Top menu

Le lezioni della guerra e le alternative 

La sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan solleva domande di fondo sull’uso della forza militare, e ci chiama a cambiare strategie. Il testo che chiude l’ebook di Sbilanciamoci! ‘Afghanistan senza pace, 2001-2021’.

La parabola dell’Afghanistan di questi ultimi venti anni – dalla caduta dell’emirato islamico sotto le bombe nel 2001 fino alla sua restaurazione con il ritorno al potere dei Talebani nel 2021 – pone domande fondamentali circa l’utilità della forza nella politica internazionale. Questo evento storico costituisce un trauma per le democrazie, una realtà con cui fare i conti per i regimi autoritari e un’iniezione di fiducia per le numerose formazioni jihadiste impegnate nella Guerra al Terrore su scala globale, a partire dalla costellazione filo al-Qaida. Lo shock causato dall’implosione della Repubblica afghana mostra in primo luogo la difficoltà con cui è stato possibile condurre e far circolare pubblicamente durante tutti questi anni un’analisi critica rigorosa delle dinamiche di conflitto, a fronte dell’accondiscendenza (questa sì autolesionista) che caratterizza lo story-telling imperante, sostanzialmente improntato al supporto politico e finanziario di un imponente apparato di intervento militare e al silenzio circa tutto quanto non va. La contro-narrazione che ha cercato di contrastare le scelte politiche e militari fallimentari compiute in Asia centrale –  documentata nei testi raccolti in questo ebook – ha ottenuto spazi limitati e non ha cambiato la politica dell’occidente.. 

La guerra guidata dagli Stati Uniti si è caratterizzata per una serie di errori e contraddizioni macroscopiche, che hanno a che vedere anche con la scarsa comprensione del contesto di intervento e la natura del conflitto stesso. In questo ventennio l’Afghanistan è stato dominato dai signori della guerra, con ampie sacche di impunità; i rappresentanti politici eletti non erano credibili e si sono rapidamente liquefatti, il progetto di mettere fuori gioco i ‘terroristi’ costruendo un sistema ancorato a diritti fondamentali e alla partecipazione democratica non ha avuto successo. Quali sono state allora le principali ragioni del fallimento, nonostante l’impegno significativo di risorse – umane e materiali – da parte di Washington e dei suoi alleati, fra cui l’Italia? 

In primo luogo, si conferma l’estrema difficoltà nel promuovere la democrazia sulla punta del fucile, soprattutto in assenza di una visione politica coerente. Come ben evidenzia un’ampia letteratura empirica nell’ambito delle relazioni internazionali, solo una piccolissima percentuale di interventi militari è riuscita a favorire il reale sviluppo della democrazia in contesti di conflitto armato. Non fa eccezione il processo di nation-building avviato negli ultimi vent’anni in Afghanistan,  partito con l’esclusione dei Talebani da ogni negoziato e terminato negoziando con loro l’uscita di scena statunitense. L’obiettivo strategico dell’operazione ISAF – International Security Assistance Force (‘assistere le istituzioni politiche provvisorie afgane a mantenere un ambiente sicuro’) è stato mancato. Alla fine, le istituzioni nazionali faticosamente ‘costruite’ in anni di intervento internazionale (che ha comunque dedicato la gran parte delle risorse alla dimensione militare) sono state percepite dagli afgani come prive di legittimità. Anche le forze armate afgane – che avevano combattuto per anni, soffrendo ingenti perdite – si sono sentite abbandonate, sia dagli alleati, sia dal fragilissimo governo di Kabul, evaporato prima ancora della partenza degli americani. 

In secondo luogo, la rapida avanzata dei Talebani nell’estate del 2021 ha evidenziato la storica difficoltà a vincere la ‘guerra tra la gente’ e a sbaragliare forze di insorgenza. Gli studi sulle politiche di sicurezza rivelano come senza un consenso domestico elevato e attori politici locali forti e legittimi, nonché di fronte a forze di guerriglia con sostegno sul territorio e capacità di contare su ‘santuari’ oltre confine, è assai problematico per forze regolari internazionali, per quanto tecnologicamente avanzate, sconfiggere l’avversario. La strategia talebana di graduale riconquista territoriale attraverso un reticolo di accordi locali, che ha accompagnato e seguito la firma degli accordi con Washington, ha tratto vantaggio sia dalla debolezza e scarsa legittimità delle istituzioni locali, sia dal fallimento del lungo e costoso processo di addestramento delle forze di polizia e sicurezza locali (compito della missione Nato ‘Resolute Support’, che aveva sostituito ISAF). Si sono aggiunti problemi di logistica e infrastruttura inadeguata, l’infiltrazione talebana, la corruzione e il basso morale: le forze afgane non sono state in grado di contrastare efficacemente il nemico.

