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Il popolo che verrà

Di fronte all’ipotesi non impossibile di una condivisione consensuale del potere tra Macron e il Rassemblement National, dobbiamo riflettere sul significato di un Nuovo Fronte Popolare, evidenziandone sia le difficoltà che le potenzialità. Saggio pubblicato da Aoc in Francia e da il manifesto in Italia.

Parte 1. L’unione delle destre contro il fronte popolare

La catastrofe politica che si è abbattuta sulla Francia il 9 giugno ha colto molti di noi di sorpresa, eppure era stata ampiamente prevista. Innanzitutto dai sondaggi, anche se non sempre bisogna crederci. Ma soprattutto dall’ascesa pluridecennale del Front-Rassemblement National (RN) nelle elezioni e nell’opinione pubblica, che negli ultimi anni ha continuato ad accelerare e ad allargare la sua base.

Alla base di questa ascesa ci sono alcune cause convergenti, ognuna delle quali è ben nota. Errori commessi da politici “repubblicani” che hanno pensato di poter usare Le Pen, o sua figlia, a proprio vantaggio. Ci siamo forse dimenticati che lo stesso Mitterrand si è arreso a questo? C’è l’accettazione strisciante dell’idea che “l’immigrazione è un vero problema”, non solo dal punto di vista economico (anche se senza immigrati, compresi quelli privi di documenti, la Francia non funzionerebbe), ma per la diversità culturale e religiosa che apporta alla società francese e alle società di tutto il mondo. Questo è un compromesso con l’ideologia securitaria e autoritaria che l’RN propaganda instancabilmente. Ma c’è anche l’ignoranza o il disprezzo per l’angoscia e la sofferenza che la devastante globalizzazione sta causando nella società e che oggi favorisce ovunque l’ascesa dei nazionalismi. C’è lo sfinimento del dibattito politico che sostiene una governance basata sulla premessa dell’“ignoranza del popolo” e l’invasione dello spazio pubblico da parte dei social network commercializzati.

Il risultato è la denigrazione altezzosa o la repressione violenta di tutti i movimenti che, anno dopo anno, esprimono le richieste della società e ricreano la partecipazione civica. E a coronamento di tutto ciò, la demoralizzazione e il disorientamento prodotti nel “popolo della sinistra” dalle divisioni, la stagnazione intellettuale, la partigianeria, le inversioni di rotta opportunistiche e i ripetuti tradimenti dei loro impegni da parte di partiti la cui storia era destinata a incarnare un’alternativa al sistema economico dominante: un capitalismo finanziario sempre più feroce e arrogante.

Cosa avremmo dovuto aspettarci se non una brutale avanzata populista alla quale gli eredi del vecchio fascismo alla francese stavano lavorando da tempo? È quanto sta succedendo: come dicono i manuali di filosofia, “la quantità si è trasformata in qualità”.  Nel giro di una giornata ci siamo trovati in un altro paesaggio, se non in un altro mondo. E soprattutto in un altro futuro. La rivelazione è avvenuta la sera delle elezioni europee considerate “senza posta in gioco nazionale”. Allora la cosiddetta estrema destra (RN, più “Reconquête”, più una parte da determinare dei “Repubblicani”) era diventata potenzialmente la maggioranza del paese. Tutto questo è stato vissuto come un trauma.

Si può immaginare cosa significherebbe l’arrivo al potere di Marine Le Pen, Jordan Bardella e della loro squadra: l’estinzione delle libertà civili a favore di una polizia libera da ogni controllo e obbligo, il monopolio degli imperi mediatici ultraconservatori e la loro morsa sulla cultura e sull’informazione, la regressione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici, la xenofobia criminale incoraggiata e persino formalizzata, un ordine morale, sanitario e carcerario…

A questo primo choc ne è seguito immediatamente un secondo dagli effetti ancora più contraddittori: l’annuncio da monarca da parte del Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, colpito in pieno dal successo dell’avversario da lui stesso designato, di sciogliere l’Assemblea Nazionale e annunciare le elezioni praticamente senza campagna elettorale. Perché questo colpo di teatro architettato con un manipolo di consiglieri irresponsabili, all’insaputa del governo e nel grande sgomento dei suoi stessi fedelissimi, ha messo alle strette tutti coloro che non possono rassegnarsi a piombare nella notte senza fare nulla, rivelando il pericolo imminente di un cambio di regime. Troppe esperienze storiche ci insegnano che ne usciremo solo alla lunga, pagando un prezzo terribile. Se ne usciremo.

