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L’economia tedesca e il mondo aspettando Scholz 

Il cancelliere Scholz ha programmato un bilaterale in Italia con Giorgia Meloni per parlare dei problemi e delle sinergie tra i due sistemi industriali. La locomotiva d’Europa arranca e perde pezzi negli Usa mentre Bruxelles la spinge a recidere i legami con il fondamentale mercato asiatico.

Nel testo che segue riprendiamo il tema relativo alla situazione e alle prospettive dell’economia tedesca – Paese molto importante per l’intera Europa e dell’Italia in particolare mentre si profila una visita ufficiale del cancelliere Olaf Scholz in Italia dopo l’incontro con la premier italiana a margine del G7 di Hiroshima-, tema cui in passato abbiamo dedicato già qualche attenzione su questo stesso sito. Il fatto è che si profilano all’orizzonte delle novità molto rilevanti cui Berlino non sembra rispondere con la necessaria decisione e chiarezza, anche perché le classi dirigenti e l’opinione pubblica tedesca sembrano molto divisi al loro interno. 

La vendita della Viessmann

Diversi anni fa, sotto il governo di Angela Merkel, aveva fatto molto scalpore il fatto che un’impresa cinese allora poco conosciuta in Europa, la Midea, acquisisse la proprietà della Kuka, il più importante produttore di robot del Paese ed una della imprese tecnologicamente all’avanguardia dello stesso; l’azienda, in ogni caso, sembra abbia ottenuto da allora risultati sostanzialmente positivi e dovrebbe nel 2022 aver ottenuto un fatturato di circa 3,9 miliardi di euro, con una crescita di quasi il 20% rispetto all’anno precedente. 

In queste settimane sta facendo almeno altrettanto sensazione, se non di più, l’acquisto da parte della statunitense Carrier di un’altra importante Mittelstand, la società Viessmann, per una somma che si aggira sui 12 miliardi di dollari. Si tratta del più importante produttore di pompe di calore del Paese, che occupa circa 14.500 persone, una società dalle prospettive di mercato molto importanti visti anche i programmi di tutela ambientale dell’Unione Europea che dovrebbero contribuire a triplicare la domanda del continente nel comparto entro il 2027. 

Non riesce a calmare il nervosismo tedesco il fatto che il vecchio proprietario dell’impresa ceduta abbia cercato di rassicurare sulla vendita, affermando che l’occupazione sarà garantita sino al 2026, che gli stabilimenti e i centri di ricerca tedeschi resteranno dove sono per almeno cinque anni e che la sede centrale farà lo stesso per almeno dieci anni; e neanche che egli abbia inoltre spiegato che la cessione era l’unico modo per raggiungere una taglia critica nel settore per far fronte alla forte crescita della domanda mondiale e nello stesso tempo all’aggressiva concorrenza cinese e che, d’altro canto, la famiglia proprietaria non possedeva i mezzi finanziari necessari per finanziare lo sviluppo dell’impresa. 

L’ansietà che ha attanagliato il Paese è fotografata ad esempio da due articoli dal titolo abbastanza simile apparsi in proposito su Le Monde (Boutelet, 2023) e sul Financial Times (Nilsonn, Bushley, 2023). Questa ansietà appare collegabile a interrogativi più importanti sulle prospettive attuali del sistema industriale tedesco in relativo affanno; si pensa tra l’altro, almeno da parte di alcuni, che esso ormai non abbia altra scelta, se vuole sopravvivere, che di vendere le sue imprese migliori, o di investire in Cina e negli Stati Uniti. 

Le incertezze vanno anche al di là dei soli fattori economici e riguardano più in generale i crescenti dubbi sul ruolo e sul collocamento della Germania nel mondo e sulle strategie politiche da perseguire in un contesto di grandi incertezze, mentre assistiamo, come affermato di recente dallo stesso cancelliere Scholz, a una vera e propria zeitenwende, un grande cambiamento di paradigma, con l’affermarsi prepotente sulla scena del mondo di nuove forze e di nuovi Paesi.  

Ricordiamo, tornando ai temi economici, che se il Paese sta male, l’Europa si trova in forma ancora peggiore, visto che la Germania è stata almeno per alcune decine di anni il motore principale dell’economia europea e se si pensa poi agli stretti legami economici degli altri Paesi del continente, soprattutto di alcuni di essi, tra cui l’Italia appunto, con il paese teutonico. Una parte consistente del sistema industriale del Nord del nostro Paese sta in piedi dignitosamente soltanto attraverso un ruolo ormai organico di sub-fornitore della Germania.

