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La difficile nascita di “Nuova generazione” Europa

“Next Generation EU”, il piano della Commissione europea, apre uno spazio politico – in Italia e in Europa – per orientare l’uscita dalla crisi su una traiettoria di sviluppo più equa e sostenibile. Ma il profilo economico che l’Europa assumerà nei prossimi anni si gioca su diversi terreni di scontro.

L’epidemia di coronavirus e la più grave recessione dal dopoguerra hanno aperto un nuovo, importante spazio per la politica in Italia e in Europa. L’azione dei governi e la presenza di un servizio sanitario pubblico universale sono state essenziali nel contenere i contagi e le vittime. Le misure economiche di emergenza, con sussidi a cittadini e imprese, hanno limitato la portata della crisi. Su entrambi i fronti, il ruolo chiave dell’azione pubblica ha rimesso in primo piano la politica come terreno di dibattito, deliberazione e realizzazione di quanto è necessario per il bene comune.

Sul piano economico questo può essere l’epilogo dei quarant’anni di neoliberismo che hanno ridimensionato il ruolo dello stato e “lasciato fare” al mercato, col risultato di aggravare le crisi, aumentare le disuguaglianze, diminuire la capacità produttiva e perdere molti posti di lavoro. L’intero progetto di integrazione europea degli anni novanta era stato costruito all’insegna del neoliberismo e della finanza, ponendo limiti alla spesa e al debito pubblico, negando la necessità di una politica fiscale europea e puntando tutto sulla moneta comune.

Oggi questi capisaldi dell’Europa neoliberista sono messi in discussione. Il Patto di Stabilità e Crescita, che stabiliva i vincoli per deficit e debito pubblico, è stato sospeso, insieme al divieto di fornire aiuti di stato alle imprese. I governi nazionali possono fare quanto ritengono necessario per affrontare la crisi del coronavirus: tutelare i redditi dei cittadini, aumentare la spesa sanitaria e sociale, sostenere le imprese in difficoltà, fare investimenti pubblici, creare nuove attività, entrare nel capitale delle aziende. È una sospensione che si applica per il periodo dell’emergenza, ma che potrebbe prolungarsi di fronte all’aggravarsi della crisi economica.

La novità più importante è l’avvio di una politica fiscale europea, con la proposta di “Recovery Fund” lanciata da Francia e Germania – dopo le insistenti richieste di Italia e Spagna – trasformata dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel programma “Next Generation EU”. Quale volto potrebbe avere questa Europa “nuova generazione”? La proposta prevede lo stanziamento di 500 miliardi di trasferimenti a fondo perduto e 250 miliardi di prestiti a lungo termine, a favore dei paesi maggiormente colpiti dalla pandemia. Per l’Italia ci sarebbe l’opportunità di disporre di oltre 170 miliardi di euro tra il 2021 e il 2024 – quasi un quarto dei fondi disponibili, la quota più alta fra i paesi europei, poco meno del 10% del Pil dell’Italia, di cui circa la metà sotto forma di finanziamenti a fondo perduto. Nel complesso, il bilancio dell’Ue potrebbe arrivare a 1.850 miliardi per il periodo 2021-2027, quasi il 2% del Pil.

Nella proposta della Commissione le risorse dovrebbero essere raccolte sui mercati finanziari con l’emissione di obbligazioni comunitarie a lunga scadenza, garantite da un aumento del bilancio dell’Unione per i prossimi sette anni. Le risorse saranno assegnate ai paesi sulla base dell’impatto del Covid-19: Italia e Spagna ne otterranno dunque la quota maggiore. I finanziamenti a fondo perduto verranno rimborsati con stanziamenti pro-quota dei paesi membri, probabilmente nell’arco di 30 anni (tra il 2028 e il 2058, per l’Italia si tratterebbe di circa 60 miliardi). I rimborsi potrebbero ridursi significativamente se si trovasse un accordo sull’aumento delle risorse proprie dell’Unione da qui al 2027. Sul tavolo ci sono diverse ipotesi: una modifica del sistema di scambio di quote di emissione dell’Ue, l’imposizione di una “carbon border tax” o di una “digital tax”, una tassa sulla plastica non riciclata. Si tratta di ipotesi su cui ad oggi non esiste un consenso tra i paesi membri per la loro attuazione. Si è tornati anche a parlare della mancata armonizzazione fiscale e della fine dei trattamenti di favore alle imprese multinazionali da parte di alcuni paesi dell’Unione, Irlanda, Olanda e Lussemburgo in particolare.