Per tutti i cittadini che noi siamo era fuori questione limitarsi a dirsi: lasciamo passare questo brutto momento e aspettiamo che dimostrino la loro incapacità… Al contrario, è diventato evidente che bisognava agire, riunirsi, mobilitarsi. Nel giro di poche ore sono stati lanciati appelli in tal senso. Un piccolo gruppo di dirigenti di sinistra che, nel naufragio della Nupes (l’alleanza delle sinistre alle elezioni del 2022, ndt.), avevano mantenuto tra loro legami di fiducia e di immaginazione, ha preso l’iniziativa di riunire i partiti, emarginando allo stesso tempo coloro che, da tutte le parti, avevano trasformato la competizione elettorale in una frattura ideologica e personale. Rimasti uniti dal movimento contro la riforma delle pensioni, i sindacati hanno indetto a manifestare per unire le forze sociali e democratiche nella lotta.

Una mina vagante de La France Insoumise, il deputato François Ruffin, ha lanciato l’idea di un nuovo “Fronte Popolare”, subito accolta con favore, arricchita da un esplicito riferimento all’ecologia e iscritta dal nome stesso in una tradizione che associa l’unità delle forze di sinistra allo sbarramento repubblicano di fronte al pericolo fascista. È questa l’idea che oggi guida lo sviluppo della strategia e del programma elettorale dei quattro partiti che aspirano alla maggioranza nella prossima Assemblea e che costituisce l’orizzonte delle mobilitazioni e delle consultazioni che hanno preso forma. Sto semplificando, ovviamente. Lo choc non si è attenuato, il rapporto di forza nel paese non si è invertito, ma si è aperta una prospettiva di resistenza e di alternativa. Di conseguenza è tornata la speranza. Il peggio non è certo e la sconfitta collettiva annunciata potrebbe trasformarsi in una controffensiva, se si verificano molte condizioni favorevoli.

Appoggio pienamente questa prospettiva. Tra gli altri voglio cercare di dare un contributo come cittadino e come intellettuale. Non ho alcuna pretesa di influenzare decisioni e negoziati, né di elaborare linee guida. Piuttosto, a beneficio mio e di chiunque altro voglia opporre altre ipotesi, mi propongo qui di “problematizzare” questa idea di fronte popolare, affrontando le difficoltà e le potenzialità. Sono certo che non è nata dal nulla, ma vedo anche che si tratta di una “trovata”, e l’esperienza dirà se è stata felice o meno.

Sono colpito sia dal numero di proposte che stimola sia dalle imprecazioni che suscita, perché fin dall’inizio ha stabilito una polarizzazione che può evolvere e che dobbiamo sperare porti a chiarimenti piuttosto che a processi alle intenzioni. Non è certo mia intenzione fornire una “teoria”, ma indicare, attraverso alcune questioni di storia, di linguaggio o di strategia, la natura degli ostacoli che prevedo e le risorse che potrebbero essere opposte.

Il “rischio” di Macron e il gioco della destra: il terzo scenario

La prima questione che penso debba essere discussa riguarda la strategia seguita dal presidente Emmanuel Macron e delle opzioni che sta considerando. Anche se, data la struttura delle istituzioni e il metodo piuttosto peculiare dell’attuale potere, ogni risposta deve comportare un certo grado di congetture.

Fin dall’inizio, la stampa ha insistito sull’idea che Macron stia “rischiando grosso” o “giocando a poker”. Questo è evidente, purché si chiarisca che il rischio è per lui e per chi lo segue, ma soprattutto per gli altri, per il paese e quindi per tutti noi, materialmente ed esistenzialmente. C’è il rischio di bloccare la capacità di governo, o addirittura il caos e gli scontri violenti che potrebbero aprire la strada a iniziative autoritarie. La Costituzione della Quinta Repubblica, in parte redatta sotto l’influenza delle idee schmittiane sullo “stato d’eccezione”, faciliterebbe questa opzione. C’è il rischio di una crisi finanziaria dello Stato che metterebbe a rischio la continuità dei servizi pubblici e delle politiche economiche a causa dell’esplosione del debito. C’è il rischio di delegittimare il sistema politico rappresentativo. E così via.

