Top menu

L’Europa e noi

Pur di fronte a un’accelerazione delle spinte alla disgregazione dell’Europa, c’è il rischio che l’inerzia prevalga ancora una volta. L’analisi nella Controfinanziaria di Sbilanciamoci!

La politica economica italiana continua a essere fortemente condizionata dai vincoli europei definiti dai Trattati – il Patto di stabilità e crescita e il Fiscal Compact – e dalle procedure di controllo da parte della Commissione Europea sul bilancio dello Stato e su altre politiche italiane.

Il segno delle politiche europee continua a essere quello di una rigida austerità, che ha impedito l’arrivo della ripresa. Il problema dell’Europa è sempre più l’assenza di domanda. I vincoli sul bilancio pubblico hanno impedito di usare la spesa pubblica e in particolare gli investimenti come strumento per rilanciare l’economia. Gli investimenti privati sono gravemente caduti per le attese di scarsa domanda e crescita delle imprese.

Nell’Unione Europea (Ue) la percentuale degli investimenti fissi lordi totali sul Pil era del 23% nel 2008 ed è scesa al 19,8% nel 2015; i dati per l’Italia sono 21,2 e 16,6%. La caduta è stata drammatica per gli investimenti pubblici, finanziati dal bilancio dello Stato; tra il 2008 e il 2015 la caduta degli investimenti pubblici è stata dell’11% nell’insieme dell’Unione Europea e del 23% in Italia. I consumi privati sono compressi da otto anni di crisi e da una distribuzione del reddito sempre più disuguale.

Inoltre, per la prima volta da decenni, ora le esportazioni mondiali crescono a ritmi inferiori al Pil mondiale e non possono più svolgere il ruolo di motore della crescita. La crisi profonda delle grandi economie dell’America Latina e degli altri Paesi emergenti (dalla Russia al Sudafrica alla Turchia), il rallentamento della crescita cinese, che si rivolge ora più al mercato interno, e le modeste prestazioni di Usa e Giappone hanno portato a questo risultato. Buona parte dell’ultimo Rapporto World Economic Outlook del Fondo Monetario pubblicato a ottobre 2016, dal significativo titolo Subdued demand. Symptoms and remedies, è dedicata proprio al confronto con questo scenario.

Senza una politica della domanda l’Europa ha registrato nel 2016 una modesta crescita complessiva, concentrata ancora una volta nei Paesi del Centro-Nord e in pochi paesi dell’Est: l’Italia è ferma a una crescita del Pil sotto l’1% che ha aggravato i problemi del Paese. Queste dinamiche sono state analizzate in particolare dal quinto Rapporto Iags – Independent Annual Growth Survey, The elusive recovery, promosso dal gruppo dei Socialisti e Democratici del Parlamento Europeo, realizzato da quattro centri studi europei e pubblicato nel novembre 2016.

L’1,9% di crescita complessiva della Ue del 2016 risulta essere nelle previsioni del Rapporto Iags il dato più elevato raggiunto, con previsioni di crescita dell’1,6% nel 2017 e dell’1,5 nel 2018. La ripresa non è ancora arrivata in Europa e sembra già di nuovo allontanarsi.

All’interno dell’Europa il ristagno dell’economia è alimentato da diversi fattori.

Sul piano politico e istituzionale le incertezze sulla Brexit – l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea – complicano le aspettative e le decisioni, in particolare per le attività finanziarie ora concentrate nella City di Londra. Le incertezze politiche sono alimentate dal rafforzamento dei nazionalismi, delle spinte populiste e delle forze politiche di estrema destra in grandi Paesi come l’Austria, la Francia, l’Olanda, la Germania, oltre al Regno Unito del post-referendum sulla sua uscita dalla Ue.

In Italia, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso ci sono stati tentativi di sottolineare i possibili effetti di instabilità di un successo del “no”; tali timori tuttavia appaiono eccessivi e difficilmente il sistema europeo dovrà affrontare una crisi grave all’inizio del 2017. Una prova decisiva per l’Europa verrà invece nella primavera 2017 con il voto per le elezioni presidenziali francesi.

