Gli investimenti stranieri in Cina, dopo il picco del ’22, stanno calando, disincentivati dalle politiche Usa. Dal 20 gennaio con l’insediamento del Trump 2 si teme una nuova stretta. Molte imprese americane e di paesi alleati sono chiamate a disinvestire dalla Cina. E il più grande mercato al mondo si riorganizza.
Premessa
La Cina, dopo l’avvio da parte di Deng Xiaoping delle riforme economiche alla fine degli anni Settanta del Novecento, ha goduto per quasi 40 anni di una crescita media del Pil di circa il 9.5%, impresa mai riuscita a nessun altro paese, almeno così a lungo. Un contributo fondamentale a tali risultati va certamente attribuito agli investimenti in loco delle imprese straniere, cui il gruppo dirigente del paese asiatico ha progressivamente aperto le porte. Gli occidentali non hanno solo costruito impianti produttivi, ma hanno anche, grazie alle normative del paese asiatico, dovuto cedere un importante know-how alle imprese.
Si è trattato di una mossa apparentemente vincente per ambedue le parti. E’ stato così che il paese è diventato una destinazione imprescindibile degli investimenti diretti esteri, che sono stati sostanzialmente in crescita continua sino al 2022. Le cifre dell’Unctad mostrano così che gli investimenti sono passati dai 138 miliardi di dollari del 2018 ai 189 miliardi del solo 2022. Da allora registriamo un calo abbastanza rilevante degli stessi, che sono diminuiti a 169 miliardi nel 2023; la discesa è proseguita nel 2024, ma sembra ora fermarsi negli ultimi mesi dello stesso anno.
L’afflusso degli investimenti esteri diretti conferma in ogni caso la Cina al secondo posto nel mondo per tali movimenti; se aggiungessimo anche i dati di Hong Kong non saremmo molto distanti dai flussi arrivati negli Stati Uniti, al primo posto come destinazione degli stessi.
Perché tale trend
-La delocalizzazione produttiva
Le motivazione dietro lo sbarco in Cina delle imprese straniere sono state sostanzialmente due.
La prima motivazione e, almeno nei primi tempi, la più importante è da collegare alla forte spinta da parte delle imprese occidentali, a partire in particolare dagli anni Settanta, a collocare le loro fabbriche nei paesi emergenti, in particolare in Asia e in America Latina, meno in Africa, per approfittare del basso, o anche bassissimo, costo del lavoro.
Tale processo di delocalizzazione ha raggiunto fortissime dimensioni, e ha privilegiato da un certo punto in poi la Cina, tra l’altro per la sua rete infrastrutturale importante e la presenza di una manodopera abbondante e qualificata. Tale movimento è stato reso possibile, o almeno facilitato, dalla caduta delle barriere protezionistiche nel mondo, nonché dagli avanzamenti nelle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni.
Va peraltro sottolineato che tale movimento ha contribuito molto, con le sue ricadute, al forte sviluppo economico dei paesi interessati, in particolare di quelli asiatici (così in Cina sono uscite dalla povertà in pochi decenni circa 800 milioni di persone; si prevede, per altro verso, che entro il 2030 i due terzi delle classi medie del mondo si concentreranno in Asia). Al tempo stesso ha permesso a molte imprese occidentali di gonfiare il loro giro di affari e i loro profitti e ha invece danneggiato in misura rilevante le economie e la situazione sociale dei paesi di origine delle imprese.
Si è anche parlato, a questo proposito, dell’affermarsi di un parallelo processo di deindustrializzazione nel Nord del mondo, con la perdita di milioni di posti di lavoro e con conseguenze anche politiche che si fanno sentire ancora oggi. Solo per quanto riguarda gli Stati Uniti, si valuta in una cifra di 5 milioni la riduzione degli occupati. Così negli ultimi anni si parla nei paesi occidentali di favorire un processo di reindustrializzazione, processo peraltro dagli esiti quanto mai incerti. Ad esempio, nel caso francese, i vari governi più recenti hanno tentato di portare avanti con decisione tale mutamento di strategie, ma i risultati sono stati abbastanza ridotti e anzi si assiste ora persino ad un regresso (Editorial, 2024).