I due fronti: la Cina e gli Stati Uniti

Come è noto, la Cina è il principale partner commerciale della Germania (l’interscambio tra i due Paesi ha raggiunto il livello di 280 miliardi di euro nel 2022, con un incremento del 21% rispetto all’anno precedente) e la Cina è anche lo sbocco di importanti insediamenti industriali tedeschi nei settori dell’auto e della componentistica, della chimica, della meccanica e dell’impiantistica; così la Cina è diventata un mercato più importante di quello della stessa Germania per le case dell’auto teutoniche e rischia di diventarlo presto anche nella chimica, due pilastri fondamentali del sistema economico della Germania.

Tra il 2018 e il 2021 il 43% degli investimenti totali dei paesi dell’Unione Europea in Cina è stato originato da imprese tedesche; nello stesso periodo, quattro imprese tedesche da sole hanno rappresentato più di un terzo di tutti gli investimenti diretti della UE nello stesso Paese. Nel 2022, secondo alcune stime, gli impegni tedeschi in Cina hanno raggiunto un massimo storico, collocandosi intorno agli 11, 5 miliardi di euro; nel 2023 tale cifra rischia di essere superata per i forti impegni in atto da parte delle case dell’auto per tentare di recuperare terreno sui produttori locali nel settore delle auto elettriche, nonché per il consistente proseguimento dei lavori per un investimento da parte della Basf per circa 10 miliardi di euro e progetti di insediamento minori annunciati da altre imprese. 

Gli Stati Uniti, appoggiandosi anche al partito “filoamericano” interno al Paese e costituito tra l’altro dai Verdi e dai Liberali, oltre che da quelle parti del sistema economico teutonico che si sente minacciato dalla Cina, nonché da ambienti di Bruxelles, cerca di spingerlo a staccarsi al massimo dal Paese asiatico.

Ma il cancelliere tedesco, conscio della situazione, afferma da tempo che il decoupling non è accettabile.

Intanto il presidente della Basf, Martin Brudermuller, ha a suo tempo dichiarato che chi vuole stare nel settore della chimica deve andare in Cina, pena la sua irrilevanza e che più in generale si sottostima in Germania sino a che punto la prosperità del Paese è in parte finanziata dalla Cina. Più di recente, l’ad della Mercedes, Ola Kallenius, ha ribadito lo stesso concetto, affermando che per la Germania non è realistico né possibile tagliare i ponti con la Cina e aggiungendo che un simile tentativo rischierebbe di mettere a repentaglio il comparto manufatturiero tedesco, per il quale un decoupling appare impossibile. 

Va sottolineato come in prospettiva nella chimica il mercato cinese rappresenterà circa il 50% di quello mondiale entro il 2030, mentre in quello dell’auto oggi siamo “soltanto” a circa un terzo, ma la Cina è ormai leader e guida indiscussa del settore a livello mondiale e ancor più nel comparto specifico dell’elettrico, attualmente il suo mercato rappresenta grosso modo il 60% di quello mondiale. 

Sul fronte delle attività di produzione in moltissimi settori il rapporto qualità-prezzo, il livello di servizio, la gamma dell’offerta, la qualità delle infrastrutture, appaiono imbattibili. Anche nel settore dei chip il mercato cinese pesa, secondo alcune stime, per il 60% del totale mondiale e la Infineon, principale impresa tedesca del settore, ottiene quasi il 40% dei suoi ricavi in Cina.

Il problema è che mentre una volta si delocalizzavano soprattutto i lavori a bassa qualificazione, ora partono invece anche quelli alti di gamma; consideriamo che in Cina orami ogni anno si laureano circa 5 milioni di giovani in discipline scientifiche e che il livello medio di qualità dell’insegnamento cresce di anno in anno.

Una minaccia per la Germania è rappresentata dal fatto che le imprese cinesi si presentano come sempre più competitive sui mercati mondiali nei settori di maggiore interesse per il Paese teutonico.

Dall’altro lato ci sono i rapporti con gli Stati Uniti. 

Ciò che accumuna la situazione delle imprese cinesi e di quelle statunitensi, oltre al fatto di avere ambedue un mercato interno molto vasto, è il fatto che entrambi i Paesi godono di un livello di costi dell’energia molto più basso di quello che si registra in Europa e che ha trovato un punto di rottura con lo scoppio della guerra in Ucraina; anche dopo il ribasso dei prezzi di petrolio e gas il divario è ancora molto forte, tanto che la Germania sta considerando la costituzione di un fondo di perequazione interno in proposito. 