In terzo luogo, al fine di spiegare il fallimento occidentale, occorre evidenziare le persistenti carenze nella direzione strategica. Secondo gli ‘Afghanistan Papers’ (i rapporti raccolti dallo US Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction e poi resi pubblici nel 2019 dal Washington Post) gli Stati Uniti hanno alternato diverse strategie sul terreno, senza un chiaro obiettivo e soprattutto in assenza di una precisa definizione di vittoria e di una adeguata exit strategy. I documenti ufficiali evidenziano la spasmodica ricerca di una vittoria decisiva a detrimento di possibili alternative, la difficoltà a trasformare successi tattici della contro-insorgenza in vittorie politiche, e la migliore capacità dei Talebani ad adattarsi sul terreno. È stato poi dimostrato come le premesse alla base dell’applicazione in Afghanistan della strategia di contro-insorgenza adottata in Iraq fossero errate, data la diversa natura del contesto di riferimento e dei principali attori.  Infine, la disastrosa decisione di invadere l’Iraq nel 2003 ha considerevolmente aggravato le difficoltà degli alleati, drenando risorse umane e materiali verso una guerra dalle implicazioni ancor più catastrofiche per la popolazione civile e per la stabilità macro-regionale. 

Sebbene le ragioni dell’insuccesso occidentale dipendano soprattutto dalle scelte di Washington, è fondamentale che anche i paesi alleati avviino un processo di rielaborazione delle lezioni apprese. L’Italia, che ha inviato circa 50.000 soldati in Afghanistan, con oltre cinquanta caduti nella più lunga, costosa e impegnativa missione mai condotta dal 1945, ha la pressante necessità di indagare in modo approfondito quello che è avvenuto, tanto per le esigenze di trasparenza che si confanno a un ordinamento democratico (dopo anni di buio mediatico), quanto per evitare il ripetersi in altri contesti dei medesimi errori. Anche solo per rispetto all’impegno profuso e per le vittime nel conflitto, sarebbe vitale fornire a livello istituzionale una dettagliata ricostruzione di ciò che è stato fatto in Afghanistan dal 2001 fino ad oggi.

Le lezioni apprese dal fallimento in Afghanistan non potranno che essere messe a fuoco come illustrazioni della crescente complessità dei fenomeni bellici contemporanei. Diventa infatti difficile definire cosa sia la guerra oggi. L’accelerazione della ricerca e delle applicazioni militari dell’intelligenza artificiale, così come l’iper-digitalizzazione delle armi, prefigurano un impiego della violenza sempre più in forma remota, a distanza, dietro uno schermo di decisioni affidate soprattutto ad algoritmi, in una dimensione post-umana in cui si mascherano scelte e responsabilità nel decidere di vita e morte di molti esseri umani. In altre parole, i campi di battaglia del futuro sfidano le concezioni tradizionali di guerra, pace e sicurezza, e questo ha profonde implicazioni per gli standard etici e legali che riguardano i conflitti. L’ordine internazionale è sempre più segnato da rivalità e ‘test muscolari’ fra potenze e aspiranti tali, con continue crisi militari e scontri spesso combattuti da milizie e altre formazioni vicarie (proxy), con ampio e profondo coinvolgimento dei civili. Si espandono le zone grigie del diritto internazionale, eroso dalla continua trasgressione dei principi normativi (si pensi al diritto umanitario, anche alla continua violazione del principio di non-respingimento dei rifugiati lungo i confini europei). Ovunque si parla di asimmetria, di azioni non-convenzionali, mentre si assiste alla rapida diffusione di tecnologia militare anche a livello di formazioni paramilitari, di milizie più o meno eterodirette o di cellule terroriste.  

La competizione fra potenze si traduce in nuove corse agli armamenti, con un drammatico aumento dell’incertezza, finanche attorno al principio di deterrenza in tema di armamenti nucleari. Mentre in molti paesi si osserva uno scivolamento all’indietro della democrazia, le spese militari crescono e la stragrande maggioranza della popolazione mondiale – sempre più concentrata in aree urbane, sempre più esposta a disastri legati ai cambiamenti climatici – soffre le conseguenze di una crescente polarizzazione sociale. L’iniqua distribuzione dei vaccini in un mondo sconvolto dalla pandemia ben illustra la devastante disuguaglianza che regna nello scenario globale.

