La diffusione del coronavirus è destinata a stravolgere l’ordine economico, finanziario e geopolitico internazionale. Mentre qualcuno, illusoriamente, invoca la deglobalizzazione e il decoupling Usa-Cina, si profila un’esplosione del debito mondiale. E con essa una nuova drammatica crisi finanziaria.
Mi unisco al dibattito in atto su questo sito sul tema del coronavirus pubblicando queste note, certamente affrettate e non organiche, su alcuni tra i molti temi oggi sul tappeto (per esempio, trascuriamo di discutere del grande problema dei rapporti con l’Europa).
Gli eroi
In queste settimane di difficoltà la stampa e la televisione nazionali non hanno mancato nessuna occasione per qualificare i medici e gli infermieri che si battono per sconfiggere il coronavirus come “eroi”, mentre la loro attività viene parallelamente definita come “lavoro eroico”.
Ricordo a questo proposito che in un’opera teatrale tra le più note di Bertolt Brecht, Galileo, ad un certo punto qualcuno pronuncia la frase “infelice è la terra che ha bisogno di eroi”. Ora, per tanti anni, sotto i governi tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra sono stati tagliati implacabilmente i fondi per la sanità, come del resto per la scuola e per la ricerca; se si fosse fatto respirare di più il settore, oggi ci sarebbero molti più medici e molti più letti per combattere il flagello. E il lavoro degli operatori sarebbe certamente meno eroico di quanto debba esserlo per necessità oggi.
Parlare di eroismo mi sembra dunque quasi aggiungere al danno la beffa, anche se certamente non è questa l’intenzione di tanti che, pronunciando l’espressione, vogliono solo apprezzare il lavoro svolto dal sistema sanitario pubblico e dai suoi operatori.
Naturalmente i tagli alla sanità sono stati ufficialmente motivati da mancanza di fondi, magari dando la colpa alla solita Europa (ma intanto possiamo gloriarci di avere ben due portaerei, cosa che, mi sembra, neanche la Francia e la Gran Bretagna si permettono: ognuna costa complessivamente diversi miliardi di euro). Tali tagli, d’altra parte, come molti hanno già sottolineato, hanno favorito le strutture sanitarie private e quelle della Chiesa.
Per altro verso, sembra che il governo si sia tardivamente deciso di permettere che siano eventualmente e gentilmente requisiti posti letto e strutture varie nelle cliniche private, sia pure dietro lauto compenso; sembrerebbe, d’altro canto, che alcune di tali strutture abbiano chiuso qualche giorno fa i battenti proprio per evitare che esse fossero “contagiate” dal settore pubblico. Beffa suprema.
Il motore economico del mondo
Naturalmente ogni crisi porta con sé anche delle opportunità per qualcuno. In questo caso si sono avvantaggiati delle circostanze i produttori di apparecchiature che permettono di lavorare o giocare da casa, dai computer, ai tablet, ai giochi elettronici, ai software didattici, così come ovviamente i produttori di apparecchiature sanitarie.
A livello di paesi, ci sembra ormai evidente che alla fine di questa prova si sarà ancora una volta rafforzata la tendenza in atto alla crescita della forza economica e politica cinese. Incidentalmente, le autorità cinesi sembrano puntare, per l’anno in corso, a una crescita del Pil del 6,0% (Wei Janguo, 2020).
Per altro verso, e più in generale, una parte dell’Asia che comprende oltre alla Cina almeno Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Vietnam, Singapore – paesi tutti usciti rapidamente vittoriosi dalla prova del virus – rafforza il suo crescente ruolo di motore economico, e sempre più anche tecnologico e finanziario, del mondo. Dobbiamo escludere per necessità da questo elenco il Giappone, perché, a fronte di un apparente controllo pieno della situazione testimoniato dalle cifre ufficiali, nessuno purtroppo fa fede ad esse e la verità è celata. In particolare, sul fronte tecnologico ormai l’area sopra citata sembra presentare una sola debolezza sostanziale, quella relativa al settore dell’aeronautica civile.
Per altro verso, le classi dirigenti occidentali, di fronte allo scoppio della pandemia, appaiono possedute da un senso di panico e di confusione, con punte di disorientamento anche grottesco, quali rappresentate dalle dichiarazioni e dagli atti di Trump e Johnson; ma bisogna rilevare che, in generale, anche i governanti europei non sembrano poter uscire in maniera brillante dalla prova. Appare, tra l’altro, sempre più netta la sensazione che tale parte del mondo non ce la faccia più a competere adeguatamente con l’area asiatica.
