Sbilanciamo le elezioni/ È da molto tempo che l’Italia ha rinunciato a una politica economica. Con il risultato che alcune imprese hanno chiuso i battenti, altre sono state assorbite da gruppi esteri, qualcuna ha lasciato il paese
È da molto tempo ormai che l’Italia ha rinunciato a darsi una politica adeguata a sostenere lo sviluppo delle grandi strutture imprenditoriali del nostro paese e negli ultimi decenni, come è noto, anche grazie a tale atteggiamento, alcune hanno chiuso i battenti, altre sono state assorbite da gruppi esteri, mentre qualcuna, come la Fiat, ha nella sostanza lasciato il paese. L’Italia si trova così in una situazione poco confortevole a livello internazionale per quanto riguarda l’avanzamento tecnologico, organizzativo, finanziario, della nostra economia.
Si tratta di un fallimento storico della classe dirigente nazionale politica, industriale e finanziaria. Ancora peggio, tutta la vicenda si è svolta nella sostanziale indifferenza delle nostre élites, dai tempi delle difficoltà Olivetti, quando lo Stato rifiutò di entrare nel suo capitale di fronte alle difficoltà dell’azienda, sino ai giorni nostri, che hanno visto il nostro governo a lungo indifferente rispetto all’acquisizione di Telecom Italia, una infrastruttura chiave del paese, da parte dei francesi; il nostro establishment ha mostrato qualche segno di anche bellicoso risveglio soltanto quando qualcuno ha cercato di infastidire le attività del signor Berlusconi. Abbiamo allora assistito allo spettacolo osceno dei nostri politici e dei nostri media, tutti protesi in difesa dell’italianità dei canali del cavaliere. Si sentiva arieggiare dovunque l’inno di Mameli.
Mentre, comunque, bisogna ora cercare di spendere le scarse energie e risorse residue per sostenere il poco che è rimasto, provando a salvare almeno qualche mobile, c’è peraltro da sperare che, persa sostanzialmente la partita sul fronte delle grandi strutture imprenditoriali, riusciremo almeno a mantenere in vita un adeguato numero di imprese medie e medio-grandi, che tengono ancora oggi accesa la possibilità per il nostro paese di contare qualcosa sullo scenario almeno europeo.
Esaminiamo comunque, per fare il punto sulla situazione, le vicende attuali di alcune nostre grandi e medio-grandi imprese residue, che si trovano in qualche modo e per qualche ragione in acque agitate, quali la FCA, l’Ilva, l’Alitalia, la Leonardo, cercando poi di trarne qualche spunto su di una possibile politica di intervento.
Il caso della Magneti Marelli e della Comau
Il gruppo FCA ha lasciato da tempo il nostro paese come sua sede principale nonostante l’enorme cumulo di denaro e di favori che esso ha ricevuto per molti decenni dai nostri governi. La famiglia Agnelli mira ora a liquidare tutto il suo patrimonio industriale, vendendolo gradualmente al miglior offerente.
Peraltro, almeno per quanto riguarda la FCA, non sembrerebbe che ci sia la possibilità futura di mantenere il gruppo come azienda autonoma, dal momento in particolare che – e si tratta di un caso unico nel settore –, l’azienda non ha investito molto nelle nuove tecnologie (auto elettrica, auto a guida autonoma, sviluppo dell’idrogeno, ecc.) che tendono ormai essere il fattore dominante di successo.
Non appare chiaro quanto l’abbia fatto per carenza di risorse, per miopia strategica, o in conseguenza della decisione di sbarazzarsi di tale business.
É in quest’ambito che si collocano le vicende specifiche della Magneti Marelli e della Comau. La famiglia, non riuscendo a cedere i due complessi ad un’altra azienda al prezzo che sperava, sembrerebbe aver deciso di collocarle in Borsa nel corso del 2018. Alla fine esse potrebbero cadere nelle mani del primo offerente.
Ora, nelle due imprese è collocato un grande patrimonio di conoscenze e competenze nel settore delle tecnologie dei veicoli, nonché in quello dell’innovazione digitale, dell’automazione industriale e di altre cose. Ad imprese come queste è affidata la flebile speranza di riuscire ad avere per noi qualche cosina da dire nella rivoluzione tecnologica che avanza veloce. La perdita di tale patrimonio sarebbe un altro grave colpo per il paese, anche se, ancora una volta, il problema non sembra agitare molte coscienze, dal momento che Berlusconi non sembra entrarci in qualche modo.
In assenza anche di una qualche volontà dei capitali privati nazionali di investire in tale business, ci sembra indispensabile pensare alla Cassa Depositi e Prestiti come ad un veicolo societario in grado di prendere perlomeno una quota importante delle due entità, magari anche accompagnando nel gioco un socio straniero operante nel settore e difendendo quindi un poco gli interessi nazionali.
Il caso dell’Alitalia, così come quello dell’Ilva, rappresentano plasticamente l’incapacità del nostro sistema paese di risolvere una crisi aziendale, sia pure di proporzioni rilevanti, in tempi ragionevoli; per contrasto si può guardare, sempre nel settore del trasporto aereo, alla vicenda di Air Berlin, risolta in Germania in pochissime settimane.