Il varo da parte di Biden dell’Inflation Reduction Act e del Chip Act ha scatenato un vero terremoto in molte grandi imprese europee. Di fronte ai grandi vantaggi economici portati dall’investire negli Usa, molte aziende si stanno precipitando in un numero rilevante per porvi degli insediamenti industriali, trascurando in maniera palese l’Europa, che, d’altro canto, non ha risposto con sufficiente energia ai progetti di Biden, da una parte per la sudditanza politica agli Stati Uniti, dall’altra per l’esistenza di grandi divisioni interne all’Unione. Per sovramercato vari Stati degli Usa stanno aggiungendo ulteriori incentivi rispetto a quelli del governo federale per chi investe nel loro territorio e vari governatoristanno percorrendo il nostro continente per promuovere le loro iniziative in proposito.   

La cosa ha interessato molto le imprese tedesche, oltre che quelle di molti altri Paesi, in particolare nel campo dei chip, incluso le aziende asiatiche da Samsung a TSMC.

Tornando alla Germania, la Volkswagen ha annunciato da poco la volontà di costruire un grande impianto per le batterie in Canada, invece che in Europa come sembrava in un primo momento, mentre progetta anche la produzione di un nuovo modello di veicolo negli Stati Uniti invece che in Germania. Annunci in qualche modo simili hanno fatto la Siemens e la Bosch, già molto attive anche in Cina. La Biontech, dal canto suo, aggiunge un poco di oltraggio alla tendenza descritta, spostando le attività di ricerca in Gran Bretagna.

Tutti questi accadimenti sgomentano l’opinione pubblica tanto più che l’attuale congiuntura economica non appare particolarmente favorevole, mentre gli Stati Uniti sembrano poter rioccupare alcuni degli spazi perduti negli scorsi decenni in campo industriale.

Qualche aspetto positivo

L’opinione pubblica non è stata riassicurata negli ultimi tempi neanche dal fatto che alcune grandi imprese Usa ed asiatiche stiano sbarcando nel loro territorio, in particolare nel settore dei chip e delle batterie. Così, a parte la Tesla che ha aperto una grande fabbrica a Berlino, la taiwanese TSMC sta probabilmente varando una grande iniziativa nei semiconduttori in Germania, mentre lo faranno sicuramente Intel e un’altra impresa Usa, la Wolfspeed. Per quanto riguarda i cinesi, la Catl ha già messo in funzione un primo impianto tedesco di batterie, che dovrebbe essere poi ampliato, mentre la Byd aprirà sempre in territorio tedesco una fabbrica di auto e una di batterie.

Alcuni dubbi alimentano tali iniziative; prima di tutto il costo elevato per le finanze statali di tali progetti. Nel caso di Intel, per il varo di un grande investimento da 17 miliardi di dollari, la società Usa ha chiesto 10 miliardi di sussidi al governo di Berlino, calcando chiaramente la mano in una specie di ricatto.

Allo stato dei fatti, nel settore dell’aumento della produzione di chip gli Stati Uniti nel periodo 2021-2025 mobiliteranno 122 miliardi di dollari di investimenti contro soltanto 31,5 miliardi nella UE (Chazan, 2023). Ma anche se tutto funzionerà a puntino, la Germania importerà ancora nel 2030 circa l’80% del suo fabbisogno di chip (Chazan, 2023). Per quanto riguarda il livello tecnologico, sia nel campo dei chip che delle batterie, l’Europa appare infatti in rilevante ritardo rispetto ai suoi concorrenti.   

L’Europa e l’Italia

La minaccia di deindustrializzazione dell’Europa e/o di cessione di interi settori industriali alle imprese di altre regioni del mondo non è stata mai così concreta e non riguarda soltanto la Germania. In queste settimane in Francia si constata tristemente la progressiva deindustrializzazione del Paese, andata avanti nel tempo. Nel paese transalpino la parte degli impieghi nel settore industriale è oggi appena il 9% del totale e il valore aggiunto della produzione il 10% di quello complessivo dell’economia, con un tendenza ad un calo maggiore che in altri Paesi (Bayart, 2023). In venti anni la Francia ha perduto circa la metà delle sue fabbriche e un terzo dei suoi impieghi industriali (Editorial, 2023). Il governo di Parigi ha approntato ora un piano per cercare di invertire la tendenza, piano per altro fortemente protezionista, come sembra essere ormai la nuova moda dei Paesi occidentali, visto anche che il libero commercio non rende più tanto. Comunque la Francia è ancora la destinazione preferita degli investitori stranieri; sono in atto dei nuovi progetti nel campo delle batterie e dei chip, come in Germania, da parte di capitali esteri. Si vedrà in concreto. 

