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La fine dell’Europa

In Europa il declino economico e tecnologico si intreccia al vuoto della costruzione politica della UE e alle trasformazioni geopolitiche e culturali. Alcune riflessioni a partire dai libri di Lucio Caracciolo e Regis Debray.

In un periodo di grande confusione e incertezza, il continente europeo si trova al centro di molte e gravi turbolenze su vari fronti. 

Il fronte dell’economia

Possiamo partire dalla constatazione che l’Europa ha perduto del tutto e da tempo la gara tecnologica a livello mondiale; il suo ruolo complessivo nella gran parte delle tecnologie avanzate appare ormai quasi marginale rispetto a quello dei due attori dominanti, Usa e Cina. 

Nell’auto la forte innovazione in atto nel mondo (elettrificazione, digitalizzazione, vettura a guida autonoma, ecc.) pone in primo piano soprattutto la Cina e in parte gli Stati Uniti, mettendo sostanzialmente fuori gioco nel lungo termine Stellantis (che pure ottiene risultati positivi nel breve termine) e Renault (che ha avviato la marcia di avvicinamento ai cinesi) come entità autonome, mentre i produttori tedeschi sembrano ancora in gara grazie, in gran parte, al loro forte radicamento nel paese asiatico. Nel 2022 la Cina ha prodotto circa il 70% delle auto elettriche e ibride a livello mondiale. Nella chimica l’Europa viaggia verso l’irrilevanza: le previsioni al 2030 vedono la Cina controllare il 50% del mercato mondiale, mentre l’Europa si va dirigendo verso il 10%. Internet e dintorni sono controllati in Occidente dai grandi gruppi americani ed in Oriente da quelli cinesi. 

Cose non molto dissimili si potrebbero dire per l’intelligenza artificiale. Nei chip di nuovo l’Europa ha poco da dire rispetto ai produttori asiatici e a quelli statunitensi, mentre la Cina controlla circa il 60% del mercato mondiale nel settore. La Cina produce attualmente almeno il 90% dei pannelli solari a livello mondiale. Nell’elettronica di consumo, dai telefonini ai portatili, ai televisori, la Cina e gli altri paesi asiatici dominano, sia pure con qualche importante presenza qua e là degli americani e degli europei. 

Venendo poi ai settori più tradizionali, nelle costruzioni navali non esistono che i produttori cinesi e coreani, con i giapponesi lasciati indietro, e in quelle ferroviarie si riscontra di nuovo una netta prevalenza cinese, come in quella dei porti. Per i beni di lusso i due mercati principali sono quello Usa e cinese, che insieme tendono a rappresentare almeno i tre quarti del totale mondiale. In campo bancario gli istituti Usa hanno una redditività doppia di quelli europei, mentre quelli cinesi godono del primato delle dimensioni. Nel trasporto aereo i grandi gruppi europei mantengono delle posizioni importanti, ma sono progressivamente sopravanzati da quelli Usa, cinesi, del Medio Oriente. Persino nel settore agricolo le cose non vanno molto bene: a livello europeo il settore è oggi un grande importatore di input dall’esterno, mentre vende per la gran parte prodotti a basso valore aggiunto che invia in particolare verso la Cina, da cui importa invece produzioni a valore aggiunto crescente. Infine, anche i grandi fondi d’investimento del mondo sono controllati da Stati Uniti, Cina, paesi del Golfo, con solo qualche appendice relativamente minore nella UE.

Certo agli europei rimane qualche posizione nella costruzione aeronautica, nella robotica, nei servizi di trasporto marittimi, nelle produzioni legate alla moda, nel turismo, nell’agroindustria, nella meccanica, in alcuni comparti degli armamenti, ecc., ma in prospettiva non ci sono aree protette che non potranno essere espugnate in tempi relativamente ridotti.

Gli investimenti in ricerca e sviluppo dei paesi europei rappresentano ancora il 20% del totale mondiale, ma essi tendono ad essere concentrati sempre più nei settori meno innovativi. 