Da noi le due vicende si trascinano penosamente da molti anni, con risvolti tortuosi e a volte anche grotteschi: si possono ricordare, ad esempio, le avventure dei “capitani coraggiosi” e dell’Alitalia nel periodo di Berlusconi. Intanto, con il passare del tempo, i guai crescono; così a Taranto la gente continua a morire dei fattori inquinanti emessi dall’impianto siderurgico, mentre il mercato del trasporto aereo nazionale è stato preso progressivamente d’assalto dalla concorrenza di tutti i tipi.
Nel caso specifico della ex-compagnia di bandiera, ci troviamo intanto di fronte all’evidente impossibilità di una soluzione nazionale e ormai, a nostro parere, anche del mantenimento di una realtà unitaria per le attività dell’azienda, nonostante le ripetute e recenti affermazioni contrarie dei nostri governanti. Questo in relazione al fatto che ormai molti giochi sono fatti, mentre gli errori commessi e il tempo fatto trascorrere ci portano inevitabilmente allo smembramento della compagnia. Non c’è più spazio per una soluzione diversa. Il treno è passato da tempo.
L’analisi della situazione farebbe pensare ormai, plausibilmente, all’acquisizione di una gran parte dei velivoli e delle rotte da parte di Lufthansa, forse con qualche inserimento con un ruolo minore anche di Easyjet, mentre i servizi di terra dovrebbero essere conquistati da un operatore del comparto. Resta in teoria sul tavolo una soluzione alternativa con l’intervento del fondo Cerberus e di nuovo forse della Easyjet, soluzione che alla fine non risulterebbe migliore della precedente nonostante le apparenze e la illusoria promessa del mantenimento di una struttura unitaria della compagnia; il numero degli esuberi non dovrebbe cambiare sostanzialmente nelle due alternative.
Non rimane ormai altro compito al governo che, a parte il condurre a buon fine la cessione – che è lungi peraltro dall’essere acquisita, ponendo la Luthansa una serie di condizioni ancora da accettare da parte italiana, mentre poi bisognerà vedere cosa dirà l’autorità europea per la concorrenza- quello di cercare di salvaguardare quanto più posti di lavoro possibile e di risolvere adeguatamente la questione di quelli che non troveranno una collocazione. Inoltre lo stesso governo dovrebbe cercare comunque di accelerare i tempi di chiusura della pratica senza tirare le cose in lungo per paura dei riflessi della partita sui risultati delle elezioni. I pretendenti per qualche ragione potrebbero anche stancarsi.
Veniamo al caso Ilva. Nelle cinque difficoltà di scrivere la verità individuate a suo tempo da Bertoldt Brecht in un suo testo famoso, una delle più importanti nella lista era quella relativa alla possibilità di riconoscerla. Ora, nel caso dell’Ilva, mentre alcune cose sono abbastanza chiare, altre lo sono molto meno. Individuare in particolare il torto e la ragione nell’agire recente dei vari attori pubblici nella questione – da una parte il potere centrale, dall’altra gli enti locali – per quanto almeno riguarda Taranto (trascuriamo nel discorso le altre localizzazioni del gruppo, a partire da Genova) è un compito molto difficile.
Il cuore dei problemi riguarda oggi intanto la grave questione degli esuberi dei vari impianti, nonché dei lavoratori dell’indotto, tema che deve essere ancora affrontato seriamente al tavolo delle trattative e che richiederà un grande senso di responsabilità da una parte, uno sforzo per mettere in gioco tutte le risorse possibili dall’altra.
Il secondo tema riguarda la questione ambientale.
Apparentemente, la regione Puglia e il comune di Taranto, che hanno aperto una vertenza sul tema ricorrendo anche al Tar, hanno ragione nel sottolineare il fatto che essi erano stati praticamente esclusi dai giochi e che, peggio, la questione ambientale non era stata affrontata in maniera adeguata, mentre d’altro canto ricorrere al Tar chiedendo inoltre una sospensiva dell’atto di cessione agli indiani prima del giudizio di merito, rischia di far saltare in aria tutta la procedura di ripartenza degli impianti, con tempi che a questo punto si allungherebbero ancora a dismisura, ammesso che qualcuno risulterebbe alla fine ancora interessato alla faccenda.
Il faticoso ricorso a delle trattative piuttosto tormentate tra il potere locale e quello centrale dovrebbe sperabilmente portare ora ad un accordo. Nel momento in cui scriviamo sembra essere stato forse raggiunto un punto d’incontro almeno parziale, che farebbe fare dei passi in avanti ad un piano ambientale più incisivo e più rapido nei tempi.
Mentre è irrealistico l’obiettivo che la Regione vorrebbe porre di una completa decarbonizzazione dell’impianto, cosa che non appare tecnicamente fattibile, bisogna comunque considerare che l’ambientalizzazione prevista negli accordi, anche di quelli migliorativi in discussione, mentre certamente ridurrà in maniera significativa il livello di inquinamento, non lo cancellerà del tutto. Ma la chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze ancora più drammatiche su di un territorio che non ha prospettive alternative e realistiche di sviluppo.