Ma se torniamo agli obiettivi di Macron, vedo che gli analisti prospettano principalmente solo due scenari: quello di un improbabile “recupero” del macronismo che, contro ogni logica, sarebbe riuscito a proporsi ancora una volta come baluardo contro l’arrivo del lepenismo al potere, e quello di una vittoria dell’RN (ormai sostenuto da diversi alleati) che otterrebbe la maggioranza assoluta e imporrebbe la coabitazione. Quest’ultima si preannuncia conflittuale e quindi esposta a ogni sorta di sconvolgimenti interni ed esterni. In realtà, Macron allontanandosi dal modello gollista di cui ogni tanto imita gli atteggiamenti, ha escluso di dimettersi in caso di sconfitta del suo schieramento.

Queste ipotesi sono di buon senso, ma mi sembra che si faccia troppo in fretta a escluderne una terza, ancora più “rischiosa” delle precedenti, quella che nasce dalle forze esistenti, dall’evoluzione del loro discorso e dalle tendenze osservabili a livello internazionale: quella di un’alleanza “innaturale” tra gli avversari, e quindi di una condivisione consensuale del potere tra Macron e l’RN, incarnata da Bardella come primo ministro con Marine Le Pen più o meno in disparte. Consensuale non significa, ovviamente, priva di secondi fini e di intenzioni mortali: ci si può trovare d’accordo nel cercare di distruggersi a vicenda in modo più efficace.

Non c’è dubbio che questa ipotesi sia poco verosimile[1]. Vengono avanzate una serie di obiezioni. In primo luogo, la resistenza che susciterà in entrambi gli schieramenti. E quindi le defezioni che ne deriveranno. Soprattutto da parte macronista, poiché è prevedibile che l’ascesa al potere rappresenti per i politici di estrema destra che puntano alle elezioni presidenziali del 2027 un bonus che vale tutte le concessioni. Poi ci sono le questioni di vanità personale che sono indissolubilmente legate alla distribuzione di settori di competenza e di prerogative tra presidenza e governo, e quindi al modo in cui si negoziano compromessi e svolte. Infine, ma non meno importante, c’è la questione delle differenze dei programmi e delle parole d’ordine.

L’RN ha aumentato il suo elettorato esprimendo critiche violente al “macronismo” e, più in generale, al “sistema” (una vecchia tradizione dell’estrema destra), proclamandosi difensore del tenore di vita e della dignità della gente comune, nonché come avversario intransigente della tecnocrazia di cui Macron e il suo entourage figurano essere la pura incarnazione. Il suo “sovranismo nazionale” sembra essere l’antitesi dell’europeismo che Macron ha proclamato nel discorso della Sorbona e per il quale sostiene di essere il leader negli organismi dell’Unione Europea. Questo vale sia per la sua posizione nei confronti della Russia e della conduzione della guerra in cui l’Unione Europea è coinvolta in Ucraina, sia per la protezione delle imprese francesi dalla concorrenza internazionale. Eppure… La decisione immediata di Bardella di ritirare dal suo programma l’abrogazione della riforma delle pensioni dimostra che i principi sono flessibili. Interpretata come un modo per facilitare l’alleanza con la destra “tradizionale” (LR), questa decisione potrebbe altrettanto facilmente – insieme ad altre dello stesso tipo – facilitare l’accordo con i Macron, Darmanin e Lemaire, per i quali questa riforma imposta contro l’intero paese è diventata un totem.

In politica internazionale, il modello “occidentalista” di Giorgia Meloni potrebbe indicare la strada da seguire, allentando allo stesso tempo alcuni legami con Mosca che sono diventati pericolosi. Non bisogna certo esagerare, perché l’elettorato si sentirebbe tradito fin dal primo giorno (come gli elettori di sinistra di Hollande nel 2012). O, per essere più precisi, è necessaria una certa scienza del bispensiero come la definiva George Orwell. Ma a meno di rischiare una crisi istituzionale prima del tempo, l’RN ha bisogno di Macron e della tecnocrazia che lo circonda per poter utilizzare la macchina amministrativa dello Stato, la cui cultura e le cui reti di influenza gli sono in gran parte estranee, con la notevole eccezione della polizia.

Macron, da parte sua, deve evitare una guerriglia tra i poteri di cui le precedenti convivenze della Quinta Repubblica danno solo una pallida idea. Se vuole continuare a presentarsi come “capo” sulla scena internazionale, che è il suo punto di vanità per eccellenza, ed evitare il declassamento della Francia agli occhi delle istituzioni finanziarie europee e mondiali. E c’è da scommettere che i leader e i portavoce del capitalismo francese faranno sentire il loro peso, adducendo il realismo economico, l’interesse nazionale e i rischi “sistemici” di un conflitto politico aperto nel cuore dell’Europa.