Per altro verso, i paesi europei sono gravati da un livello molto elevato di debiti, aumentati di recente per far fronte al covid, all’inflazione e alla crisi energetica, e si troveranno nei prossimi anni a dover affrontare il pagamento di maggiori interessi sui debiti contratti (aggravati dalla scelta della BCE di aumentare i tassi contro l’inflazione). Altri impegni gravosi verranno dalle enormi spese necessarie per la transizione verde e per evitare la catastrofe climatica, dall’invecchiamento della popolazione, nonché dalla volontà (insensata) di aumentare le spese per la difesa (Marie Charrel, ‘Les trois défis de l’èconomie européenne’, le Monde, 6 gennaio 2023).  

Ai guai dell’Europa già elencati si sono poi aggiunte di recente le misure protezionistiche di Biden e l’incerta risposta europea. Esse sono soltanto l’ultimo accadimento che sta spingendo molte grande imprese europee a spostare una parte crescente dei loro interessi e dei loro investimenti verso gli Stati Uniti e la Cina, mentre quest’ultimo paese, considerando nel conto anche Hong Kong, è diventato il centro principale a livello mondiale degli investimenti diretti esteri. 

Tutti questi fatti messi insieme colpiscono alla radice l’idea di un’Europa rilevante sul piano mondiale. 

I fronti geopolitico, storico, culturale con due testi appena usciti in libreria

Ma il discorso sull’Europa sta soffrendo terribilmente negli ultimi tempi su diversi altri fronti. Partiamo da due volumi appena pubblicati che apparentemente sembrano avere molto poco in comune, uno sul mondo della geopolitica, l’altro su temi letterari e filosofici. Il primo è un testo del noto esperto di geopolitica Lucio Caracciolo uscito con il titolo La pace è finita (Feltrinelli, Milano, 2022), il secondo un volume di Régis Debray, grande intellettuale francese, noto in Italia soprattutto per i suoi legami di gioventù con la rivoluzione cubana, da poco pubblicato in Francia, con il titolo L’Exil à domicile (Gallimard, Parigi, 2022)

Sono testi di ridotte dimensioni, di agevole lettura il primo, più difficile il secondo. Una caratteristica che accumuna i due autori è l’identità politica. Debray, dopo una gioventù rivoluzionaria, con relazioni molto strette con Cuba e i suoi eroi, da Fidel al Che e, successivamente, con legami di prossimità con la sinistra di governo francese e in particolare con Francois Mitterand, si è poi chiuso, più avanti negli anni, in una visione del mondo molto più disincantata e più cupa. Nell’ambito delle riflessioni tardive sulle vicende del mondo e su quelle sue personali l’autore pubblica da diversi anni dei testi che costituiscono una specie di grande discorso a puntate. Anche Caracciolo ha dei trascorsi giovanili a sinistra, nelle fila del partito comunista, anche in questo caso con un’idea del mondo apparentemente poi abbandonata per collocarsi oggi in una sorta di conservatorismo in qualche modo illuminato. 

Anche se la formazione culturale e gli orizzonti specifici dei due autori appaiono molto diversi, i due testi trattano di un soggetto comune, l’Europa, arrivando a conclusioni sostanzialmente molto vicine.

Le tesi di Caracciolo

Il testo di Caracciolo identifica nell’impero americano il nucleo centrale dell’attuale disordine internazionale. In tale quadro, i paesi del nostro continente appaiono come zattere alla deriva, trascinate da correnti avverse su cui non esercitano alcun controllo, mentre la scena è dominata dallo scontro sempre più violento tra Usa, Cina, Russia.

Per Caracciolo il soggetto Europa non esiste, né appare alla vista, e l’organizzazione dello spazio europeo è ispirata al principio di impedire che si formi. E’ questo l’interesse degli Stati Uniti: avere un continente stabile ma non troppo, da loro strategicamente dipendente; se gli americani si ritirassero, significherebbe per loro abdicare alla dominio su scala globale. 

L’Europa del dopo 1945 è in effetti, per l’autore, innanzitutto il prodotto dell’impulso e della sorveglianza americana; è in tale quadro che si declina quell’improbabile costruzione che si chiama Unione Europea, l’incardinamento degli Stati Uniti d’America in Europa per impedire gli Stati Uniti d’Europa. Gli Usa sostengono l’europeismo europeo in quanto esso, dopo tanti decenni di tentativi e di retorica, a settant’anni dai primi vagiti della comunità del carbone e dell’acciaio, a trent’anni dall’istituzione dell’euro, appare incapace di unire gli europei, mentre l’ideologia dell’europeismo appare utile per pacificarli, adagiarli nella non-storia. La minaccia per l’impero americano in Europa non sta nello sterile ideal-europeismo locale, ma nella sua crisi, nell’antieuropeismo serpeggiante oggi tra gli abitanti del nostro continente. L’europeismo è in sostanza contro l’Europa.