Ricordiamo che la popolazione di quel grande continente conta ormai circa 5 miliardi di abitanti, mentre l’Europa circa 500 milioni e gli Stati Uniti circa 330; la Cina da sola produce ogni anno ormai quasi 9 milioni di laureati. Non sembra per molti versi esserci più partita da un punto di vista strategico, anche se in Occidente, a livello politico e mediatico, si cerca di nascondere in tutti i modi la cosa.
Oriente e Occidente
Sempre a proposito dell’Asia, la crisi ha messo in rilievo con forza, ancora una volta, alcune caratteristiche importanti che, su alcuni fronti almeno, differenziano gran parte di quel continente dai paesi occidentali: tali caratteristiche si rivelano vincenti. Vi sembra prevalere di nuovo il senso del collettivo contro invece quello dell’individuo in Occidente; vi si registra un utilizzo molto spinto e sofisticato degli strumenti dell’economia digitale per combattere il morbo, nonché una velocità e flessibilità di intervento nella crisi sul terreno economico e sociale che noi non siamo apparentemente in grado di replicare.
A proposito di uno di questi temi, un articolo del Financial Times di qualche settimana fa sottolineava come in materia di finanza digitale l’Asia appaia avanti di dodici anni rispetto all’Occidente.
È possibile il ritorno al welfare state?
Di fronte alle difficoltà rivelate dallo scoppio della malattia, si sottolinea da più parti che, passata la tempesta, niente sarà più come prima e che, in particolare, deve essere fortemente rivalutato il ruolo dell’intervento pubblico nell’economia e nella società.
Nella sostanza, molti richiedono un ritorno alle politiche socialdemocratiche del dopoguerra e una ripresa del welfare state. Gli assi principali di tale mutamento potrebbero essere la modernizzazione delle infrastrutture materiali e sociali, l’ambiente, il pieno impiego. Si vedano a questo proposito, ad esempio, l’articolo di Mario Pianta su questo stesso sito e ancora un testo di Beuve-Mery (2020).
Tutte cose certamente da auspicare. Ma si può esprimere almeno qualche dubbio sul fatto che tale mutamento sia davvero possibile.
Dopo la crisi del 1929 e dopo la seconda guerra mondiale l’affermazione del welfare state in occidente fu favorita dalle risorse generate da una fortissima crescita economica, dal permanere di alti livelli di profitti provenienti anche dallo sfruttamento imperialistico del mondo, dalla paura dell’affermazione di un modello economico e politico alternativo, quello dell’Unione Sovietica, dalla forza dei sindacati e dei partiti politici di sinistra in Europa, dalle stesse devastazioni precedenti.
Oggi le condizioni sono del tutto diverse e, mentre l’economia è in difficoltà, la domanda langue, una parte importante della popolazione è costretta al precariato e al declassamento, aumentano anche le diseguaglianze. Intanto, al banchetto vogliono partecipare anche i paesi ex-coloniali oggi emergenti, un tempo del tutto esclusi; ed essi non si accontentano delle poche briciole o dello strapuntino loro offerto, con poca lungimiranza, al tavolo dei potenti. La parte di torta che resta all’occidente si restringe e presumibilmente si restringerà sempre più.
A questo punto, le classi dominanti occidentali non appaiono possedere le risorse necessarie alla bisogna, né peraltro sembrano manifestare alcuna volontà che vada in tal senso; manca peraltro una qualche capacità di visione.
D’altro canto non si vedono oggi sul campo delle forze in grado di contrastare tale stato di cose. Nell’antica Atene la democrazia e il consenso si reggevano sostanzialmente sui tributi che la città imponeva con la forza a tutte le altre polis greche e quando essi per qualche ragione tardavano ad arrivare la popolazione cominciava a rumoreggiare. Le cose sono veramente molto cambiate da allora? Ma naturalmente sarebbe necessario approfondire meglio questo tema.
Crisi della globalizzazione
Per altro verso, da qualche tempo si parla di crisi della globalizzazione, mentre i giornali sono pieni di riflessioni che annunciano una nuova era in cui si dovrebbe registrare una tendenza alla deglobalizzazione e in particolare ad un cosiddetto decoupling tra Usa e Cina.
Ha cominciato Trump qualche anno fa a sollevare il tema, mentre ora con la crisi da coronavirus ci si accorge che, se si ferma la Cina, si fermano anche le catene di montaggio in occidente, rischiano di mancare i medicinali, non si trovano più i telefonini Apple, si blocca il turismo in tanta parte del mondo. E allora si discetta in televisione e sui giornali della necessità di ridurre drasticamente le importazioni da quel paese e di costruire delle basi produttive in occidente.