Ma i primi terreni di incontro, dove le differenze possono essere appianate e tutti gli interessi riconciliati, possono già essere identificati. Me ne vengono in mente almeno due, grandi come case. Il primo è la xenofobia, e quindi la politica di repressione di migranti e rifugiati, che il voto sulla legge Darmanin, che istituisce per la prima volta in Francia la “preferenza nazionale”, ha riscosso il consenso dell’RN. A questo si aggiunge, naturalmente, la guerra al “comunitarismo” e al “separatismo” rivolta a milioni di residenti e cittadini di origine straniera, su basi di fatto razziali.

Il secondo è il programma di ripristino dell’“autorità” civile, educativa e familiare e di promozione del patriottismo nella tradizione conservatrice e militarista. Questo programma si sposa molto bene con la difesa dell’“universalismo” inteso come cancellazione dei diritti delle minoranze a cui, anche a costo di qualche battuta d’arresto, la presidenza Macron ha da tempo aderito, e converge pienamente con i valori proclamati dall’RN: l’immutabile petainismo francese. Non si tratta di un “programma comune”, ma è comunque un serio punto di partenza.

Si delinea così uno scenario irto di ostacoli ma che sarebbe sciocco escludere a priori: una guerra “totale” durante il periodo elettorale tra i portavoce dei due schieramenti (compreso lo stesso Macron), seguita immediatamente, in caso di risultato a lui sfavorevole (e se, punto cruciale, la sinistra non riuscirà a bloccare la spirale), da una nuova trovata e da una nuova “propensione al rischio”: nell’interesse del paese, per salvare la Repubblica e la posizione internazionale della Francia, per bloccare la strada verso l’anarchia (cioè il Fronte Popolare), occorre riunire il centro e l’estrema destra (incorporando nel processo la vecchia destra) e farli lavorare insieme. In questo modo, il ritorno a una bipolarizzazione della vita politica francese a scapito dei tentativi di governo “né a destra né a sinistra”, annunciato da alcuni politologi, diventerebbe un fatto compiuto.

Una realtà brutale, sinonimo non di un conflitto civile o di una riattivazione dell’“agonismo” politico di cui parlano altri teorici (e che altrove ho chiamato “democrazia conflittuale”), ma di criminalizzazione dell’opposizione e di normalizzazione dello stato di eccezione. È anche contro questo pericolo che dobbiamo trovare una risposta, o meglio è questa configurazione che una politica di fronte popolare deve trasformare nel suo contrario, dal punto di vista del rapporto di forze e dei progetti politici da far emergere.

Fronte Popolare e Unione della Sinistra: qual è la differenza?

Ecco perché non credo sia una perdita di tempo tornare indietro nel tempo e confrontare le circostanze storiche. Il riferimento al “Fronte Popolare” è un tema ricorrente nell’immaginario politico francese e potrebbe essere visto come puramente simbolico, mentre in realtà solleva questioni fondamentali. Il più delle volte, però, viene invocato in difesa delle istituzioni nate dall’esperienza unica del 1936-38 (come le ferie pagate e la scuola unica), semplicemente per dimostrare cosa si può ottenere dall’unione dei partiti di sinistra in termini di diritti del lavoro, cultura, istruzione, sanità pubblica – in breve, un governo al servizio della stragrande maggioranza del popolo.

In questo senso, è apparso più volte nella nostra storia contemporanea (in particolare, un altro esempio decisivo, dopo l’insurrezione del maggio 68 nella formazione dell’ “Unione delle Sinistre” con il suo programma comune, che ha portato all’elezione di Mitterrand alla Presidenza). Ma la decisione presa dai partiti di sinistra aggiunge un elemento strategico che rende necessario approfondire l’esame delle analogie e delle differenze, per cercare di trarne insegnamenti pratici.

Le ragioni principali sono due. La prima, ovvia, è che il “fronte popolare” che ha appena preso forma è, come nel 36, una risposta diretta alla gravità del pericolo “fascista”. O, se preferiamo aspettare un po’ prima di esaminare la rilevanza di questa categoria, al pericolo di una presa di potere dell’estrema destra, che è una minaccia mortale per la democrazia. Come possiamo contrastare il fascismo o i suoi successori? Riunendo quali forze nella società e dando loro che tipo di organizzazione? Questa è la prima domanda, e l’esempio del “primo” Fronte Popolare dovrebbe essere esaminato.

