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La partecipazione del lavoro: una storia italiana

L’esperienza dei Consigli di Gestione e della democrazia industriale in italia. La ripubblicazione degli atti di un convegno a milano, a cura di Giuseppe Amari

In un momento in cui cresce il potere dell’impresa sul lavoro, in cui la politica contesta il ruolo delle organizzazioni sindacali, in cui l’espansione del precariato ribadisce la subordinazione delle persone a scelte produttive sulle quali non hanno alcun modo di contare, appare singolare, ma per questo apprezzabile, la scelta delle Edizioni Ediesse di sollevare una riflessione sulla democrazia industriale in Italia con la ripubblicazione degli Atti del Convegno di Milano (febbraio 1946) – Amari G. (a cura di), I Consigli di Gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia. Storia e prospettive, Roma: Ediesse, 2014 (pp. 352, € 18,00) – nel corso del quale viene affrontata la questione se e come radicare nelle nuove istituzioni repubblicane l’esperienza dei Consigli di Gestione.

La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese pone la questione di come garantire che la democrazia non si arresti, nelle parole di Bobbio, «alle soglie della fabbrica», poiché – come afferma la Camusso nella presentazione del libro – «la democrazia industriale è parte decisiva non solo della democrazia economica ma della democrazia tout court». I tentativi di realizzazione di questo obiettivo in quel momento storico e nella nostra successiva storia patria sono ripercorsi sia nella documentata introduzione di Stefano Musso sulla sua evoluzione in Italia e in altri paesi europei, sia nella densa relazione di Francesco Vella sui diversi paradigmi entro i quali si pensa di poter realizzare la democrazia industriale. L’ampia postfazione del curatore fornisce infine il necessario inquadramento storico-politico del problema, rendendo evidente l’importanza del volume nell’attualizzare una questione cruciale per la crescita sociale.

Pur nella loro sinteticità (un centinaio di pagine al netto delle Appendici sui progetti di legge dei partiti politici), dagli Atti del Convegno emerge in tutta la sua variegata problematicità la proposta riformista (evidente dai progetti di legge riportati in Appendice) di dare veste istituzionale alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e quindi di renderla elemento strutturale dell’assetto produttivo. In un momento di grande incertezza sulla ricostruzione e riconversione produttiva del Paese, le forze antifasciste si sentono di avere la forza, politica e morale (acquisita con la lotta di liberazione e con la difesa del patrimonio industriale dallo smantellamento nazista), di rivendicare per il mondo del lavoro un ruolo politico pieno, di poter contare nelle decisioni dell’impresa assumendosi di persona la responsabilità di contribuire al benessere dell’intera società che, in quel momento, non può essere che quello “economico”, di accrescere l’insufficiente “produzione”.

Gli interventi al Convegno forniscono ampi spunti di riflessione, ma tre sono quelli su cui intendo soffermarmi. Dalla lettura degli Atti appare manifesto il tentativo di alcuni di minimizzare, mentre altri cercano di circoscrivere, l’evidente carattere politico della proposta per ricondurla alla sua logica “tecnica”; ciò è presente nella Prefazione di Antonio Pesenti, nell’intervento introduttivo di Giovanni Demaria e nella relazione di Mario Giuliano. Un atteggiamento che non può che sottolineare invece il senso, tutto politico, dell’operazione di trasformazione che si intende avviare; in altre parole, proprio sottolineando la dimensione tecnico-organizzativa della proposta si esplicita la consapevolezza del mondo del lavoro (e delle forze politiche che lo sostengono: «vogliamo … che la democrazia ci serva per creare una vita nuova; pensiamo che essa voglia dire mobilitazione di ogni energia che altrimenti rimarrebbe nascosta. … Abbiamo bisogno che ognuno che lavora senta come sua la vita in fabbrica», Giancarlo Pajetta) che, per introdurre le nuove forme istituzionali e promuovere una diversa “visione” di società, si deve esser disposti ad accettare, da un punto di forza, un compromesso che rassicuri il padronato che non verrà intaccata la sua “unità di direzione”. Ma ciò non è sufficiente ad intaccare la fortissima resistenza del padronato (Angelo Costa per la Confindustria) – un rifiuto netto non è fattibile in questo momento, lo sarà successivamente – il quale rivendica l’assenza di qualsiasi vincolo alle scelte della classe imprenditoriale, in base alla giustificazione che gli interessi superiori dell’economia richiedono la «massima efficienza produttiva» e – di fronte alle richieste di informazione e di controllo – la «massima segretezza» intorno ai problemi economici e finanziari dell’impresa.

Per il padronato, la partecipazione dei lavoratori – per quanto limitata alla consulenza e al controllo, come ampiamente e generalmente ribadito – sarebbe un impedimento alle più razionali scelte per il bene generale del Paese in quanto gli operai (impiegati e tecnici) sarebbero troppo interessati al loro particolare e gli inevitabili conseguenti conflitti individuali intralcerebbero la gestione padronale: «l’imprenditore è … sempre proteso verso l’avvenire, il lavoratore invece è per ovvie ragioni preoccupato soprattutto dell’oggi; il primo rappresenta l’elemento propulsivo e rivoluzionario nell’interno dell’impresa, il secondo è invece l’elemento conservatore» (corsivi aggiunti); così Angelo Costa, nonostante la figura di imprenditore da lui idealizzata non corrisponda, fin da quei tempi, alla realtà come si incaricano di dimostrare le esperienze riportate dall’ingegnere Cristoforo Nidier, presidente dell’Associazione Italiana Organizzazione del Lavoro. Di fronte a una prospettiva di collaborazione tra operai, impiegati, tecnici e dirigenti per il potenziamento produttivo, il consolidamento della pace sociale, l’elevazione morale e materiale dei lavoratori, la posizione del padronato «non si nuove di un millimetro» (Musso); essa è irremovibile nel rivendicare alla proprietà, e ai suoi dirigenti di impresa, il pieno potere di decidere il futuro produttivo del Paese (e quindi quello sociale), senza peraltro assumersi le responsabilità quando esso risulterà fragile e carente, anche nei momenti di massimo splendore.