L’Italia

Possiamo a questo punto rilevare come in questa corsa agli Stati Uniti e alla Cina, le imprese italiane non stiano certo imitando quelle tedesche. Tra le notizie disponibili in proposito abbiamo quella della volontà dell’Enel di costruire un impianto di pannelli solari negli Usa, in Oklahoma, e un’altra iniziativa da parte del gruppo Brembo; e questo è quasi tutto. Sul fronte della Cina, calma quasi piatta. La situazione ha a che fare da una parte con la debole presenza delle imprese nei settori interessati dagli incentivi, dall’altra alla ridottissima presenza nel nostro paese di grandi imprese e di adeguati livelli di internazionalizzazione extra-UE delle poche esistenti. Non si vedono d’altro canto grandi progetti statunitensi e cinesi di insediamento in Italia nell’auto o nei chip, come sta invece succedendo in Germania e in Francia. Giusto qualcosa, una piccola fabbrica di batterie, l’ampliamento di un impianto della STMicroeconomics a Catania, forse un modesto insediamento Usa nel campo dei semiconduttori.

La struttura industriale italiana sembra reggere più che altrove, anche se non sembra per la gran parte in grado di frequentare i piani alti del business.

L’Unione Europea 

La Cina e gli Stati Uniti sono due zone che mostrano un indubbio, forte dinamismo economico e politico. La risposta dell’Unione Europea a tali sviluppi non appare all’altezza del compito. Certo, sono stati avviati negli ultimi anni programmi di sostegno ad alcuni settori avanzati, ma sembrano troppo ridotti quantitativamente e rallentati da intoppi burocratici per poter incidere fortemente sulla realtà, anche se possono aiutare a non far degradare ancora troppo la situazione. 

Intanto nel nostro continente molti settori maturi sono una possibile preda di imprese dei Paesi in via di sviluppo, sola via di sopravvivenza. Prendiamo il caso degli elettrodomestici; in queste settimane la Whirlpool è sotto attacco da parte di un’impresa turca, mentre la Electrolux è sotto la mira dei cinesi. Il principale produttore di acciaio europeo è indiano, nel settore dei veicoli e in quello della chimica le imprese tedesche si salvano rifugiandosi in Cina, la Renault ha fatto un grande accordo con un’impresa cinese, mentre Stellantis non riesce invece a collegarsi alla realtà asiatica, restando così esclusa dalla fetta di gran lunga più importante del mercato mondiale, ciò che pone dei grandi interrogativi sulla sua sopravvivenza di lungo termine. 

Nei settori avanzati, dai chip ad internet, all’IA, al cloud, le imprese europee sono complessivamente poca cosa (tranne l’olandese ASML) e nessuno sembra volere o potere disturbare gli americani.  

Nel frattempo quasi ogni settimana assistiamo a progetti di Bruxelles per cercare di infastidire la Cina; così un giorno si minacciano sanzioni alle imprese perché fornirebbero prodotti all’esercito russo, un altro si vuole bloccare una parte delle esportazioni del paese asiatico, colpevole di essere la stessa Cina un Paese ad alto tasso di inquinamento (anche se da sola la Cina investe il 50% del totale mondiale nelle energie rinnovabili), un altro giorno ancora si vorrebbero controllare preventivamente gli investimenti europei verso la Cina, ogni volta copiando pedissequamente quello che avevano cominciato a fare gli americani il giorno prima. Biden evidentemente cerca, con l’accordo della struttura esecutiva di Bruxelles, dalla von Leyen a Borrell, di punzecchiare Paesi come la Germania e la Francia e di spingerli a poco a poco ad accettare la volontà di Washington.

Testi citati nell’articolo

-Bayart B., La France à la poursuite du graal industriel, Le Figaro, 10 maggio 2023

-Boutelet C., L’angoisse de la désindustrialisation s’installe en Allemagne, Le Monde, 6 maggio 2023

-Chazan G., Germany new chip factories : a bet on the future or waste of money ?, www.ft.com, 12 maggio 2023 

-Editorial, Les premiers fruits d’une France qui se réindustrialise, Le Monde, 12 maggio 2023

-Nilsonn P., Bushley C., German anxiety stoked by Us group’s bid for family-owned Viessmann, www.ft.com, 5 maggio 2023