I “migranti” sono solo 300 milioni su oltre 8 miliardi di individui nel mondo. C’è chi vuole investire molto nei paesi ricchi per barriere che ne frenino l’arrivo. Le stime su quanti saranno sono discordi, due scritti su storia e ragioni dei popoli in movimento fanno un po’ di chiarezza.
“Arrivò da Venezia un altro editto, un po’ più ragionevole; esenzioni per dieci anni da ogni carico reale e personale ai forestieri che arrivassero ad abitare quello stato. Per i nostri era una nuova cuccagna”.
Presumo che tutte e tutti abbiano riconosciuto il passo che precede. Si tratta dell’ultima pagina dei “Promessi sposi” quando, dopo tanto tergiversare e scappare di qua e di là, le cose si sistemano per i nostri eroi; basta un po’ di immigrazione ed essi trovano oltre confine guadagno e naturalmente lavoro e vita serena. Alessandro Manzoni, I promessi sposi cap. XXXVIII.
Ma veniamo a noi, circa quattro secoli dopo.
Contrariamente a quanto spesso si ritiene, i migranti ormai sono pochi, rispetto alla popolazione mondiale, quella che i demografi ottimisti prevedono possa arrivare in qualche decennio ai nove miliardi. Meno di 300 milioni, lontani da casa, tra il tre e il quattro per cento, in tempi traballanti come gli attuali. Sono compresi, nel conto dei migranti, tanto coloro che in futuro vogliono far ritorno, un giorno o l’altro, al luogo d’origine, quanto gli altri, decisi a fermarsi nella terra nuova e di continuarvi la vita.
Il motivo principale delle migrazioni, secondo lo schema abituale, è il lavoro. La mancanza di lavoro, la ricerca di un lavoro migliore, più libero, meglio retribuito, con prospettive vantaggiose. Questo almeno si ritiene con certezza, anche se si intrecciano di continuo altri problemi: sociali, politici, religiosi; e personali, come la mite Lucia (per non dimenticare il mitico Renzo) suggerisce. Essi riguardano in complesso cinquanta milioni di persone che ogni anno, in questo secolo, aspirano a trasferirsi; oltre venti milioni sono persone maltrattate e di fatto costrette ad andarsene, talvolta per sopravvivere in un modo decente. Tutto considerato, le prospettive di lavoro, più o meno soddisfacente, sono un aspetto della vita futura che ogni persona richiede per sé e per la famiglia, per sopravvivere e assicurarsi il necessario: per mangiare, avere un alloggio sicuro, vivere insieme alle altre persone conosciute, fare festa insieme, pregare insieme; e poi studiare, conoscere senza remore fatti e novità rilevanti.
1.Nei secoli addietro i migranti sono stati spesso percentualmente più numerosi; su questo movimento di andare e venire, nel corso di millenni, secondo alcuni studiosi, si è anzi formata (e riformata) la storia del mondo. Oggigiorno però, in molti paesi ricchi, sempre o quasi sempre, vi sono forze potenti che si oppongono all’arrivo di altra gente, di migranti, come si dice adesso. Si vogliono difendere prerogative nazionali raccogliendo consensi su una linea semplice (e anche non difficile da spiegare: si tratta della preoccupazione di dover dividere, nei fatti, “la roba” con altri, venuti da fuori). A tale politica – le ultime decisioni europee sono esplicite in materia – si contrappone un’altra posizione, certo attualmente di minoranza, almeno in Italia, che raccoglie le persone convinte che esista un eguale diritto di ogni essere umano, sulla Terra comune; e che propone, come primo passaggio, la parità di stato di ogni creatura venuta al mondo in un dato territorio, quale che ne sia la madre. Insomma, si tratta del famoso ius soli, contrapposto allo ius sanguinis, predicato dagli avversari delle migrazioni. Questi ultimi si aggrappano al principio: “ognuno a casa sua e ci saranno meno problemi per tutti”. Non manca poi chi è nascostamente d’accordo, ma si vergogna di pensarla così, di farlo sapere e preferisce dissimulare, non prendere apertamente partito e trovare comunque delle scuse. Assicura gli astanti di essere ben favorevole all’arrivo di nuova gente, nuove forze; ma non sùbito, per favore. …vengano sì, in avvenire, purché si tenga conto che per ora l’accoglienza è impraticabile; e così via.