Non c’è mai stata nella storia moderna un’entità politica sovrana europea, afferma l’autore, mentre oggi le differenze appaiono comunque troppo grandi tra Nord e Sud, tra Ovest ed Est e del resto nessuno Stato del continente rinuncerebbe alla propria sovranità, per cui un’eventuale entità federatrice che volesse accollarsi il compito dell’unione non potrebbe che ricorrere alla guerra. 

Le malinconiche riflessioni di Debray

Le tematiche affrontate da Debray sono diverse, ma una delle più importanti riguarda i processi, per lui deplorevoli, di americanizzazione progressiva del nostro continente. Le sue considerazioni partono da un pensiero di Proust che diceva che i fatti non penetrano affatto là dove vivono le nostre fedi. L’autore ricorre alle citazioni profetiche di altri tre letterati: a Stefan Zweig che affermava che, passata la grande guerra, era partita la conquista dell’Europa da parte dell’America; a Paul Valery che già nel 1930 pensava che l’Europa aspirava ormai visibilmente ad essere governata da una Commissione americana; a T. S. Eliott che nel 1945, di passaggio a Parigi, profetizzava che l’Europa era morta. 

Anche per Debray l’idea di un’Europa unita non appare avere alcuna consistenza. Una coesione politica obbedisce a ben altre leggi che a quella della circolazione delle merci, attività considerata nell’intenzione dei cosiddetti padri fondatori come il primo passo per la costruzione dell’Europa politica; l’Europa, mancando di una forza o di un’idea ispiratrice, è oggi per Debray un corpo senza anima, una carrozzeria senza motore, una carrozza senza cocchiere con la frusta. 

Inoltre, 26 dei 27 paesi europei aderiscono alla Nato, con gli Usa che pagano la metà del budget e si occupano dei tre quarti delle capacità operative dell’organismo; appare normale che essi si considerino quindi in diritto di dirigere la musica, “previa consultazione con i nostri alleati”. E del resto la vecchia Europa, afferma l’autore sul filo dell’ironia, atteggiamento che pervade tutto il testo, ha dei piaceri di cui si privano quelli che non pensano soltanto al bagno di mare a mezzogiorno. E poichè noi tutti abbiamo bisogno di un’illusione motrice, perché non questa invece di un’altra? Per altro verso, vivere all’ombra dei musei piuttosto che a quella delle spade è un plus per la durata della vita media; il rapporto costi-benefici non si discute. Agli europei i memoriali e le retrospettive, agli americani il cyberspazio e la visita ai pianeti vicini, il tempo contro lo spazio. Essi inventano, noi commemoriamo. La vecchiaia non è un naufragio senza compensazioni. 

Per Debray, non si vede come un Gallo ormai abituato alle terme calde, agli anfiteatri, ai colonnati, alle palestre, avrebbe potuto nel IV secolo non adottare il latino, così come un francese del XXI secolo non adottare l’angloglobal, il footing, l’aerobic, il coaching, il biker. La Gallia ha perduto qualcosa a coprirsi di acquedotti, di archi di trionfo, di strade pavimentate? E noi cosa ci perdiamo a coprirci di high-tech, di steak house, di barbecue, di pop? Io sono di quelli – afferma l’autore – che giudicano che è venuta l’ora di concludere: nel 212 la cittadinanza romana fu accordata a tutti gli abitanti dell’Impero, pensiamo dunque ai vantaggi che avrebbe per noi l’unione con la metropoli. Ci sono delle lotte di retroguardia che non vale più la pena di combattere. Bisognava pure che i Greci passassero sotto il controllo dei Romani. La vergogna è un sentimento che nuoce all’ordine pubblico, non c’è che il primo passo che costa, poi gli altri sono facili.

