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La guerra di “religione” a Standing Rock

A fine maggio The Intercept ha reso pubbliche le corrispondenze interne di un’agenzia privata di sicurezza, la TigerSwan, che ha lavorato con le polizie di almeno 5 Stati per contrastare con metodi di contro-terrorismo e contro-insorgenza le mobilitazioni contro la costruzione della Dakota Access PipeLine sulle terre dei Sioux comune-info.net

Terroristi di stile jihadista, una forma di insorgenza ideologizzata con forte componente religiosa”, questi i termini usati per descrivere i difensori dell’acqua di Standing Rock, che nel corso di vari mesi si sono opposti alla costruzione della Dakota Access PipeLine su terre ancestrali del popolo Sioux.

La rivista The Intercept ha reso pubbliche a fine maggio un centinaio di corrispondenze interne di un’agenzia privata di sicurezza, la TigerSwan, che ha lavorato con polizie di almeno 5 stati per contrastare con metodi di contro-terrorismo e contro-insorgenza le mobilitazioni contro la DAPL. I documenti contengono informazioni dettagliate sulle tattiche di sorveglianza, schedatura e collaborazione con le polizie locali e di stato. Proprio a Standing Rock si è mostrata con evidenza la deriva delle forze di polizia sempre più militarizzate e addestrate a tattiche di guerra contro la protesta e le mobilitazioni sociali.

Non è un caso allora che TigerSwan abbia costruito un’immagine dei difensori dell’acqua che giustifica l’adozione di strategie simili a quelle utilizzate contro il DAESH, essendo la mobilitazione contro le “pipeline”, considerata come una minaccia di lunga durata che giustificherebbe uno stato di emergenza continuo anche dopo la costruzione della DAPL. In effetti anche ora, a oleodotto completato, TigerSwan continua ad operare per contro della compagnia Energy Transfer Partners, estendendo il suo raggio di azione ed intelligence contro le mobilitazioni contro oleodotti e gasdotti che si stanno moltiplicando in tutto il paese.

Il caso di Standing Rock non è un caso isolato, anzi replica un paradigma di criminalizzazione dei movimenti per la difesa della terra e dell’ambiente ormai diffuso a macchia d’olio in ogni parte del pianeta. Movimenti e leader indigeni ed indigene, contadini, attivisti ed attiviste per l’ambiente oggi sono sulla prima linea di trincea. Lo dimostrano i dati: dei 282 difensori e difensore dei diritti umani uccisi ed uccise nel 2016 almeno la metà erano attivisti ed attiviste di popoli indigeni o ambientalisti e ambientaliste. I dati di FrontLine Defenders rispecchiano quelli raccolti nel rapporto sui difensori dell’ambiente e della terra presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal Relatore Speciale ONU per i Difensori dei Diritti Umani, Michel Forst.

E sono dati che chiaramente svelano una forte correlazione tra l’aumento esponenziale delle aggressioni e omicidi mirati di attivisti per la terra e l’ambiente e l’espansione delle frontiere estrattiviste in ogni parte del mondo, dimostrazione ulteriore dell’enorme impatto non solo socio-ambientale ma anche sui diritti umani e la democrazia provocato  dal modello di sviluppo dominante. A ben guardarli, quei dati, vien da pensare: secondo Global Witness, dei 185 difensori della terra e dell’ambiente uccisi in 16 stati nel 2015 (un aumento del 59% dall’anno precedente, una media di oltre 3 attivisti e attiviste uccisi e uccise a settimana), almeno 42 sono stati uccisi per essersi opposti ad attività minerarie o estrattive, 15 per la loro resistenza alle grandi dighe o per la protezione dell’acqua, 20 per opporsi all’agribusiness e 15 per le loro attività contro l’estrazione illegale di legname.

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