Sul piano dello sviluppo, il ristagno di tutte le possibili fonti di domanda dell’economia ha impedito il consolidarsi e il diffondersi della crescita a tutti i Paesi europei. Sul piano degli squilibri interni all’Unione e all’Eurozona, le divergenze sono andate allargandosi, con la Grecia ancora in estrema difficoltà (si veda il box di seguito), altri Paesi della periferia europea in grave ritardo e alcuni recuperi – come l’apparente “boom” dell’Irlanda – che sono il risultato soltanto degli effetti contabili dei trasferimenti di imprese multinazionali.

Sul piano della politica monetaria è continuato il Quantitative easing della Banca Centrale Europea che ha mantenuto bassi i tassi d’interesse e lo spread sui tassi d’interesse sul debito pubblico – un problema particolarmente serio per l’Italia. In assenza di domanda, tuttavia, questi margini di manovra non sono stati utilizzati dalle imprese per rilanciare gli investimenti e la politica monetaria espansiva non poteva – da sola – avere effetti rilevanti sulla ripresa. Inoltre aumentano le pressioni, specialmente della Germania, per esaurire tale politica espansiva, una scelta che aggraverebbe ulteriormente le spinte all’austerità e alla recessione.

Sul piano del cambio, la politica monetaria espansiva ha prima accompagnato un deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro; dopo la Brexit la sterlina ha però avuto una forte caduta rispetto all’euro: un riallineamento destinato ad avere effetti rilevanti nei prossimi anni. La tenuta dell’Unione monetaria e dell’euro resta problematica per la debolezza dell’Europa e per l’instabilità politica ed economica, mentre l’Unione bancaria e l’Unione dei mercati dei capitali restano a mezza strada, inadeguate ad affrontare le numerose crisi bancarie aperte in diversi Paesi, e basate su approcci spesso del tutto sbagliati all’integrazione finanziaria europea.

Sul piano della finanza pubblica la politica europea non ha modificato le regole e le procedure che hanno definito l’orizzonte delle politiche di austerità nei decenni passati, ma quest’anno è emersa un’interpretazione meno rigida e un aumento dei margini di flessibilità consentiti ai Paesi membri. Questo è avvenuto in particolare per l’Italia, che ha potuto beneficiare di un sostanziale “sforamento” del rapporto deficit/Pil giustificato anche per le emergenze profughi e terremoto.

Nella seconda metà del 2016 abbiamo assistito a polemiche sempre più aspre tra il Governo italiano che reclamava per la prima volta esplicitamente la “fine dell’austerità” nei confronti delle autorità di Bruxelles, senza tuttavia prendere poi misure incisive sugli equilibri delle politiche europee – ad esempio è stato minacciato un voto contrario sul bilancio europeo che poi si è trasformato in un’astensione. La Commissione ha alternato segnali comprensivi con richiami all’ordine dell’Italia, terminando il 2016 con un sostanziale assenso a politiche di bilancio italiane più espansive di quanto previsto dal sentiero di “rientro” da deficit e debito eccessivo. La Germania ha replicato con dure critiche a questo ammorbidimento della Commissione.

Nell’insieme, all’indomani del voto britannico sulla Brexit il Consiglio Europeo e la Commissione Europea non sono stati in grado di introdurre modifiche sostanziali alle regole europee capaci di rispondere ai segnali di profondo disagio economico e sociale espressi dal referendum di Londra. Le preoccupazioni per il diffondersi di opinioni anti-europee hanno tuttavia spinto Bruxelles a consentire margini di manovra maggiori ai bilanci pubblici, in particolare per i Paesi con imminenti appuntamenti elettorali come Italia e Francia.

Tali margini di manovra sono stati essenziali per il Governo Renzi nella sua strategia di utilizzo della Legge di Bilancio di fine 2016 per consolidare il proprio consenso in vista del referendum costituzionale. Tuttavia, il peso dei vincoli precedenti sommato alla mancata ripresa dell’economia e alla scelta di concentrare gli interventi sugli sgravi fiscali alle imprese hanno portato a ridurre in misura significativa gli effetti espansivi ottenibili dall’ammorbidimento dei vincoli europei.

Nello specifico, una parte importante dei margini di manovra è stata utilizzata per evitare che diventasse operativa la “clausola di salvaguardia” introdotta dalle Leggi di Stabilità degli anni passati, che impegna il Paese a introdurre un aumento generalizzato dell’Iva nel caso in cui le entrate fiscali non rispettino i valori attesi.