Qualche osservazione critica 

Chi scrive si dichiara in gran parte d’accordo con le tesi dei due autori, con qualche osservazione sullo studio dell’autore italiano. L’analisi di Caracciolo è quasi esclusivamente concentrata sulla dimensione geopolitica delle questioni, trascurando che, per la gran parte, alla base della aggressività statunitense stanno le esigenze di dominio del capitalismo di quel paese, dominio minacciato dal crescere in forza di altre economie e di altre forze finanziarie e tecnologiche. 

A parte questa constatazione di base, un’altra osservazione riguarda le dure critiche fatte da Caracciolo alla carta di Ventotene di Spinelli e Rossi. Su questo punto chi scrive si dichiara per la gran parte d’accordo con le conclusioni enunciate da Donato Caporalini nel testo pubblicato anche su questo stesso sito di recente, oltre che su fuoricollana.it. La tesi di Caracciolo è quella che il Manifesto di Ventotene costituirebbe una fondamentale matrice ideologica dell’idea di Europa, poi tradottasi nella sgangherata architettura comunitaria, dietro la quale prospera il progetto nato morto di un’Europa ideale da costruire a dispetto delle miserie che ci sono riservate quotidianamente; si tratta in effetti di un progetto di unificazione che confligge con la storia profonda degli stati nazionali europei. Ma non c’è congruità per Caporalini tra il progetto di Spinelli e l’Europa che nascerà per impulso americano ed acquiescenza europea, radicale negazione nel fondo dell’Europa vagheggiata da Spinelli. Caracciolo rimprovera allo stesso Spinelli il suo approccio “antistorico”, con la pretesa di costruire un ordine che non sia basato sulla volontà di potenza dei singoli soggetti statuali, sul “così è e così sempre sarà”, pensiero di fondo dell’autore. 

L’ordine esistente può anche essere rovesciato; ma, nel caso specifico dell’Europa del dopoguerra, non c’erano e non ci sono in alcun modo oggi le condizioni minime per portare avanti il progetto del Manifesto di Ventotene.

Per altro verso, i due autori non danno rilievo alla piega che ha preso sin dalle origini – e che non ha più abbandonato – la concreta costruzione europea, basata su un’impostazione conservatrice neoliberista, attenta soprattutto agli interessi del grande capitale, degli Stati più forti e dei gruppi di pressione più importanti del momento. Il recente scandalo che ha toccato il Parlamento europeo è solo un piccolo episodio in tale quadro. Per noi questa è una delle ulteriori ragioni per respingere tutta la costruzione dell’edificio.

Che fare 

Se la situazione appare quella descritta, si tratta allora di pensare al che fare, compito molto impegnativo e sul quale i due testi citati appaiono quasi privi di indicazioni, mentre chi scrive si limita ad avanzare soltanto alcune riflessioni, specie sul fronte economico.

C’è in Europa un paese, la Germania, che sembra, anche contro il crescente servilismo di Bruxelles verso la volontà Usa, aver compreso che l’Europa è un concetto vuoto, che i legami con gli Stati Uniti sono troppo stretti e che bisogna mettere a punto, senza dirlo troppo in giro, una strategia di sopravvivenza. Così, mentre il governo ha stanziato 100 miliardi di euro per la creazione di un adeguato ed autonomo apparato militare, il paese, o almeno il suo Cancelliere, contesta la strategia Usa di decoupling dalla Cina e, più in generale, prende atto del fatto che è in atto – secondo le stesse parole di Scholz – una zeitwende, cioè una svolta epocale, con l’arrivo sulla scena di molti nuovi protagonisti oltre alla stessa Cina, e che bisogna quindi fare i conti con questa nuova situazione. Del resto, i pilastri dell’industria tedesca, l’auto, la chimica, la meccanica, dipendono fortemente dalle vendite e dagli investimenti in Cina. 

Un paese come l’Italia, debole come un fuscello nel mare agitato del mondo, vede una fetta consistente del proprio apparato industriale lavorare per le imprese tedesche. Legarsi al carro tedesco appare quindi per molti aspetti una scelta di sopravvivenza.

La seconda opzione che intravediamo, legata in qualche modo alla prima, riguarda la necessità di dirigere molti più sforzi che nel passato verso i paesi in via di sviluppo, in particolare partendo da quelli del Mediterraneo (mi sembra che sia anche questa un’idea di Caracciolo) e dell’America Latina, a noi più vicini geograficamente o culturalmente. Di più non sappiamo.