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La nuova strada per le imprese

Sul prossimo decreto da 55 miliardi si stanno abbattendo 2.800 emendamenti. Molti con il vecchio refrain liberistico che ha prodotto tassi di crescita da prefisso telefonico e precarizzazione. Diverso deve essere il ruolo dello Stato: più condizionalità al credito per le imprese, per una fase 2 sostenibile, libera dalle mafie.

È parere comune che l’emergenza coronavirus abbia generato una crisi economica e sociale esogena, simmetrica e temporanea, sia sul versante della domanda che su quello dell’offerta e tutti gli ultimi dati e le più recenti previsioni confermano la recessione e la deflazione, almeno nel breve periodo. Eppure, il rallentamento dell’economia, italiana ed europea, è precedente la pandemia.  Lo spettro della recessione italiana già si intravedeva, e i problemi strutturali del nostro sistema-Paese precedono anche la Grande crisi del 2008. 

Nei mesi scorsi sono stati emessi numerosi provvedimenti per affrontare l’emergenza sanitaria e gli impatti economici e sociali. In questo contesto si inquadra il cosiddetto Decreto Liquidità del governo, attraverso il quale si introducono misure in materia di accesso al credito, di sostegno alla continuità delle aziende, di sospensione di alcuni adempimenti fiscali, l’uso dei poteri speciali nei settori di rilevanza strategica (golden power) per rispondere alla flessione delle attività produttive e agli immediati problemi di liquidità delle imprese. La Cgil ha trovato condivisibile la finalità di questo pacchetto di provvedimenti, cioè sostenere e difendere il nostro sistema produttivo. 

Tuttavia tali misure non sono sufficienti a sostenere la domanda e a riqualificare l’offerta, se non assistite da una serie di condizionalità. Se appare indispensabile il sostegno finanziario alle imprese per superare l’emergenza, è altrettanto fondamentale vincolare tale sostegno al mantenimento dei livelli occupazionali e alla qualità dello sviluppo. 

Riterremmo quindi necessario introdurre ulteriori condizionalità, a partire dalla presentazione di un business plan o un piano industriale, almeno per le grandi imprese, a cui vincolare nuovi investimenti. E la tenuta occupazionale, compreso l’impegno a non delocalizzare la produzione in fasi successive. Inserire ulteriori condizionalità all’erogazione del credito è indispensabile, anche per scongiurare l’utilizzo di tali risorse da parte della criminalità organizzata, perché tutti sappiamo che esiste un serio rischio nel nostro Paese.

Servono pertanto ulteriori strumenti di prevenzione, controllo e di tracciabilità, per evitare che le risorse, essenziali per sostenere il nostro sistema produttivo, finiscano in mano alle mafie o siano utilizzate da soggetti senza scrupoli, avendo scelto di non sottoporre l’accesso al credito, neppure alla preventiva attestazione relativa all’assenza di procedimenti per delitti come criminalità organizzata, corruzione o frode fiscale che sappiamo essere i mali endemici del nostro Paese. 

Al decreto sono stati presentati oltre 2.800 emendamenti, la cui lettura è a tratti diventa sconsolante. E’ lo specchio di una parte del dibattito pubblico dove emerge non l’idea di una ripartenza finalizzata al bene di tutti imprese, lavoratori e cittadini , ma semplicemente la riproposizione di vecchi schemi, inadeguati rispetto alla sfida che dobbiamo tutti affrontare. E quindi sostanzialmente c’è la richiesta incondizionata di fiumi di denaro pubblico non ancorati né all’investimento sull’economia reale né alla tutela occupazionale.

Sul prossimo decreto legge che avrà una entità complessiva di 55 miliardi si stanno abbattendo gli strali di una parte del sistema delle imprese e anche di una parte del sistema politico che, da un lato taccia di assistenzialismo le misure necessarie a tutelare le fasce più fragili della popolazione o gli stessi lavoratori, e dall’altro rivendica il ruolo del mercato quale regolatore unico delle politiche economiche, lasciando allo Stato solo il ruolo di erogatore di incentivi. Peccato che ciò sia quello che è stato messo in campo negli ultimi 15 anni – accompagnato ad una precarizzazione del lavoro e a una riduzione di diritti – e che ha lasciato sul campo un sistema pubblico indebolito, una disoccupazione tra le più alte in Europa, una scarsa competitività del nostro sistema produttivo, soprattutto nel cogliere le sfide strategiche (digitalizzazione e transizione ambientale in primis), oltre a livelli di crescita da prefisso telefonico. Verrebbe da dire: abbiamo già dato. 

Crediamo che nuovo intervento pubblico in economia sia ormai indispensabile, perché solo attraverso un nuovo ruolo economico dello Stato l’enorme liquidità del sistema finanziario si potrà tradurre in una modernizzazione del sistema produttivo, cogliendo anche la prospettiva delle transizioni verdi e digitali. L’intervento pubblico deve quindi affermare una nuova politica industriale e di sviluppo, che potrà essere davvero una strategia per il futuro di tutto il Paese soltanto se sarà costruita e condivisa con tutti gli attori economici e le parti sociali. Il sistema pubblico dovrà essere, nelle funzioni strategiche del Paese, il perno attorno a cui si rafforza il posizionamento competitivo. 

Le nuove politiche industriali e di sviluppo dovranno ripartire dai bisogni sociali, dai cambiamenti climatici e riconversione ecologica e dalla digitalizzazione, attraverso un ruolo centrale della ricerca e della conoscenza.

Lo Stato deve tornare ad occuparsi in maniera diretta del mercato, con nuovi strumenti regolatori, ed è quindi necessaria una fase di un suo rinnovato protagonismo, perché sono ancora tutte all’orizzonte le sfide per il futuro: i cambiamenti climatici, le tensioni geopolitiche e i conflitti, gli ingenti flussi migratori, l’invecchiamento della popolazione, la digitalizzazione e le ulteriori odiose disuguaglianze. 

Rispondere adeguatamente a queste sfide è un’occasione, crediamo, da non perdere. 

 

 

* Articolo scritto per Sbilanciamoci.info da Gianna Fracassi, vice segretaria generale della Cgil