L’altra faccia della medaglia è che nella storia del nostro paese c’è una differenza qualitativa tra diversi tipi di sindacato: o si tratta più di un’unione di partiti (che possiamo chiamare “cartello”), anche sostenuta da mobilitazioni che vanno al di là di essi, per proporre un’“offerta” comune agli elettori; oppure si tratta di un movimento di massa i cui protagonisti sono i cittadini stessi e i partiti uno dei quadri organizzativi e al tempo stesso lo strumento nel campo delle istituzioni politiche.

La prima formula è naturalmente richiesta da una scadenza elettorale (che, non c’è dubbio, è l’emergenza attuale). Ma è per definizione in balia delle vicissitudini elettorali e del loro seguito, il che significa che può andare in frantumi in caso di sconfitta o, più o meno rapidamente, nel corso di un esercizio del potere che vede riaffiorare la tentazione di ciascuna componente di far prevalere il proprio programma e di trovare il proprio sostegno nell’opinione pubblica per farlo.

La seconda suggerisce, al contrario, che si è avvertita un’urgenza storica che ha generato un affetto comune nel cuore dei cittadini, facendo passare in secondo piano la molteplicità dei loro interessi e delle loro ideologie, in grado di creare quotidianamente quella che il filosofo Jacques Rancière chiama “una comunità di lotta che è allo stesso tempo una comunità di vita”, messa al servizio non solo di un programma di governo, ma di un progetto di società che mira a trasformare le condizioni di esistenza. Si dirà che si tratta di “idealtipi” molto semplicistici e che la realtà dell’esperienza storica si colloca sempre a metà strada.

I cittadini, in quanto “soggetti”, che si iscrivono ai partiti o ne seguono le indicazioni, investono sempre nelle loro scelte una convinzione o una passione trasformatrice; e le “moltitudini” in movimento verso il futuro che credono di potersi forgiare sfidando l’ordine costituito sono comunque alle prese con problemi di rappresentanza, di disciplina, di tattica e di leadership, che rientrano tutti nella politica dei partiti. È stato chiaramente così nel ’36. Si pensi alla questione della “partecipazione dei comunisti al governo”. Ed è stato ancora così nella sequenza che va dal maggio ’68 alla presidenza Mitterrand. O meglio, se devo credere ai miei ricordi personali, fino alla crisi sindacale intorno all’“aggiornamento del programma comune” che ha portato al fallimento elettorale del 1978. I semi di un’unione di base (o, come si diceva allora, “nelle lotte”) erano stati gettati, superando la grande frattura tra il movimento operaio di protesta e i “nuovi movimenti sociali” antiautoritari, ma i calcoli e le rivalità tra i due partiti di sinistra, anche se coperti da un patto di governo, li avevano privati della capacità di influenzare le politiche perseguite congiuntamente. Lo abbiamo pagato caro dopo il 1981.

La mia sensazione, per dirla in parole povere, è che il nostro “nuovo Fronte Popolare” sia attualmente sospeso tra le due formule. Esiste un’alleanza elettorale, sostenuta dalla necessità di resistere all’ondata di estrema destra evitando scontri fratricidi, e dalla convinzione che la forza dell’RN sia in gran parte il contraccolpo del “vuoto” politico creato dall’assenza di una sinistra stabile. Una forza sufficientemente organizzata, sufficientemente armata ideologicamente, dotata almeno virtualmente di un programma che fa parte di un progetto per il futuro. In pochi giorni, appena conclusa, questa alleanza ha dimostrato una capacità di iniziativa piuttosto sorprendente che, di fatto, ha destabilizzato i suoi avversari, soprattutto da parte del potere, che si aspettava che il posto della sinistra restasse strategicamente vacante.

Le sue debolezze sono però apparse subito e il governo le ha subito sfruttate. Un François Hollande che, senza vergogna, è tornato a candidarsi per – qualcuno pensa – frenare la voglia di “rottura” con il passato che lui incarna, anziché sostenerla. Oppure Jean-Luc Mélenchon che ha riaffermato subito la sua presa sul partito da lui fondato “personalmente” a scapito dei deputati uscenti che sono figure rappresentative della tendenza unitaria al suo interno e ha lasciato intendere che in tal modo egli vorrebbe dominare dall’esterno il gruppo parlamentare. Ma soprattutto, non esiste, o non esiste ancora, accanto all’alleanza elettorale un movimento di cittadini “di base”, capace di sostenerla, incoraggiarla e controllarla, nonostante ci siano appelli, manifestazioni, incontri o scambi sui social network.