Il mancato coinvolgimento del lavoro nella gestione dell’impresa incide – anche se trova solo alcune marginali esplicitazioni nel dibattito – sugli effetti che le esigenze interne di efficienza produttiva producono al suo esterno, sul territorio e sulla società locale e nazionale. Si misura in questo modo il nodo politico che è al fondo dello scontro sulla proposta dei Consigli: il coinvolgimento delle maestranze nelle scelte produttive come momento democratico essenziale di costruzione del futuro dell’intera comunità. Un’esigenza di partecipazione, di indirizzo e di controllo che riemergerà spesso nei più accentuati conflitti tra lavoro e capitale che seguiranno, ma che non troveranno mai la possibilità di un’adeguata realizzazione.

Il confronto-scontro politico tra un mondo del lavoro che tenta di socializzare (non collettivizzare) la produzione e un mondo imprenditoriale chiuso nella rivendicazione del potere di decidere lo sviluppo della società, prende spesso, anche se ciclicamente, la forma di dibattito sulla democrazia economica e industriale, come emerge dai contributi di Musso, Vella e Amari già citati. La ricerca di modalità “accettabili” in grado di costituire un possibile terreno di confronto per sviluppare istituzioni inclusive del mondo del lavoro nella gestione del’impresa danno vita a proposte generose che, per quanto aspramente dibattute, non trovano mai una loro concreta, per quanto limitata, attuazione; anzi, esse appaiono, sempre più negli ultimi tempi, astratte da una gestione produttiva che preme per subordinare strutturalmente il ruolo del lavoro all’efficienza del capitale attraverso la preminenza che assume la necessità di estendere, nella visione dominante, lo spazio competitivo delle imprese attraverso le varie liberalizzazioni (del mercato del lavoro e della finanza).

Nell’arco dei decenni trascorsi da quel 1946, il passaggio appare epocale: da una situazione in cui il lavoro si riprometteva di “socializzare” l’impresa si giunge ad una in cui l’impresa mira a “aziendalizzare” il lavoro. In cui l’impresa non solo non guarda più responsabilmente al suo esterno (ai suoi stakeholders), ma nemmeno si preoccupa delle prospettive di lungo periodo delle sue scelte. Il consolidarsi di un visione “finanziaria” nella definizione dei suoi obiettivi (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/La-fabbrica-della-crisi-e-il-declino-del-lavoro-24228) restringono lo spazio delle scelte della impresa, la quale – con l’appoggio di un politico maggioritario decisionista – rivendica la preminenza dell’economico e la libertà di utilizzare la forza lavoro nelle forme e con i tempi che meglio le si addicono. Gli effetti di destrutturazione dell’intero sistema produttivo (dovuti alle conseguenti difficoltà nella crescita degli investimenti e della produttività) attestano quanto poco affidabile sia stato acconsentire alla rivendicazione delle classi imprenditoriale e padronali «di essere lasciate libere di produrre nella maniera più economica i beni richiesti dal mercato» e di quanto poco attendibile sia la loro promessa che «nella realizzazione su base economica dei loro problemi produttivi verrebbero contemporaneamente risolti anche gli altri problemi, ed in maniera particolare, quello dell’elevamento delle condizioni delle masse lavorative che ritengo sia l’obiettivo comune al quale tutti tendiamo» (parola di De Biasi, ingegnere della Società Edison, antesignano degli attuali “riformisti” che vogliono essere innovatori ritornando ai primordi del rapporto di lavoro).

Se è essenziale continuare a immaginare e ricercare terreni di compromesso tra esigenze produttive e necessità di sviluppo politico del lavoro, non si può però trascurare che questa ricerca sia segnata dalle profonde trasformazioni che l’attuale capitalismo transazionale ha creato nel corpo sociale e nelle relazioni lavorative non solo a livello materiale, ma anche in quello culturale. Non solo la dispersione delle figure lavorative è un elemento che riduce e immiserisce gli spazi di contrattazione specifica e generale, ma è anche un momento di disgregazione nelle prospettive presenti in un mondo del lavoro in cui la forte disomogeneità interna facilita l’accettazione della visione egemonica dominante. Se vale ancora l’esigenza del mondo del lavoro (occupato e non) di contare nei processi che determinano il futuro dei singoli e della società nel suo complesso, allora l’esperienza proposta in questo volume – anche, se non soprattutto, per le difficoltà della sua realizzazione – segnala che una tale ricerca richiede, con la reinterpretazione del proprio ruolo, anche la riorganizzazione, se non la ricostruzione, del “soggetto” in grado di contrastare contemporaneamente a tutti i livelli – economico, sociale e culturale – l’attuale «perversa cultura aziendale della cosiddetta share value di “corta veduta”» (Camusso), di prendere atto di una realtà finanziarizzata che riduce il contratto sociale alle finalità imprenditoriali e, in «un preteso post-ideologismo», ripropone «una “efficienza” distinta, anzi contrapposta alla giustizia sociale alla democrazia» (Amari); una ben diversa realtà materiale di quella presentata nel volume che, per essere contrastata al fine di riproporre i valori della democrazia industriale, richiede un ripensamento a livello di capacità progettuale e di gestione del conflitto.