Una frazione importante della popolazione vorrebbe in effetti una chiusura definitiva, ma forse non appare ben chiaro che non c’è alcun piano sostitutivo e che comunque, visto lo stato delle finanze nazionali, ma anche di più quello della situazione organizzativa della pubblica amministrazione, non è in alcun modo ipotizzabile il varo di un nuovo piano per l’area.
In ogni caso dovrebbe spettare alla popolazione di Taranto decidere alla fine cosa fare dell’impianto.
Bisogna infine ricordare che anche un’eventuale intesa complessiva dovrà essere approvata dall’autorità europea per la concorrenza.
Infine, la Fincantieri e la Leonardo. Apparentemente, nel caso dell’acquisizione della francese STX da parte della Fincantieri ci troviamo di fronte questa volta ad un sia pur raro successo nazionale. Ma la realtà appare molto meno brillante.
Il contratto firmato tra gli italiani e i francesi e che dovrebbe essere perfezionato in queste settimane è intanto basato su una grave umiliazione per il nostro paese: mentre in passato il controllo della società STX era stato tranquillamente ceduto ai coreani senza alcun condizionamento e mentre sempre i francesi, mentre discutevano aspramente con la Fincantieri sulla questione del controllo della STX, che rifiutavano di cedere agli italiani sotto vari e risibili pretesti, approvavano il passaggio del controllo della Alstom ai tedeschi della Siemens senza alcuna condizione.
Nel nostro caso, solo dopo lunghe trattative, i francesi hanno concesso l’1% del capitale, che conferiva il controllo della compagnia, alla Fincantieri; e questo per dodici anni. Ma l’intesa è condizionata al rispetto da parte degli italiani delle clausole contrattuali, ciò che può dare adito nei prossimi anni ad un ricatto permanente. Inoltre, dovranno essere portate avanti delle trattative per una joint-venture anche nel settore delle navi militari (questa volta l’attore francese sarà la Naval Group), che sarà chiaramente dominata dai francesi e nella quale dovranno confluire le attività nel settore della Fincantieri e della STX, sottraendo quindi da una parte quello che era stato appena concesso dall’altra. Ne potrebbe andare di mezzo anche la Finmeccanica-Leonardo, che forniva la parte degli apparati specifici alle navi della Fincantieri e che nel settore militare della joint-venture si troverà presumibilmente messa in difficoltà dalla incombente presenza della francese Thales con una quota molto importante (35%) nel capitale della Naval Group.
Intanto, più in generale, la Leonardo soffre, oltre che dei problemi recenti legati agli episodi di corruzione e di fondi neri, anche delle carenze di capitali e dallo scarso peso politico del nostro paese in un business in cui la dimensione politica appare molto importante. É facile immaginare che quanto prima la società potrebbe passare in mani estere.
Le vicende descritte mostrano un ulteriore e recente deterioramento della posizione del nostro paese nel settore delle grandi imprese. Se tutto andrà bene, il controllo di Alitalia e Ilva sarà nelle mani del capitale estero, ciò che presumiamo accadrà anche a Magneti Marelli, Comau e forse, anche se più a medio termine, a Leonardo, in assenza, negli ultimi tre casi, di vigorose azioni da parte del nostro governo.
Che Fare?
1) In alcune delle vicende, in particolare in maniera determinante nei casi di Magneti Marelli e Comau, in maniera più misurata sull’Ilva, e in prospettiva nei prossimi tempi anche sulla Leonardo, che ha tra l’altro bisogno di un rilevante aumento di capitale, è necessario puntare sull’intervento delle risorse della Cassa Depositi e Prestiti, unico possibile presidio ormai di fronte alla scomparsa dalla scena del capitale privato nazionale. Ma si dovrebbe peraltro trattare di una CDP largamente rinnovata nei suoi obiettivi e nella sua organizzazione. Oggi essa appare come una setta chiusa, quasi di tipo massonico, mossa da motivazioni poco trasparenti e operante in contatto solo con alcuni gruppi di potere nazionali. La Cassa dovrebbe diventare un asse centrale della politica di intervento pubblico nell’economia.
2) Per il resto, il governo dovrebbe, come in altri casi in Europa, mettere a punto delle linee guida per selezionare l’intervento del capitale estero nelle nostre imprese, salvaguardando in ogni caso alcuni obiettivi strategici nazionali e privilegiando i progetti che proteggano e accrescano l’occupazione e contribuiscano all’innalzamento del livello tecnologico e del contenuto ecologico della nostra economia.
3) Infine, ovviamente, dovrebbero essere rese molto più incisive le politiche che aiutino le nostre grandi imprese a crescere e a consolidare la loro posizione. Da questo punto di vista sarà fondamentale gestire al meglio i necessari processi di integrazione di diverse nostre imprese con delle controparti di altri paesi europei.