Ma si tratta in gran parte di ragionamenti senza grande consistenza effettiva, confortati soltanto dalla notizia che qualche impresa sta trasferendo una parte delle sue produzioni in qualche altro paese. Ma in Cina quest’anno si prevede ancora una crescita degli investimenti stranieri, non certo una riduzione.
La realtà è quella che i rapporti tra le varie imprese e le catene del valore sono estremamente connesse a livello mondiale e che stravolgerle – cosa che peraltro sono in pochi veramente a volere – richiederebbe grandi investimenti e un tempo molto lungo, mentre porterebbe a esiti molto incerti.
Nessuna grande impresa, per altro verso, può sostanzialmente fare a meno del mercato cinese, ormai il più importante del mondo per la gran parte dei prodotti e servizi e sede di un’inimitabile rete di forniture, di strutture logistiche molto efficienti, di capacità produttiva e di velocità e flessibilità operative, di una forza lavoro abbondante e di qualità. Dettaglio importante: quello cinese è il mercato più redditivo del mondo in molti settori.
Ovviamente, i processi di globalizzazione andrebbero semmai corretti per eliminarne o almeno ridurne gli aspetti negativi; ma questo sarebbe un altro discorso.
Per altro verso, essi dovrebbero essere oggi ancora più spinti per risolvere i grandi problemi del momento: anche il caso del coronavirus, dopo quelli della crisi ambientale, dei migranti, dell’evasione fiscale dei grandi gruppi, degli attuali livelli di diseguaglianza, delle crisi finanziarie, non si possono affrontare adeguatamente senza una più stretta collaborazione internazionale.
Una crisi del debito?
Da qualche tempo molti economisti, operatori finanziari, studiosi, pubblicano degli studi allarmati sulla crescita nel tempo dell’indebitamento a livello mondiale, sia delle imprese che degli Stati, sia dei paesi ricchi che di quelli emergenti.
I debiti totali a livello mondiale hanno raggiunto a fine 2019 il livello di 253 trilioni di dollari, cifra pari ormai al 322% del Pil; dal 2008 ad oggi il loro valore è più o meno raddoppiato.
Uno studio recente (Plender, 2020) sottolinea come una parte molto consistente dello stesso sia da attribuire al settore delle imprese non finanziarie e come una quota molto significativa di esso sia concentrata nei settori più tradizionali dell’economia, settori che generano molti meno flussi di cassa che non quello dell’economia digitale.
Inoltre, si rileva una qualità progressivamente più povera di tale indebitamento. Il Fondo Monetario Internazionale stima a questo proposito che il 40% delle attuali obbligazioni societarie a livello mondiale non sarebbero ripagabili a scadenza in caso di una crisi severa anche soltanto la metà di quella del 2008 (Jenkins, 2020).
Ora, l’esistenza di questo livello di indebitamento, per di più in parte almeno di bassa qualità, minaccia di intensificare fortemente il danno economico (Goodman, 2020) del coronavirus. La crisi in atto, se dovesse protrarsi abbastanza a lungo, rischia così di provocare una grande deflagrazione. Si notano già in queste settimane dei segni che mostrano come la fiducia nel sistema finanziario stia diventando molto meno solida di qualche tempo fa (Jenkins, 2020); intanto il panico che sembra avere afferrato le Borse appare inquietante.
Molto dipenderà quindi da quanto i governi e le Banche Centrali potranno intervenire rapidamente e con mezzi adeguati per tamponare il fenomeno.
Ah, ci sono anche i lavoratori?
Da ultimo non si può non sottolineare come nelle misure prese dal nostro governo qualche giorno fa per far fronte ai problemi generati dal coronavirus ci si fosse completamente dimenticati dei lavoratori e dei loro problemi. Ci sono voluti gli scioperi immediati e le agitazioni nelle fabbriche per far venire alla luce il problema e costringere lo stesso governo a correggere in qualche modo questa “piccola” dimenticanza.
Ma non ci si può certo meravigliare in alcun caso della mancanza di memoria, vista l’attuale visione del mondo propria dei principali partiti che fanno parte della compagine ministeriale.
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Testi citati
Beuve-Méry, A. (Anton Brender), «Il faut cesser d’etre passifs face au capitalisme globalisé», Le Monde, 15-16 marzo 2020.
Goodman, P., «Virus could set off debt bomb», The New York Times International Edition, 13 marzo 2020.
Jenkins, P., «‘Bazookas’ cannot stop coronavirus becoming a financial crisi», Financial Times, 16 marzo 2020.
Plender J., «The seeds of the next debt crisis», Financial Times, 4 marzo 2020.
Wei Janguo, «China’s 6 pct growth for 2020 remains the same», Global Times, 16 marzo 2020.