Sul piano politico, sono diversi gli aspetti positivi della proposta della Commissione. Nasce finalmente uno strumento europeo di politica fiscale, che prevede un trasferimento di risorse tra i paesi europei. Nascono, dopo decenni di veti tedeschi, gli Eurobond nella forma di obbligazioni a lunga scadenza e alto rating, che potranno poi essere acquistati, almeno in parte, anche dalla Banca Centrale Europea, riaprendo un necessario collegamento fra politica fiscale e monetaria.

Sul piano istituzionale la crisi ha rafforzato il ruolo della Commissione – che dovrebbe essere chiamata a gestire i nuovi programmi di spesa e le risorse – ma anche del Parlamento Europeo – che ha da subito evidenziato la necessità di garantire una vera solidarietà fra i paesi e insisteva da tempo per un allargamento del bilancio dell’Unione.

Il quadro delle politiche di risposta alla crisi si è fatto più articolato, con il programma SURE per la tutela dei redditi dei lavoratori a rischio disoccupazione (20 miliardi per l’Italia), il piano di investimenti che dovrà realizzare la BEI (25 miliardi per l’Italia) e la controversa linea di credito messa a disposizione nell’ambito del Meccanismo europeo di stabilità (MES, 37 miliardi per l’Italia) da destinare alla spesa sanitaria. Il MES era nato come risposta alla crisi del debito sovrano dopo la crisi del 2008, aveva preso la forma di uno strumento intergovernativo di crediti con una forte condizionalità – l’arrivo della troika – per imporre quelle politiche di austerità che hanno devastato l’economia dei paesi del Sud Europa. Quell’esperienza offre buoni argomenti a chi è contrario oggi in Italia all’utilizzo di questa linea di credito.

L’aspetto chiave di questi sviluppi in Europa è che stiamo assistendo alla difficile nascita di una politica fiscale comune attraverso un forte conflitto politico – tra governi e tra forze politiche – sui caratteri che andrà ad assumere. Francia e Germania hanno aperto alle pressioni del Sud Europa, cambiando l’asse delle loro alleanze. Olanda, Austria, Svezia e Danimarca – i cosiddetti paesi “frugali”, due dei quali fuori dall’euro – resistono a questi cambiamenti, e puntano i piedi anche i paesi dell’est raccolti nel gruppo di Visegrad, meno colpiti dalla pandemia. È possibile che l’accordo fra i governi europei si traduca in una revisione al ribasso della proposta della Commissione, ma la nuova presidenza di turno della Germania (iniziata il primo luglio) ha tutto l’interesse a condurre in porto il progetto di “nuova generazione Europa”. Lo scontro interno all’Europa ha finora portato alla nomina dell’irlandese Paschal Donohoe a capo dell’Eurogruppo, sconfiggendo la candidata spagnola Nadia Calvino, espressione del Sud Europa e della Francia. Sono ancora da definire le forme di governance dei nuovi fondi europei e l’equilibrio tra il ruolo dei governi – il Consiglio Europeo – e quello della Commissione nell’approvazione e amministrazione delle risorse; qui resta il rischio dell’introduzione di pesanti condizionalità sulle politiche nazionali e di un continuo braccio di ferro politico nei confronti dei paesi più fragili. Infine, l’Italia dovrà insistere affinché i fondi vengano resi disponibili in tempi ragionevoli per favorire una ripresa simmetrica fra i Paesi.