-La spinta verso un mercato molto promettente
La seconda motivazione al decentramento verso i paesi del Sud del mondo, motivazione che all’inizio si presentava in sordina e che con il tempo invece è diventata molto importante, è per le imprese occidentali quella di inserirsi in un mercato che andava sviluppandosi enormemente.
Oggi la Cina è il più importante mercato del mondo in un numero crescente di settori industriali e di servizio. La sua quota di mercato in attività come l’acciaio o il cemento supera il 50% del totale mondiale; lo stesso si può dire per la robotica, per i pannelli solari e le pale eoliche, mentre nell’auto siamo a circa un terzo del totale mondiale (a quasi i due terzi in quelle elettriche) mentre andiamo verso il 40-50% nei settori della chimica e del lusso. Ricordiamo ancora il settore dei cantieri navali in cui la quota della Cina supera largamente di nuovo il 50%, così come quello dei chip, mentre in altre attività il raggiungimento di un forte primato cinese è soltanto una questione di tempo.
Eppure i numeri recenti e il sentimento prevalente tra gli investitori esteri indicano che da qualche tempo qualcosa non marcia nel verso giusto nella vicenda dei rapporti economici tra Cina ed Occidente.
Le ragioni della svolta
-Le ragioni politiche
Le ragioni del rallentamento degli investimenti occidentali in Cina, evidente negli ultimi anni anche se non drammatico, sono dovute a molti fattori.
Intanto bisogna sottolineare quelli politici (The Economist, 2024). Da quando si è cominciato a percepire il fatto che l’economia cinese continuava a crescere rapidamente, che i suoi prodotti invadevano i mercati occidentali e che il paese avanzava fortemente nelle nuove tecnologie, gli Stati Uniti hanno cominciato a cercare di ostacolare in tutti i modi tale marcia trionfale.
Forse il punto di svolta dell’atteggiamento statunitense può essere collocato intorno al 2015; in tale anno le autorità cinesi hanno in effetti pubblicato un documento nel quale manifestavano l’intenzione di raggiungere e anche superare tecnologicamente gli Stati Uniti in molti settori nell’arco di una decina di anni. A questo punto già con la presidenza Obama si percepiva un cambio di atteggiamento con il suo pivot to Asia, azione che l’allora presidente non ha poi avuto il tempo di portare avanti adeguatamente. In seguito, prima Trump 1 ha messo in atto la politica dei dazi posti alle merci cinesi e insieme il tentativo di blocco delle imprese di telecomunicazione del paese asiatico, dando il là all’offensiva, poi proseguita e anzi molto ampliata con la presidenza Biden. E’ partita una guerra totale non dichiarata che ha coperto tutti i settori, dalla politica al commercio, dalla tecnologia alla finanza, al campo militare, cercando anche di coinvolgere in tutti i modi tutti i paesi possibili.
In campo economico si è incominciato a parlare di derisking, di diversificazione delle catene di fornitura, di nearshoring e così via, mentre si imponevano qua e là dazi, divieti, blocchi vari. Le imprese occidentali hanno cominciato in effetti a rallentare il loro interesse per la Cina, a cercare ad esempio di praticare il cosiddetto Cina+uno, con un processo che ha interessato in modo diseguale i vari paesi e i vari settori. Naturalmente bisogna ricordare a questo proposito il caso delle imprese tedesche che, nonostante le pressioni di molti politici del paese, hanno continuato ad espandere la loro presenza in loco. D’altro canto va segnalato il caso inglese, paese che all’inizio aveva manifestato un atteggiamento di grande collaborazione con la Cina, per poi rinchiudersi invece progressivamente. In questi mesi Londra sembra in parte cercare di tornare sui suoi passi.
Va sottolineato in particolare il caso dei chip, attività particolarmente colpita in tutti i suoi assetti dalle restrizioni di Biden; questo ha tra l’altro comportato il ridimensionamento della presenza delle imprese occidentali nel settore, tranne che nei comparti più maturi (ma ora Biden vuole contrastare anche quelli), mentre sta andando avanti presso il Congresso l’idea di porre sotto controllo tutti gli investimenti degli Stati Uniti verso il paese asiatico. Così diverse imprese del settore emigrano verso paesi quali il Vietnam, l’India e altri.