Davanti al Segretario generale Nato che parla di Afghanistan in termini di ‘dure lezioni da apprendere’, davanti all’affondamento di un Paese, al furto della speranza e alla tragedia umanitaria che si annuncia, è fin troppo semplice, oggi, concludere che i pacifisti ebbero ragione vent’anni fa nell’opporsi alla guerra, anche a quella contro il nemico più ostile rispetto ai diritti fondamentali. Il problema da porsi è come quella ragione – sulla cui base nel 2003 si mobilitarono milioni di persone in tutto il pianeta contro l’espansione della Guerra al Terrore nella forma dell’ invasione americana in Iraq – sia stata se non ammutolita comunque messa ai margini, sconfitta politicamente, relegata a un ruolo di testimonianza. E, partendo da qui, interrogarsi su come dare voce, davanti al disastro afghano di oggi, a chi oggi si sforza di definire una prassi di pace, trasmettendo la memoria di una critica spesso silenziata, ma fondata sull’evidenza di quanto necessaria al cambiamento pacifico siano mobilitazioni ampie, articolate e diffuse.  

Al di là del riconoscimento del fallimento della Guerra al Terrore, l’Afghanistan rivela una campagna bellica che raccoglie ovunque magri risultati e aggrava le ferite di crisi politiche profonde, con costi umani inaccettabili. Interroga anche le sconfitte dei movimenti per la pace: perché le democrazie occidentali – che devono alimentarsi dalla dimensione partecipativa delle mobilitazioni sociali – hanno ignorato, nei propri processi decisionali, la larghissima opposizione alla guerra? Sulle missioni in Afghanistan si sono sperimentate formule di politica estera, dottrine, terminologie, regole di ingaggio, discorsi legittimanti e delegittimanti attorno all’obiettivo di ‘contribuire alla pace’. I partiti storici della sinistra hanno superato i tabù della guerra votando missioni che sono diventate per definizione ‘di pace’. E’ difficile non ripensare alla questione dei crediti di guerra nel primo conflitto mondiale e alla frattura portata alla luce nella conferenza di Zimmerwald dell’Internazionale socialista del 1915.

Negli ultimi quarant’anni l’Afghanistan ha cambiato per cinque volte la forma di stato, in un alternarsi di bandiere e formule politiche instabili, che sono state e restano il riflesso di nodi politici che riguardano anche altre regioni del mondo, a partire da come in Afghanistan si è storicamente forgiato il movimento jihadista transnazionale. Davanti all’esaurimento di formule politiche e all’abisso che si è spalancato per 35 milioni di afghani, che fare oggi? Come proteggere i civili e i beni pubblici, quando la diplomazia internazionale mostra chiaramente che non c’è altro schema possibile che confidare nell’ammorbidimento del regime in cambio di qualche risorsa e riconoscimento? Come sostenere le rivendicazioni delle donne afghane, e di quell’ampia fetta di popolazione che non si rassegna all’oblio e alla fame? Quale ruolo possono avere i movimenti transnazionali, le organizzazioni non-governative, così come le associazioni che operano sui nostri territori?

E’ in atto un dibattito, oggi, sull’autonomia strategica dell’Europa, in un quadro globale che cambia rapidamente, e dove – soprattutto dopo la presidenza Trump – è più difficile confidare negli orientamenti di Washington, rivolta ormai verso il confronto con Pechino. Al di là dell’avvenuto aumento delle spese militari, quale strada vuole davvero intraprendere l’Europa in materia di difesa? Questo dibattito su come ripensare la cultura strategica europea, e i nostri impegni militari nazionali e internazionali, tuttavia, non potrà portare a nulla di buono se resterà prigioniero di un castello di competenze meramente tecniche, militari e -strategiche. L’Afghanistan mostra quanto sia urgente ripristinare condizioni di dibattito trasparente come forma di controllo democratico, in cui siano coinvolte la società, le università, le forze sociali. I citati Afghanistan Papers hanno messo in luce anche la scarsa trasparenza nel dibattito pubblico, il divario tra ottimistiche dichiarazioni ufficiali e la consapevolezza, a lungo taciuta o annacquata di molti decisori, che la guerra non potesse essere vinta. In paesi come l’Italia, durante gli anni del conflitto afghano, il controllo delle istituzioni democratiche (a partire dal parlamento) è stato estremamente limitato, tra la nebbia informativa e le stanca narrazione delle ‘missioni di pace’. Gli stessi movimenti per la pace e il disarmo, pur mantenendo i principi e i valori di chi si batte contro la guerra, sono chiamati a capire in modo rigoroso la guerra, a costruire alternative efficaci alle narrazioni strategiche dominanti, a cercare nuovi strumenti per la soluzione dei conflitti.

Ecco le sfide per i pacifisti quindi: riaffermare – dopo decenni di ‘guerra al terrore’ e di fallimenti – la centralità di soluzioni politiche capaci di garantire la pace e la sicurezza; pensare la pace come prassi e raccordarsi con le spinte per l’emancipazione sociale e la solidarietà di fronte ai conflitti; comprendere la complessità della politica internazionale, senza restare intrappolati nella logica semplicistica vittima-carnefice, senza restare in silenzio davanti all’eterna accusa di simpatia col nemico di turno; combinare le iniziative concrete con l’orizzonte utopico della pace.