È ovvio che un movimento o una mobilitazione che possa essere definita “di massa” non emergerà in pochi giorni, semplicemente perché è necessario o perché qualcuno lo chiede. Ma credo anche che sarà difficile, e quindi richiederà un grande sforzo di volontà e fantasia, e che valga la pena chiedersi perché. È qui che, ancora una volta, uno sguardo all’esperienza del 1936 può fornire indicazioni preziose.

Come trovare il popolo?

Non mi si fraintenda. Il riferimento al Fronte “storico” e il prestito del suo nome per lanciare la mobilitazione contro l’annunciata vittoria del Rassemblement National, a cui il presidente Macron ha dato un formidabile impulso, è una grande invenzione perché il momento in cui ci troviamo è caratterizzato, come nel 36, da un’alternativa radicale: o lo Stato si mette al servizio di un progetto totalitario, i cui proclami di “normalizzazione” non devono trarre in inganno, oppure si forma nell’urgenza un “popolo” di resistenti, consapevole degli interessi fondamentali che lo uniscono e degli obiettivi da raggiungere, ribaltando quello che sembra essere una fatalità.

Questa è la grande analogia tra la situazione del 1936, quando il fascismo salì al potere in un paese europeo dopo l’altro, dopo il tentativo di colpo di stato antiparlamentare del febbraio ’34, e la nostra nel 2024, quando la Francia è a sua volta conquistata dall’“ondata populista”, “illiberale” e nazionalista che si sta diffondendo in tutto il mondo e in particolare in Europa. Ma del resto, se scendiamo al livello delle condizioni economiche, delle forze sociali, delle ideologie, perfino degli affetti, nulla o quasi di ciò che aveva consentito la formazione e il successo (anche transitorio) del Fronte Popolare sembra più esistere. Quindi prevalgono le differenze, ma cosa significa esattamente?

Il “1936”, per dirla breve, corrisponde al punto più alto di intensità e di purezza raggiunto nel nostro paese dalla lotta di classe come matrice della lotta politica e della personalità dei suoi attori. Lo scontro tra democrazia e fascismo non ha fatto altro che intensificare e sovradeterminare questa configurazione, tanto che le due logiche si sono strettamente fuse, al punto da diventare praticamente indistinguibili nella coscienza degli attori. “Pane, pace, libertà”: cittadini e lavoratori, militanti e dirigenti del Fronte popolare hanno difeso con un solo movimento la democrazia (nell’unico modo possibile, espandendola), e imposto (con lo sciopero e l’occupazione delle fabbriche) le più grandi “conquiste operaie” nella storia del capitalismo.

Ciò è senza dubbio dovuto al momento in cui questa lotta ha avuto luogo, all’indomani di una guerra, di una rivoluzione e di una crisi economica globale. Uno dei rarissimi momenti storici in cui le classi sono diventate “visibili” per se stesse e le une per le altre. Di qui l’esistenza di un potente movimento operaio, pur diviso in più organizzazioni, composto sia da sindacati che da partiti, di una solidarietà di classe che faceva parte delle condizioni stesse dell’esistenza quotidiana, come nell’aiuto ai disoccupati, e di un’“orizzonte dell’attesa” o di un’utopia che ha immediatamente dato all’antagonismo politico il significato di una messa in discussione del capitalismo. Costringendolo in ultima analisi a inventare nuovi modelli di regolamentazione del lavoro e di “compromesso sociale”. A questo si aggiungeva il concretizzarsi di una questione costituzionale, nel senso di “costituzione materiale”, ormai più che secolare, che si era posta fin dalla Rivoluzione francese, relativa alla scelta tra una repubblica oligarchica, retta da “élite” borghesi nell’interesse dei ricchi, e una democrazia repubblicana, in cui le classi popolari esercitano un potere reale, anche se non è assoluto e passa attraverso i rappresentanti.

Possiamo allora affermare che queste classi, nonostante le difficoltà materiali in cui si dibattevano e la violenza dell’aggressione che mirava a terrorizzarle, sono state storicamente all’offensiva e ne hanno preso coscienza, proprio sotto forma di un “fronte” il cui linguaggio della trasformazione sociale fu immediatamente comprensibile ai suoi partecipanti e sostenitori. Niente di simile oggi, ripeto, o niente che possa costituirne immediatamente l’equivalente.