I politici di Bruxelles non si sono smarcati dalle pressioni degli Stati Uniti, imbarcandosi anch’essi nel tentativo di frenare l’ascesa cinese, cercando di replicare le misure del paese “amico”, anche se con risultati, al momento almeno, piuttosto limitati, mentre ora l’elezione di Trump rischia di porre la UE nella posizione molto scomoda di dover combattere su due fronti, ambedue piuttosto impegnativi.
-L’economia cinese rallenta, ma le imprese locali sono sempre più competitive
Una seconda importante ragione del raffreddamento relativo dei rapporti è costituita dal rallentamento della crescita dell’economia cinese, che andando a vedere ha significato che alcuni settori hanno continuato a svilupparsi fortemente mentre altri hanno visto le vendite passare in territorio negativo. Si pensi per tutti al caso dell’industria del lusso, che ha subito una battuta d’arresto significativa. Più in generale il ridimensionamento del settore immobiliare ha spinto i consumatori cinesi a ridurre le loro spese, trascinando con sé molte attività.
Bisogna considerare però che le imprese cinesi sono sempre più competitive in un numero crescente di settori, nei quali mettono in difficoltà quelle straniere, costrette ad arretrare (The Economist, 2024). Tra l’altro è in atto una forte spinta nel campo delle tecnologie più innovative.
Certo, il caso più noto delle difficoltà occidentali è quello dell’auto. Qui le imprese tedesche, quelle giapponesi e coreane, nonché quelle statunitensi, per molti anni hanno goduto di un’indubbia supremazia su quelle locali. Ora il gioco sembra finito. Ancora nel 2020 le imprese estere controllavano il 65% del mercato cinese nel settore automotive, mentre nel 2024 tale quota è scesa al 37% (28 punti in meno in soli quattro anni) e la percentuale di penetrazione sembra incanalata verso una continua diminuzione. In queste settimane la GM segnala gravi perdite in Cina, così come il gruppo Volkswagen e non sono i soli due casi.
La spinta cinese si manifesta anche altrove. Nella meccanica pesante, una volta dominata dai gruppi tedeschi, le imprese del paese asiatico stanno acquisendo la supremazia. Si pensi ad esempio alle talpe per lo scavo dei tunnel o alle grandi gru portuali.
Oggi la quota cinese del settore industriale mondiale si aggira intorno ad un terzo del totale e quella Usa intorno al 15%. Una recente previsione dell’Unido valuta che nel 2030 saremo al 45% cinese contro l’11% statunitense. Una spinta tremenda e difficilmente contrastabile da parte del resto del mondo.
La crescente offensiva industriale si manifesta anche nel settore dei servizi.
Già diversi anni fa Uber aveva dovuto cedere il passo in Cina nel settore del trasporto delle persone ad un rivale molto agguerrito, Didi Chuxing, e costretta poi ad abbandonare il paese.
Un caso di scuola è rappresentato molto più recentemente da quello di Starbuck, impresa che aveva sostanzialmente portato il consumo del caffè in Cina, facendogli acquisire una grande popolarità. Nello stesso periodo la classe media in via di formazione nel paese si rivolgeva anche ai telefonini della Apple, alle borse di Gucci e ad altre marche internazionali, segnalando la crescente ricchezza (Stevenson, 2024). Oggi i consumatori locali sono meno interessati alle marche straniere, più attenti ai costi (la concorrenza cinese è estremamente competitiva); Luckin Coffee, l’impresa cinese più importante nel settore, apre un nuovo locale ogni ora (Stevenson, 2024).
-La lotta concorrenziale
I manuali di economia politica sono pieni di lodi alle virtù della concorrenza e del libero mercato, gli Stati e le istituzioni occidentali nel dopoguerra hanno praticato, e talvolta imposto, questa dottrina. La Cina ha imparato la lezione molto bene e ha superato i maestri su molti fronti i maestri.
