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La politica industriale che manca a Draghi

Nell’agenda del governo di Mario Draghi ci sono ambizioni di cambiamento, ma non c’è (ancora) una politica industriale per uno sviluppo sostenibile, avanzato sul piano tecnologico, attento al welfare e alla salute, equilibrato tra i territori del paese. 

Nell’ultimo anno, con la crisi della pandemia, l’economia italiana ha perso oltre mezzo milione di posti di lavoro e rischia di perderne moltissimi altri nei prossimi mesi, quando il governo metterà fine al blocco dei licenziamenti. È essenziale allora pensare a come ricostruire, alle nuove attività da sviluppare, alla nuova occupazione da offrire: la sfida del dopo-pandemia si presenta soprattutto come una sfida di politica industriale.

Non è questo il modo in cui la crisi è stata finora affrontata. Le risorse impiegate sono state rilevanti, 110 miliardi di euro – escludendo le garanzie sui crediti –, di cui 60 alle imprese, ma i fondi sono stati perlopiù assegnati ‘a pioggia’, senza legarli a obiettivi precisi su quali attività economiche rilanciare e senza imporre condizionalità e criteri legati alla qualità dello sviluppo sociale e ambientale del nostro Paese. Una mancanza di progettualità che ha contribuito all’uscita di scena di Giuseppe Conte.

Presentando il suo governo al Senato Mario Draghi ha mandato alcuni segnali: l’uscita dalla pandemia “non sarà come riaccendere la luce” e tornare allo status quo, “il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.” Non ci sono ancora state indicazioni su quali obiettivi guideranno le scelte del governo, ma l’assegnazione degli incarichi di governo non ha mandato segnali incoraggianti. 

Non si tratta di una questione soltanto italiana; come abbiamo già scritto su Sbilanciamoci.info la revisione delle regole europee sulla spesa pubblica, sul debito e sugli ‘aiuti di stato’ alle imprese sarà decisiva per stabilire gli spazi di manovra del governo. Gli incontri europei dei ministri dell’economia del 15-16 febbraio hanno ribadito la necessità di eliminare gradualmente il sostegno alle imprese considerate “non vitali”, pur tenendo conto del rischio di ridurre troppo presto gli aiuti. Secondo alcune cronache giornalistiche (1), il riferimento è all’ormai citatissimo rapporto del Gruppo dei 30 (2), presieduto dall’economista indiano ed ex governatore della Banca Centrale Indiana Raghuram Rajan e dallo stesso Draghi, in cui si forniscono indicazioni ai governi sulle scelte economiche per il post-pandemia, su come passare da interventi generali di sostegno al sistema delle imprese a misure più mirate, che gravino meno sui bilanci pubblici e consentano alle forze di mercato di tornare gradualmente a “gestire il ritmo della necessaria distruzione creatrice”, per dirla con le parole di Rajan.

Rispetto al governo di Mario Monti di dieci anni fa, Mario Draghi ha il vantaggio di trovarsi in una fase storica in cui i dogmi dell’austerità sono stati allentati dall’establishment europeo e sono state offerte importanti risorse da investire. Il banco di prova del governo Draghi è nella sua capacità di portare il governo di unità nazionale a compiere scelte economiche forti, delineando la ricostruzione del paese e affrontandone i rilevanti costi sociali per alcune categorie e territori. C’è un’evidente difficoltà a far emergere un’azione di governo che unisca scelte “tecniche”, la valenza politica delle misure prese, la capacità di gestire i conflitti e di costruire consenso sociale. Tanto più che, di fronte a transizioni complesse come quella ecologica e digitale, occorre costruire con pazienza i processi politici che possono portare a soluzioni efficaci e condivise.

Il nodo più importante da affrontare qui è quello della politica industriale. Partiamo dall’eredità di un decennio di recessione: l’ultima crisi del 2011-2014 ha spazzato via quasi 200 mila imprese e 800 mila posti di lavoro; nel 2019, rispetto al 2007, l’economia aveva ancora il 5% di ore lavorate in meno e l’indice della produzione industriale aveva perso quasi il 20%. L’esigenza di una ricostruzione ci sarebbe stata anche senza la pandemia. La crisi del covid-19 ha inoltre messo in evidenza altri punti deboli del sistema italiano, innanzi tutto l’incompleta tutela del reddito e le distorsioni del sistema degli ammortizzatori sociali, un tema su cui sono state avanzate con il governo Conte importanti proposte di riforma che meriterebbero l’attenzione del nuovo esecutivo (3).

Nel suo discorso al Senato, Mario Draghi ha parlato di un’azione in un contesto macroeconomico più favorevole, di combinare politiche dal lato dell’offerta a quelle sul lato della domanda per favorire la transizione ecologica. Ma non ha affrontato il modo in cui spingere lo sviluppo di produzioni nazionali, il ruolo che il nostro paese intende avere in attività chiave dei prossimi decenni, come governare i cambiamenti delle strutture produttive. ‘Politica industriale’ non è un termine usato nel suo discorso, ma è soprattutto su questo terreno che si gioca la capacità di realizzare i cambiamenti legati alla transizione ecologica e alla diffusione delle tecnologie digitali.

