catena di morti e malati dovuti a patologie correlate alla contaminazione ambientale di Ilva, ha finito per far vivere la siderurgia come un peso insopportabile per il territorio. Molti di coloro che, fino a dieci anni prima, erano disponibili a percorrere la strada difficile della sostenibilità ambientale-economica-sociale, in assenza di risposte, hanno radicalizzato la loro contestazione nei confronti di Ilva, chiedendone la definitiva chiusura. 

Se c’è una lezione da trarre dal caso Ilva a Taranto è che questo dualismo, con le sue contrapposizioni e l’assenza di dialogo, non è stato risolutivo né per la soluzione dei problemi ambientali, né per il futuro industriale. E, in questo momento di crisi su più fronti, se si vuole continuare a produrre acciaio non si può prescindere da investimenti tecnologici che assicurino la sicurezza in fabbrica e la salute sul territorio, il risanamento ambientale e la de-carbonizzazione. 

Dopo le centrali elettriche a carbone, in Europa, le industrie che emettono più CO2 sono quelle siderurgiche. Il settore, pertanto, deve avviare una conversione eco-sostenibile con processi produttivi a bassa emissione di carbonio, coerenti con le politiche industriali definite dalla Commissione Europea da qui al 2030. L’Italia, tra i paesi UE, è il quarto maggiore produttore di gas a effetto serra. E l’area di Taranto e Brindisi è una delle zone a maggiore dipendenza dal carbone del nostro Paese. 

Se, quindi, qualcuno pensa che il futuro del sito siderurgico di Taranto possa essere assicurato dai processi produttivi esistenti, cavandosela con qualche filtro in più, con l’irrazionale copertura dei parchi minerari e poco altro o è in malafede o non ha capito.

L’unica via d’uscita per Ilva, risolta la questione inerente alla proprietà e alla governance dell’azienda, è legata al Green Deal europeo, il piano volto a ridurre l’impatto climatico dell’UE, per il quale la Commissione ha previsto un investimento di mille miliardi di euro in un decennio. Al suo interno la Commissione Europea ha accolto una rivendicazione storica del sindacalismo globale: la garanzia di un “meccanismo per una transizione giusta”. Misure di sostegno alle aree territoriali ancora legate a doppio filo all’economia fossile, accompagnandole verso una rivoluzione verde che “avvenga in modo equo e non lasci indietro nessuno”. 

La Commissione Europea ha indicato proprio il sito di Taranto – insieme all’area carbonifera del Sulcis Iglesiente – come area destinata agli investimenti del fondo. Gli interventi ritenuti prioritari sono: le infrastrutture per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, la decontaminazione e la riconversione dei siti, l’insediamento di nuove imprese e start-up, la formazione dei lavoratori e la ricerca di nuovi sbocchi occupazionali.

L’utilizzo del Just Transition Fund insieme alle risorse del Recovery Fund consentono i necessari investimenti sia per l’impiego di tecnologie innovative per la produzione di preridotto (riduzione diretta del ferro con uso del gas), sia di un forno elettrico, sia per la ricerca e lo sviluppo futuro di nuove tecniche di riduzione del ferro mediante l’idrogeno. Una strada obbligata se si vogliono chiudere in tempi certi cokerie e agglomerato e ridurre gradualmente il numero di altoforni, fino al loro superamento. Con un unico vincolo. Tutelare l’occupazione e il reddito di tutti i lavoratori diretti e indiretti di Ilva, sia nella fase di transizione, sia in prospettiva futura.