Inoltre, con un Pil in crescita modestissima, le entrate fiscali non sono cresciute adeguatamente e il rapporto debito/Pil non riesce a diminuire; nonostante la politica monetaria espansiva, il peso degli interessi passivi sul bilancio dello Stato resta molto rilevante, sottraendo risorse per spese pubbliche produttive. Infine, concentrare gli interventi della Legge di Bilancio sulla riduzione delle imposte sulle imprese – come si vedrà più avanti – ha effetti espansivi molto modesti in un contesto in cui le imprese si trovano di fronte a un calo di domanda anche per le esportazioni. Il risultato è che possiamo aspettarci per il 2017 un sostanziale ristagno dell’economia con orientamenti immutati di politica fiscale a livello europeo e nazionale.

Resta aperta la questione se a Bruxelles stia emergendo un consenso adeguato a cambiare i Trattati e i vincoli fiscali che hanno prodotto un decennio di ristagno economico. Alcuni segnali di apertura emergono, affiancati però da altrettanti segnali di continuità; si registra una grave incapacità della leadership europea di cambiare strada anche dopo shock politici enormi come la Brexit; inoltre le richieste di cambiamento che sono venute dal Governo italiano si sono finora limitate a operazioni strumentali per utilizzare elementi di retorica anti-europea nella campagna per il referendum costituzionale.

Alcuni indizi suggeriscono tuttavia che si possano aprire spazi di modesto cambiamento delle politiche europee. In primo luogo diverse proposte sono emerse per introdurre misure fiscali a livello dell’Unione che attenuino in modo definitivo i vincoli di austerità. Si discute di ripensamenti nelle procedure di controllo sui bilanci dei Paesi membri, della “golden rule” che escluderebbe gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit pubblico da considerare; di piani per un reddito minimo a scala europea. La fattibilità concreta di tali interventi resta tuttavia ancora estremamente lontana.

In secondo luogo, è stata annunciata l’estensione del Piano Juncker di investimenti (l’European Fund for Strategic Investments, Efsi), con l’obiettivo di raddoppiare il fondo in termini di durata e di capacità finanziaria. Si dovrebbe passare da un impegno per il triennio iniziale (2015-2018) di 315 miliardi di euro a 500 miliardi di euro di investimenti entro il 2020. I progetti futuri puntano a un aumento della loro “addizionalità” rispetto alle attività di investimento in corso e a dedicare più attenzione agli obiettivi ambientali definiti dall’Europa nel quadro dell’accordo sul clima Cop21.

Inoltre, la Commissione intende introdurre un Piano europeo di investimenti esterni (Eip) per incoraggiare gli investimenti in Africa e nei Paesi di vicinato della Ue. Resta assai dubbio che questa estensione dell’Efsi possa aver un impatto rilevante in termini macroeconomici – per aiutare la crescita in Europa – e per riorientare gli investimenti pubblici in direzione di una maggiore sostenibilità ambientale.

Per quanto modesti siano i cambiamenti effettivi delle politiche europee, è indubbio che uno spazio politico diverso si stia aprendo per imporre alcuni cambiamenti. La Germania in un anno elettorale non può assistere a una dissoluzione dell’Europa e il peso relativo dell’Italia dopo la Brexit è aumentato. Il Governo italiano – come ha sostenuto anche il Financial Times – sarebbe ora in grado, se avesse una visione di cambiamento di ampio respiro, di forzare la Cancelliera tedesca Merkel a introdurre gli eurobond o a cambiare le regole di bilancio. Un fronte comune dei Paesi del Sud Europa potrebbe avere un peso rilevante in questa prospettiva, ed è utile ricordare l’incontro tra i Governi di Italia, Francia, Portogallo e Grecia tenuto ad Atene nel 2016, che tuttavia non ha portato a esiti rilevanti.

È difficile quindi che il dibattito interno all’Europa possa condurre a spinte importanti che possano avere successo nel modificare in misura significativa le politiche europee. L’inerzia potrebbe prevalere ancora una volta, pur di fronte a un’accelerazione delle spinte alla disgregazione dell’Europa.