Dietro questi successi si deve fare riferimento al fatto che nella gran parte dei settori industriali e dei servizi la lotta concorrenziale in Cina è all’ultimo sangue; all’apertura di un nuovo settore sorgono sul mercato centinaia e anche migliaia di nuove imprese che si fanno concorrenza sulle innovazioni di prodotto e di processo, in particolare sui prezzi e sul livello di servizio, tra l’altro con una grande flessibilità e velocità di reazione. Alla fine di questa lotta molto aspra restano pochi attori economici in campo. Le imprese occidentali non riescono più a combattere vittoriosamente le varie partite.
Nel settore dell’auto all’inizio si è registrato l’ingresso di qualche migliaio di concorrenti locali, ridotti poi ad un centinaio, mentre la selezione “darwiniana” prosegue. Nel processo si sono raggiunti grandi risultati frutto dell’avanzamento tecnologico, produttivo, distributivo, del prodotto.
Bisogna infine considerare che, di fronte all’aumentare delle turbolenze politiche arrivate dall’esterno, la Cina tende a rinchiudersi in se stessa, almeno nei confronti dei paesi occidentali e a ricercare l’autosufficienza in molti campi.
Ma le notizie della fuga dalla Cina sono esagerate
Sulla stampa occidentale appaiono ogni giorno notizie di fughe delle imprese dal paese asiatico; ma in queste informazioni c’è spesso molta propaganda anti cinese. Indubbiamente si registra, come abbiamo segnalato, un periodo di “riflessione” da parte di diverse imprese, ma la base dell’impegno dei capitali occidentali rimane solida. Citiamo in proposito due casi.
Il primo ha a che fare con la tedesca Basf, la più grande impresa chimica del mondo. Basf, mentre sta ridimensionando in qualche modo la sua presenza produttiva in Germania per gli ormai insostenibili costi dell’energia, sta investendo 10 miliardi di dollari in un grande complesso in Cina, attirata dal più grande mercato al mondo nel settore.
Altrettanto indicativo appare il caso della Apple, citato spesso come sintomatico della fuga delle imprese dal paese asiatico. In realtà la società statunitense ha di recente messo a tacere le voci secondo le quali starebbe abbandonando la Cina a favore dell’India e questo con l’annuncio dell’apertura in Cina di un centro di ricerca e sviluppo (il quinto nel paese) con mille addetti (Foster, 2024), mentre più in generale sta cercando di rafforzare la sua presenza in Cina e questo nonostante forti critiche da parte di diversi politici statunitensi.
Conclusioni
Nonostante le crescenti difficoltà sopra ricordate, moltissime imprese occidentali tentano ancora di inserirsi o anche di consolidare la loro presenza sul mercato cinese; i vantaggi appaiono evidenti, mentre d’altro canto si tratta molto spesso di un passaggio ineludibile. Si tratta da una parte del più grande mercato del mondo in un numero crescente di settori, mentre presenta anche delle catene di fornitura spesso ineguagliabili nel rapporto qualità/prezzo/livello di servizio. Inoltre con la crescente sofisticazione delle sue tecnologie il paese rappresenta uno stimolo a innovare e un punto di confronto necessario.
Ne risulta evidente un conflitto più o meno latente tra le imprese e la politica, conflitto più evidente in paesi come la Germania e gli Stati Uniti. Nella sostanza molte grandi imprese occidentali sono oggi intrappolate in una lotta geopolitica e si trovano tra due fuochi (The Economist, 2024).
In tale quadro si attendono con apprensione le decisioni della seconda presidenza Trump. Queste decisioni potrebbero rendere ancora più difficili i rapporti tra le imprese occidentali e il paese asiatico, che peraltro ha molti strumenti per reagire, mentre sembra configurarsi in maniera sempre più rilevante una sua integrazione con i paesi del Sud del mondo.
Testi citati nell’articolo
-Editorial, L’Europe décroche et la France regarde ailleurs, Le Monde, 21 dicembre 2024
-Foster S., Why Apple’s not decoupling from China, www.asiatimes.com, 18 otobre 2024
-Stevenson A. ed altri, Starbucks has a pumpkin spice latte problem in China, www.nytimes.com, 19 dicembre 2024
-The Economist, Prosperity uncommon, 14 dicembre 2024