L’occasione fondamentale che si presenta è quella di utilizzare le risorse di Next Generation EU attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per ricostruire le capacità produttive nella direzione di uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale, avanzato sul piano tecnologico, attento al welfare, alla salute pubblica e alle attività assistenziali, equilibrato tra i territori del paese. 

La stessa Unione Europea si sta muovendo verso un rafforzamento della sovranità industriale e dell’autonomia in aree industriali strategiche. Germania e Francia hanno preparato in questi mesi piani dettagliati per il futuro dell’auto – veicoli elettrici, batterie, filiere della componentistica – e dei settori avanzati. Molti – compreso Romano Prodi – si chiedono perché i governi non organizzino e finanzino la produzione di vaccini anti-covid da parte di “un numero di imprese il più ampio possibile” in tutti i maggiori paesi (4).

Per fare tutto questo in Italia servirebbe un nuovo assetto istituzionale, con nuovi soggetti e strumenti di policy. Si potrebbero riorganizzare le attività esistenti – nei Ministeri, in Cassa Depositi e Presiti, in Invitalia, etc. – intorno a tre ‘gambe’ su cui far avanzare la politica industriale. In primo luogo, un’Agenzia per gli investimenti pubblici con il compito di rinnovare le infrastrutture materiali, tecnologiche e sociali del paese, utilizzando anche le risorse di Next Generation EU. In secondo luogo una holding che raccolga l’insieme delle partecipazioni azionarie pubbliche – dall’Enel all’Eni –, orientando le loro attività in modo coerente con gli obiettivi del paese. Infine, una grande Banca pubblica d’investimento capace di rilevare le imprese abbandonate al declino dai privati – Ilva, Alitalia, Autostrade, e così via – e, soprattutto, di lanciare nuove iniziative economiche, con partecipazione al capitale o finanziamenti per piani specifici di investimento nei settori prioritari e nei territori da ricostruire. Il prossimo rinnovo dei vertici di CDP potrebbe rappresentare la prima occasione per muoversi in questa direzione; occorre costruire una massa critica di competenze e risorse, a partire dalle priorità della transizione ecologica e digitale.

Gli ostacoli – economici, politici e istituzionali – lungo questa strada sono rilevanti e le possibilità di successo di una rinnovata politica industriale dipendono essenzialmente da tre fattori, tutti legati a dinamiche di casa nostra.

  1. Questa nuova traiettoria dello sviluppo italiano dovrebbe essere – insieme alla lotta alla pandemia – la priorità del governo, al centro di una visione di lungo termine, con una forte direzione politica capace di guidare le scelte dei poteri economici del paese.
  2. La strategia di politica industriale dovrebbe essere condivisa dalle imprese, dal sindacato, dai lavoratori, dalla società civile, dall’opinione pubblica, in modo da farne un tema ‘al di sopra’ dei conflitti di corto respiro, delle polemiche contro la ‘casta’, delle retoriche sul ‘libero mercato’. Un largo consenso dovrebbe emergere su un nuovo equilibrio nei rapporti tra intervento pubblico e impresa privata, tra capitale e lavoro, tra priorità ambientali, sociali ed economiche, con un’ampia distribuzione dei benefici attesi, a cominciare dall’aumento dell’occupazione, la riduzione della precarietà del lavoro, minori disuguaglianze economiche, sociali, di genere, di salute, etc. (5)
  3. La realizzazione di questa politica industriale è difficile, richiede grandi capacità di innovazione, un’amministrazione pubblica rinnovata, efficienza nell’investimento delle risorse e nella gestione delle attività, comportamenti guidati dall’interesse pubblico, trasparenza e partecipazione democratica nelle scelte di fondo.

Non è facile che queste tre condizioni si realizzino, le capacità, gli strumenti e il consenso vanno costruiti e rafforzati. Ma dobbiamo sapere che – dopo la crisi della pandemia di covid-19 – l’alternativa a una ricostruzione di questo tipo sarebbe soltanto un aggravamento del declino che ha segnato l’Italia negli ultimi decenni.

NOTE

  1. A. Mauro, “L’Eurogruppo adotta l’agenda Draghi: aiuti solo alle imprese vitali”.
  2. Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid”.
  3. “La Cig per tutti ma a pagamento. Arriva la riforma, Il Messaggero.
  4. R. Prodi, “Il G20 riduca i diritti sul siero e l’Italia inizi la produzione” Il Messaggero.
  5.  Un’agenda di questo tipo è stata proposta da Sbilanciamoci! nel luglio 2020, nell’ebook In salute, giusta, sostenibile. Ripensare l’Italia dopo la pandemia. Le proposte di politica industriale sono sviluppate in L. Cresti, M. Lucchese, M. Pianta, “Una politica industriale per il dopo-pandemia in Italia”, L’Industria.