Nel futuro, nel prossimo secolo, si può prevedere che l’umanità comprenderà meno persone, per il calo della popolazione quasi dappertutto, nonostante la crescita attuale in due continenti del Sud della Terra, Africa e America Latina. Forse in un futuro più prossimo, a portata di vite umane, non ci sarà più paura o rifiuto della gente straniera e l’atteggiamento diffuso nei confronti dei migranti potrebbe perfino essere rovesciato, rispetto a quello prevalente nel 2024: improbabile, ma chissà. Tanto più… In un domani non troppo remoto, servirà importare lavori che in determinati paesi non si sanno fare, non si riesce a farli fare, o costano troppo. Forse la gente ricca finirà per disputarsi i migranti disponibili, il loro talento o anche il loro lavoro operaio o servile.
2.Un antefatto, quasi una premonizione, con decenni o secoli in anticipo, è già a ben vedere in corso da decenni almeno, nei nostri paesi ricchi, anche se si preferisce non farci caso: è il popolarissimo gioco del calcio, uno spettacolo molto amato nei nostri paesi, apprezzato da tutta la popolazione (o meglio da metà di essa e sopportato, con qualche affettuoso cedimento, dall’altra metà). Nelle squadre che partecipano a varie gare, di caratteristiche diverse, ma ben note agli appassionati, i cosiddetti campionati, sono compresi molti immigrati, di ogni origine e nascita, molto apprezzati e ben pagati; non solo, ma se qualcuno – tra gli spettatori o in campo – irride al loro aspetto diverso, al colore della loro pelle, è rimproverato e talvolta punito. Sono tre o cinque per ogni squadra, gli immigrati – di prima, seconda, terza generazione – a scendere in campo, in squadre di undici. I calciatori immigrati giocano talvolta meglio – oppure, a parità di bravura, costano spesso molto meno degli atleti “nazionali” – per cui sono convenienti, secondo le regole valide per ogni lavoro e in sostanza simili in ogni paese; il loro apporto è ben accolto, indispensabile, per così dire, per stare a galla, sarebbe meglio dire: stare in campo; per giocare a livello delle squadre avversarie, o addirittura meglio; per poter affrontare la concorrenza “sul mercato”, cioè compagini straniere o rivali con speranza di successo. Insomma, importare calciatori o più in generale atleti validi, anche in altre discipline sportive, vuol dire disegnare una società (una prospettiva di società) in cui gli stranieri sanno fare, aumentano la produttività aziendale, sono utili, ben pagati, accolti negli spazi dei migliori cittadini a tutti gli effetti. Sembra si possa ipotizzare una società futura in cui talenti stranieri, al di là dei loro eventuali tiri in porta e delle loro parate e dei tap-in, saranno indispensabili semmai per tutto il resto che hanno studiato e conoscono: nei laboratori, negli ospedali, perfino nei segreti penetrali della finanza. Non solo per il funzionamento, in fondo di secondario rilievo, di squadre calcistiche come Inter e Milan, ma per il funzionamento, per esempio, di aggregati più complicati, o decisivi, come Toscana o Piemonte o Svizzera. O perfino Stellantis.
3.Ma torniamo alle cose serie; può essere utile riflettere, tutti insieme, sul significato della migrazione, nel passato e nell’avvenire, e anche nell’oggi, un tempo in cui c’è ancora qualcosa da imparare. Nostra guida di riferimento un testo “Migrazioni” storia illustrata di popoli in movimento, un testo di Robin Cohen pubblicato dall’editore Giunti.
Testi analoghi non sono rari, ma quest’ultimo, nel ripercorrere un gran numero di spostamenti umani lungo i mari e le strade della Terra, illustra anche un rischio da sempre presente nella vicenda millenaria delle emigrazioni: la schiavitù. Persone umane – diverse all’aspetto dal “nostro aspetto”, di noi che siamo gente ricca, potente e armata – sono comprate, vendute e incatenate come animali. In “Migrazioni” sono rievocate le vicende delle conquiste, delle colonie, della “tratta”, sempre pensata per ottenere forza lavoro “servile” da utilizzare per il benessere, il guadagno o almeno per l’utilità o la comodità dei padroni. Schiavitù, servitù hanno pesato molto nella storia, non solo come forza lavoro a prezzo vile e in catene, ma anche, curiosamente, hanno avuto un compito nel linguaggio stesso. Una delle nostre espressioni più comuni, il saluto democratico: “ciao” è una corruzione del veneto “sciao” cioè “schiavo” che Pantalon de Bisognosi, Rosaura e Brighella si rivolgevano, arrivando in campiello o se si preferisce, in teatro, andando in scena. Più al Nord del Veneto, già nelle Valli alpine, le persone si salutano ancora dicendo l’una all’altra “Servus”.