La politica della sinistra, pur pretendendo di fare riferimento a principi democratici, socialisti, comunisti, ecologisti carichi di significato, appare sempre fondamentalmente difensiva: difensiva di fronte alle politiche “neoliberali” di distruzione dei diritti e delle relative tutele del lavoro, difensiva di fronte alla privatizzazione diretta o indiretta dei servizi pubblici o al loro smantellamento, difensiva di fronte alla commercializzazione della cultura, difensiva di fronte alle forme “atipiche” di crisi economica inerenti al capitalismo finanziario, difensiva di fronte alla globalizzazione quanto di fronte alle reazioni populiste e nazionaliste che essa suscita. Difensiva soprattutto di fronte alle “catastrofi” che offuscano l’orizzonte del cambiamento: dalla catastrofe ambientale alla rivoluzione informatica, passando per il ritorno della guerra. Perché ciascuno di essi la rinchiude in dilemmi di cui non ha trovato la chiave, come la decrescita e la riduzione delle disuguaglianze, generando al suo interno conflitti di interessi e di principi che ostacolano il progetto e privano dell’unità di azione una base storica che la politica cercherà poi di tradurre e consolidare. Di per sé un nome non cambierà nulla, a meno che non evochi potenzialità della situazione ancora inosservate, che devono essere portate alla luce.

Spingendo così all’estremo lo scetticismo, cerco di designare il compito che deve ora affrontare un’unione delle forze di sinistra per dare vita al “fronte popolare” di cui si sente portatrice e la cui necessità è apparsa come un imperativo di salute pubblica. Ora questo compito ha due aspetti distinti, ma che riguardano un’unica pratica o azione politica collettiva: dobbiamo ribaltare la posizione ideologica difensiva in una posizione offensiva, fatta non solo di riflessi repubblicani o di risposte al pericolo, ma di veri e propri progetti credibili che liberano una “potenza di agire” che sia la potenza stessa del comune, riorganizzando da cima a fondo il regime delle paure e delle speranze della moltitudine. E, dall’altro lato, dobbiamo trovare il “popolo” ancora virtuale che si approprierà di questi progetti, inventerà il linguaggio con cui possa discutere dei suoi interessi comuni e soprattutto dei suoi disaccordi, uscendo “dall’alto” dagli antagonismi ereditati dalla sua storia o dai litigi suscitati dall’attualità. Perché è solo attraverso l’elaborazione dei “disaccordi” che lo separano da sé, approfondendo le ragioni del loro peggioramento, che il popolo “che manca”, costituito da masse eterogenee e estranee tra loro, ritroverà la sua unità e la sua identità politica. Il popolo del fronte “popolare” non è dato, in un certo senso possiamo dire che non esiste, che esso è “a venire”.

Parte 2. Per un “contro-populismo”

Il popolo del fronte “popolare” non è dato, in qualche modo potremmo dire che non esista, che è “a venire”. È su questo punto che vorrei proporre un’ipotesi. Non è ovviamente questa la sede per riprendere la discussione teorica che ha recentemente occupato tutta una parte del pensiero democratico cosiddetto “radicale” sulla costruzione delle “egemonie” politiche, e sul modo in cui queste risolvono il problema posto dalla pluralità degli interessi “emancipatori” e dei “soggetti” storici eterogenei trasformandola in una forza politica e non in un fattore di paralisi e di rivalità ideologiche permanenti.

È chiaro però che si tratta del problema delle “contraddizioni all’interno del popolo” e che bisogna affrontarlo con urgenza, se non altro perché (tornerò su questo punto più avanti) il Rassemblement National è ormai in grado di mobilitare sostenitori in quasi tutte le classi della società francese, riuscendo dove il macronismo ha completamente fallito. Sembra avere trovato una soluzione che può essere definita populista. Il Rassemblement National è davvero sulla buona strada per trovare il suo “popolo”. Cosa accadrà alla sinistra? Dal “populista” al “popolare” c’è sia un’incompatibilità radicale, sia una prossimità, un’analogia inquietante della questione posta che deve interrogarci profondamente.

Ecco la mia ipotesi di lavoro su questo punto. Non credo che ci si possa fermare ai due modi classici di pensare alla formazione di un popolo nel senso politico del termine che hanno alimentato le teorie e le strategie di “egemonia” nella tradizione della sinistra europea e globale, marxista o no. Quella che ragiona in termini dei gruppi sociali i cui interessi bisognerebbe elencare e conciliare (operai o più in generale dipendenti, lavoratori autonomi e in particolare agricoltori, dipendenti pubblici e agenti di pubblico servizio, intellettuali e artisti, ecc.), e quella che ragiona in termini di “partiti” nel senso originario della parola, cioè di scelte compiute da individui e da comunità tra valori morali concorrenti, religiosi o secolari, che si esprimono in stili di vita e professioni di fede.