Il profilo economico che l’Europa andrà ad assumere si gioca in primo luogo sulla politica fiscale – le misure a scala europea e la riscrittura delle regole del Patto di Stabilità e Crescita per i governi nazionali – ma altri due terreni chiave riguardano la politica monetaria e la politica industriale.

La Banca centrale europea, “protetta” dalla sua “indipendenza” dai governi, ha già dato risposte importanti, con una politica espansiva senza precedenti, il superamento delle “quote” nazionali nell’acquisto di titoli pubblici e interventi che negli ultimi mesi hanno coperto il fabbisogno finanziario dei paesi del Sud Europa. Quello che resta da fare è finanziare – anche attraverso la BEI e gli Eurobond – investimenti nell’economia reale anziché banche e speculazioni finanziarie, che hanno portato a bizzarre impennate di borsa nel mezzo della recessione.

Con una crisi che farà cadere il Pil europeo intorno al 10% nel 2020, diventa essenziale una politica industriale per ricostruire le capacità produttive in tutti i paesi, e in particolare in Italia dove il 20% della produzione industriale è stata perduta nel decennio dopo la crisi del 2008. La possibilità di fornire aiuti di stato alle imprese in difficoltà è un primo passo, ma serve un programma di ampio respiro che guardi oltre all’emergenza. Qui l’Unione europea offre un contributo importante con l’agenda del “Green Deal”, che delinea una traiettoria di sviluppo basata sulla sostenibilità ambientale, anche se con risorse e strumenti d’intervento ancora del tutto inadeguati.

Su queste basi occorre creare lo spazio per un progetto politico – in Italia e in Europa – che indirizzi l’uscita dalla crisi del coronavirus verso un modello di sviluppo alternativo, come argomentato nel documento di Sbilanciamoci! In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo. Il dibattito europeo ha offerto diversi spunti, dalla possibilità di rafforzare il Green Deal con l’emissione di bond comunitari, all’individuazione di strumenti e istituzioni in grado di ridurre le disuguaglianze e la precarietà del lavoro, all’esigenza di aumentare la capacità di risposta e pianificazione europea nella gestione e nel coordinamento delle spese sanitarie, anche in tempi non emergenziali.[1]

Tocca invece alla politica italiana definire un’agenda di interventi per ricostruire l’economia. Per adesso, il “Recovery Plan” presentato dal Presidente del consiglio Giuseppe Conte agli Stati Generali manca di organicità e elenca proposte poco integrate fra loro. Meglio sarebbe ordinare le misure sulla base di ‘missioni’, organizzate in obiettivi specifici, sulla base dei quali vengano aggiornati i piani nazionali tematici (ad esempio, il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima inviato all’Unione nel gennaio scorso dovrebbe essere rivisto alla luce di obiettivi più ambiziosi), come molto timidamente sembra suggerire il Programma Nazionale di Riforma. Sarebbe un approccio in linea con le raccomandazioni europee e garantirebbe maggiore trasparenza.

La discussione aperta da Sbilanciamoci! va nella direzione di definire interventi specifici per ricostruire un sistema produttivo di qualità, con tecnologie avanzate, lavori qualificati, alti salari e ambientalmente sostenibile. Sbilanciamoci! ha inoltre proposto di valutare le misure contenute nel “Recovery Plan” sulla base degli indicatori di benessere considerati nel Documento di economia e finanza (DEF) del governo o, ancora meglio, sulla base di indicatori più ampi forniti dall’Istat.

Sono molti i fronti aperti in questa fase: il modo in cui l’Italia e l’Europa usciranno dalla crisi dipenderà dal dibattito in corso su ciascuno di questi temi, dai conflitti che emergeranno, dalla capacità di costruire consenso sociale e politico su un modello “post-liberista”, per un’Italia (e un’Europa) “in salute, giusta e sostenibile”.

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Note

[1] Si veda ad esempio l’articolo di Paul de Grauwe e la proposta di Alberto Quadrio-Curzio e Francesco Saraceno.