In Occidente comincia ad insinuarsi il dubbio che un rilevante intervento del pubblico possa essere necessario a fronte delle manifeste crepe nell’economia
La crisi che si è manifestata a partire dal 2007-2008 ha tra l’altro, come è noto, fortemente messo in discussione il credo neoliberista, sia come visione generale del mondo che come fondamento strutturante della gestione dell’economia e della finanza. Ma tale fede è incardinata ancora oggi in troppi interessi costituiti perché l’establishment occidentale accetti di cancellarla, non disponendo esso, tra l’altro, di una visione alternativa per tutelare la propria “riproduzione allargata”; così il blocco di potere dei paesi ricchi cerca di andare avanti facendo sostanzialmente finta di niente.
Per venire più da vicino ai fatti di casa nostra, mentre a livello di Unione europea affondiamo lentamente nelle politiche di “austerità espansiva”, una variante continentale del neoliberismo, da noi ancora pochi mesi fa il governo Letta ha dichiarato a tutti i venti la sua forte volontà di portare avanti i processi di privatizzazione, che già con i precedenti governi di centro-sinistra e di centro-destra avevano portato a così brillanti risultati. E il nuovo governo non sembra voler cambiare rotta.
Pubblico o privato?
Mentre in diversi paesi emergenti, a partire dalla Cina, il ruolo dello stato e delle imprese pubbliche resta fondamentale ai fini dello sviluppo, in Occidente comincia ad insinuarsi qua e là il dubbio che forse un rilevante intervento dei pubblici poteri possa essere per molti versi necessario a fronte delle manifeste e crescenti crepe visibili nell’edificio dell’economia.
Negli ultimi tempi il dibattito sul tema sta andando avanti su molti fronti, anche se in sordina e senza alcuna visione generale che colleghi tra di loro le varie tematiche affrontate da diverse parti.
I temi principali sul tappeto sono quelli della ricerca e dell’innovazione, delle prospettive di sviluppo dell’economia occidentale, del governo dei processi di automazione, del controllo del sistema finanziario.
Lo Stato imprenditore
La pubblicazione recente del volume di Mariana Mazzucato “The Entrepreneurial State” ha suscitato molta attenzione.
L’autrice demolisce una visione consolidata dello Stato come di un’organizzazione burocratica ed inerte, non in grado di suscitare lo sviluppo e l’innovazione che invece, nella visione corrente, va affidata interamente al business privato. Ed è anche grazie a tali idee che negli ultimi decenni la sfera pubblica è stata attaccata da tutte le parti e progressivamente smantellata in molte aree.
Il testo individua invece nei fatti un ruolo fondamentale per lo Stato imprenditore, che ancora oggi guida nella sostanza la presa di rischio dell’economia, mentre crea nuovi mercati.
Vengono analizzati in tale senso numerosi casi relativi alla situazione degli Stati Uniti, quale quello dell’industria farmaceutica, con il fatto che le medicine più rivoluzionarie sono prodotte con fondi prevalentemente pubblici, nonché quello dello sviluppo delle nuove tecnologie, in particolare delle biotecnologie e della rivoluzione verde. Un posto centrale occupa nell’analisi il caso della Apple, impresa che ha, come strategia di fondo, sostanzialmente quella di incorporare gli sviluppi tecnologici finanziati dalla Stato nei suoi prodotti innovativi; ad esempio, afferma la Mazzucato, non c’è una sola tecnologia chiave che sta dietro l’iphone che non sia stata finanziata con fondi pubblici.
Vengono comunque ricordati nel testo anche diversi casi relativi ai paesi emergenti, dalla Cina al Brasile.
Le conclusioni del testo appaiono evidenti.
Una stagnazione secolare in Occidente
Un secondo tema riguarda il dibattito svoltosi negli scorsi mesi tra un certo numero di economisti, da Summers, che ha aperto la discussione, a Krugman, a Bernanke, a Gordon, alla stessa Mazzucato e a diversi altri. Molti tra di loro sono arrivati alla conclusione che le economie occidentali sono entrate da tempo in una fase di stagnazione secolare, che sembra poter essere interrotta soltanto dallo scoppio di qualche bolla, da quella immobiliare a quella finanziaria.
Sulle cause possibili di tale andamento sono state indicate parecchie piste, dall’insufficienza della domanda, alla scarsa crescita della popolazione, alla mancanza delle grandi innovazioni tecnologiche del passato, senza arrivare ad una conclusione comune unitaria. Tra i fattori più importanti Summers ed altri hanno sottolineato la crescita nel tempo delle diseguaglianze di reddito e di ricchezza.
Così lo stesso autore ricorda come la parte del reddito nazionale che va all’1% più benestante della popolazione è aumentata fortemente, che una parte crescente dello stesso reddito va ai profitti e che i salari in termini reali sono stagnanti. Egli sottolinea anche come il sistema fiscale favorisca nella sostanza i ricchi.
Le conclusioni del dibattito portano molti alla fine a puntare sulla necessità di un forte aumento degli investimenti pubblici, dall’altra su di un forte intervento dello Stato anche sul piano fiscale per raddrizzare almeno parzialmente le diseguaglianze.
Qualcun altro, intervenendo nel dibattito, ha sottolineato come, accanto a fattori relativi alla carenza di domanda, ci siano anche questioni relative all’offerta e suggerisce quindi nuove piste di politica industriale.
I processi di automazione
Anche in questo caso, la pubblicazione recente di alcuni testi sullo sviluppo della robotica e di altre tecnologie avanzate e sulle sue possibili conseguenze economiche e sociali hanno innescato un rilevante dibattito, in particolare nel mondo anglosassone.
Si mette in evidenza come i processi in atto tendano a sostituire non più soltanto il lavoro operaio, ma anche quello degli uffici e in particolare anche quello dei quadri e dei dirigenti. Il fenomeno non riguarda soltanto il settore manifatturiero, ma anche aree come l’istruzione e la sanità.
Si sottolinea come il ritmo della rivoluzione in atto dovrebbe accelerare nei prossimi decenni. C’è chi ha calcolato che il 47% dei lavori Usa siano a rischio automazione e che i lavori oggi a medio reddito dovrebbero ridimensionarsi fortemente. Il risultato potrebbe essere quello di un ridotto gruppo di vincitori ai vertici della piramide e di un gruppo molto più vasto che lotta al di sotto. In particolare, la diseguaglianza dei redditi potrebbe ancora aumentare.
Da questo punto di vista appare fondamentale, come suggerisce ad esempio Martin Wolf sul Financial Times, correggere da parte dello stato le conseguenze distributive delle nuove ondate di innovazione. Altrimenti la stagnazione secolare si trasformerà in una grande regressione.
Il controllo del sistema finanziario
Ci sarebbe infine la questione del controllo del sistema finanziario che, come ha mostrato la crisi, è del tutto fuori controllo. In questo caso si sottolinea ormai da diversi anni e da molte parti come sia necessario un forte intervento dello stato nel ruolo di regolatore e di controllore; sono colati fiumi di inchiostro sull’argomento, a Bruxelles molte commissioni ci lavorano giorno e notte da diversi anni, ma i risultati sino ad oggi sono veramente molto limitati.
Evitiamo comunque di entrare nei dettagli di una tematica sulla quale le analisi hanno esplorato tutti gli angoli possibili, anche quelli più nascosti.
Ma qui tocchiamo con mano la contraddizione esistente su tali questioni, da una parte tra la necessità di profondi cambiamenti e di un intervento forte dello stato regolatore e controllore, dall’altra la forte resistenza delle classi dominanti a tali interventi.
Il futuro appare quindi denso di incognite.