Non tutte hanno studiato il latino. Ma nel passato di molte persone c’è un ricordo ancestrale di una società costellata da “servi della gleba”.
4.Le popolazioni emigrano anche per bisogni diversi dalla ricerca di lavoro, in una Terra occupata per lo più, ancora in secoli recenti, da agricoltori: persone legate, per dirla in modo semplice, alla coltivazione e all’allevamento, alla caccia e alla pesca. Una cattiva annata, niente pioggia per mesi e mesi, oppure bufere ripetute e inondazioni, obbligano le famiglie che vivono del loro lavoro e del prodotto dei campi, a fuggire dall’insopportabile carestia, e muoversi con le povere masserizie; o almeno selezionare chi, più gagliardo, oppure più dotata, partendo, aiuterà l’intera larga famiglia, trovando fortuna là dove si è più ricchi o meno colpiti dalla sorte avversa, lontano dalla carestia, dentro e fuori i confini del paese. Se questo è il caso più concreto, vi sono anche le guerre, le scorrerie dei pirati marittimi e terricoli, i dissidi religiosi. La geografia politica e anche la storia dei nostri ricchi paesi è stata scritta anche così. Tutte queste condizioni miserevoli si concretano, per i perdenti, per i deboli, in fame, in mancanza di sicurezza nel domani, nel domani dei figli. Dunque, si parte. Si cerca un altro luogo. A conti fatti, una volta ritrovato un assetto un po’ più accettabile, ci si accorge che manca ancora tutto, cresce la fame, non c’è più acqua pulita che basti per tutti, non ci sono cure, né scuole sufficienti. Altre partenze si rendono necessarie, altre divisioni dolorose, altre esperienze, altre conquiste.
5.Immigration è invece il titolo di una recente raccolta, di scuola francese, (il sottotitolo di Immigration, publicato dal Monde diplomatique nei supplementi della serie Manière de Voir – 194, aprile maggio 2024 – e Illusions, confrontations, instrumentalisations) e offre anche così un quadro del materiale proposto. I testi son brevi saggi, pochi inediti, gli altri sono apparsi, nel corso di un decennio, sulle pagine del mensile.
Un’utile lettura è uno dei testi inediti, Climat, facteur démoltiplicateur, dovuto ad Angélique Mounier-Kuhn. L’autrice osserva che la nozione di migrazione climatica non esiste ancora nel diritto internazionale delle migrazioni, ma solo nella coscienza collettiva dei popoli che dalle migrazioni sono toccati. Anche i ricercatori sono incerti. La necessità di introdurre un fondo di compensazione per i disastri naturali è ben presente tra i cultori della materia, anche se è opinione comune che i migranti per guai climatici di rado arrivino alla frontiera; più spesso si fermano, appena possono, nelle accoglienti pianure conosciute, senza affrontare gente straniera e una diversa lingua oltre confine. Mounier-Khun cita poi Guénolé Oudry, responsabile dei progetti migrazioni e sviluppo all’Agenzia francese dello sviluppo (AFD). “Queste tematiche si iscrivono in un doppia tensione, quella del clima e della migrazione, due aspetti a forte richiamo politico, che ne fanno un sistema eminentemente esplosivo.” Così scrive Oudry. Essa conclude però in un modo disarmante: “…da una trentina d’anni si cerca di prevedere le migrazioni climatiche. Dobbiamo solo ammettere che non siamo in grado di farlo. …Sono però sempre più numerose le persone che pensano sia arrivato il momento di sviluppare un approccio più qualitativo per riflettere come governare migrazioni e politiche di adattamento, piuttosto che perdere tempo a farne i conti”. In modo meno brusco Mounier-Khun suggerisce dapprima un punto di avvio alle migrazioni climatiche. Il punto è quello ben noto delle popolazioni delle isolette oceaniche, costrette ad evacuare per la crescita del livello dell’Oceano. In particolare siamo messi di fronte a un caso limite, quello della popolazione di Gardi Sugdub. Pochissimi isolani, abitanti nella loro isolina al largo di Panama. La loro storia è questa: nel giro del tempo la febbre gialla ha costretto questo brandello del popolo autoctono Guna ad abbandonare le paludi della costa, loro luogo vitale, per cercare rifugio in mare. Circa 1.300 son quelli che sono riparati nell’isola prima indicata, un’isola sicura ma assai piccola, lunga 400 metri e larga 150. (Una Gaza in miniatura.) Ma l’avventura non è finita: “la moltiplicazione delle tempeste e l’innalzamento del livello del mare rendono ben presto la vita impossibile a Gardi Sugdub. La comunità si è rassegnata alla sola scelta ragionevole: un ritorno sul continente, dove il governo di Panama ha iniziato la costruzione di un villaggio con nuove abitazioni nelle quali, con molti ritardi e contrattempi amministrativi, i Guna dovranno presto trasferirsi”.
6. La piccola, miserevole vicenda dei Guna e della loro minuscola isola insegna come i calcoli siano imprecisi di fronte alle scelte, mutevoli per il nostro livello di conoscenze, o se si preferisce, di fronte agli avvenimenti, alle trasformazioni, ai disastri che sovrintendono alla nostra vicenda di popolazioni umane del mondo. Abbiamo scelto una quadratura scientifica, l’antropocene, rispetto alle impostazioni rivali: capitalocene oppure olocene, ma ugualmente risulta impossibile proporre dei numeri significativi, accettabili. Munier-Khun, persona capace di ragionare, mostra tutta la nostra difficoltà nel prevedere cosa accadrà nel 2040, 2050, anni assai vicini, dal punto di vista del maggiore dei problemi: quanti saranno allora gli immigrati. La nostra autrice suggerisce tre cifre, per il 2050, originate da tre diversi modi di pensare: il più ottimistico – se prevale l’ideologia dei pochi immigrati – è di alcuni milioni di immigrati, poche decine di milioni in tutto. Poi ci viene suggerito l’importo calcolato dall’accreditata associazione Oxfam nell’ordine di 160 milioni. Infine è preso in considerazione e ci si richiede di riflettere sul miliardo e oltre di esseri umani suggerito dall’Institute for Economics and Peace, un centro di ricerche australiano.
7. Maligni come siamo, siamo andati alla ricerca dell’Institute for Economics and Peace, (Iep) per imparare finalmente qualcosa di concreto: come si arriva al miliardo abbondante di migranti indicato da quest’ultimo istituto australiano. L’Iep parla chiaro: oltre un miliardo di persone sono a rischio di essere trasferiti (dal luogo originario) entro il 2050 dunque entro 25 anni che, a ben vedere, poi erano 30 al momento dello studio dello Iep, elaborato nel 2020, anno, come si ricorderà, di esplosione della pandemia globale.
Il ragionamento verte su sei punti essenziali: in primo luogo 19 dei paesi più minacciati da catastrofi ecologiche ambientali fanno parte del gruppo di 40 considerati meno pacifici, tra cui Afghanistan, Siria, Iraq, Pakistan. In secondo luogo oltre 1 miliardo di persone vive in 31 paesi in cui l’assetto è decisamente insufficiente ad affrontare evenienze ambientali probabili entro il 2050, senza che sia stato possibile mettere in piedi qualcosa che eviti la fuga in massa della popolazione. In terzo luogo, Africa a Sud del Sahara, Asia del Sud, paesi del Mena (Medio Oriente, Nord Africa) sono regioni fortemente a rischio di minacce ambientali. In quarto luogo, per il 2040 5,4 miliardi di persone, oltre metà della popolazione globale, vivrà in 59 paesi con alto stress idrico, India e Cina comprese. In quinto luogo, ben 3,5 miliardi di persone potrebbero soffrire la fame, molte di più del miliardo e mezzo di oggi (2020). In sesto luogo, la fragile resilienza dei paesi più spesso presi in considerazione dagli studi, peggiorano la sicurezza alimentare e aumentano la competizione per le risorse nei disordini civili, aumentando i trasferimenti di massa, esponendo i paesi sviluppati alle conseguenze di un afflusso continuo di rifugiati e migranti.
8. Tutto considerato, i paesi dell’Europa ricca, rumeni compresi, (assai meno ricchi dei veri ricchi dell’Unione) temono di dover affrontare le prossime elezioni europee con un voto negativo. Esso voto europeo è temuto tanto dai partiti anti migranti che saranno criticati per non aver fatto abbastanza per alzare il gran muro europeo, quanto dai loro avversari pro migranti, la cui politica è del tutto confusa e poco credibile. Nessuno che dica: venite, vi aspettiamo, abbiamo bisogno di voi. Insieme possiamo costruire un futuro più giusto.