Questi due metodi toccano certamente le condizioni fondamentali della politica, compresa la politica di sinistra, che si occupa sempre di temi socialmente situati, così come di ideologie o di “concezioni del mondo”. Ma sono troppo astratte, troppo deduttive, e proprio per questo esposte alla spiacevole sorpresa di rendersi conto che una “classe” sviluppa al suo interno interessi contraddittori o esclusioni, e che una confessione o anche un’ideologia progressista non è mai al sicuro dalle più grandi oscillazioni tra democrazia e totalitarismo…

Per questo mi sembra che, spinti dalla situazione di emergenza in cui ci troviamo, dobbiamo cambiare metodo e cercare ispirazione nelle esperienze che abbiamo vissuto o osservato di recente, prendendo come base non le condizioni sociali o idee, ma i movimenti reali, sia sociali che politici, di cui possiamo dire che sono tutti “popolari”. Naturalmente per definizione questi movimenti, anche quando sono massicci, sono più ambivalenti, più instabili, più effimeri rispetto a quelli sociali o ideologici. Ma a volte mettono in luce le vere esigenze della situazione e del momento, di cui altrimenti non avremmo avuto idea.

La Francia ha vissuto negli ultimi anni diversi movimenti che, tranne forse il femminismo, che conosce alti e bassi ma non scompare mai, sono stati tutti sconfitti o soffocati, o almeno isolati da una combinazione di repressione, manipolazione ed esaurimento, ma hanno lasciato tracce e forse capacità di rinascita. Penso in particolare a:

1) “Nuit Debout” (2016) e la mobilitazione contro la “Legge sul lavoro” del governo Hollande-Valls, che ha visto convergere la difesa dei diritti del lavoro contro la logica della “competitività” delle imprese con le esperienze di democrazia partecipativa, analoghe al movimento delle “piazze” e delle “assemblee” in altre parti del mondo;

(2) il movimento dei “Gilet Gialli” nel 2018-2019, partito dalla protesta contro l’aumento del prezzo del carburante che colpisce tutti i lavoratori mobili e precari e i piccoli imprenditori: la sua invenzione di una “occupazione” simbolica del territorio e la sua rivendicazione di una consultazione democratica (il referendum di iniziativa popolare) hanno saputo mobilitare numerose categorie sociali, prima che il movimento fosse duramente represso dalla polizia militarizzata e deriso dal presidente Macron;

(3) la mobilitazione degli operatori sanitari ospedalieri e degli operatori dei servizi comunali durante la fase acuta della pandemia di Covid-19 per compensare la mancanza di lungimiranza dello Stato e l’impoverimento della sanità pubblica, che in modo molto diverso, ha generato un sostegno e l’esigenza di essere riconosciuta;

(4) la rivolta delle periferie contro il razzismo istituzionale e la violenza poliziesca, rivolta che non si è mai spenta, sotto varie forme, dall’inizio degli anni Ottanta, ma che è riemersa in con una violenza spettacolare (ma molto meno di quelle di repressione, in realtà) dopo l’assassinio di Nahel Merzouk nel giugno 2023, e prosegue oggi in un movimento di autorganizzazione dei “quartieri”, i cui portavoce si sono appena pronunciati inequivocabilmente a favore della mobilitazione a favore del Fronte Popolare;

(5) il movimento di scioperi e manifestazioni contro la riforma delle pensioni respinta dalla stragrande maggioranza del paese, tra gennaio e marzo 2023, segnato non solo dall’entità e dall’ostinazione dei manifestanti, ma dalla ricostituzione di un “inter-sindacale” democratica che ha rivitalizzato la lotta di classe e ha dimostrato la sua capacità organizzativa che pensavamo perduta, sotto la guida di dirigenti straordinari;

(6) le “Insorgenze della terra” [Soulèvements de la terre, ndt.] e più in generale le mobilitazioni contro l’artificializzazione dei suoli, la deforestazione e il pompaggio delle falde acquifere a vantaggio dell’agricoltura intensiva, che si pensano nella lunga durata, in connessione con il principale “internazionalismo” contemporaneo, quello degli ecologisti, anche se i loro partiti sono a pezzi, o proprio per questo motivo;

7) i movimenti femministi che non scompaiono, anche se secondo la logica inscritta nel carattere “paradossale” della “classe delle donne”, continuano a dividersi in fazioni e a contraddirsi sui principi filosofici: il #Metoo non li riassume, ma questo nome ha il vantaggio di sottolineare l’importanza che ha in questo momento, per tutte le donne, la lotta contro l’accettazione dell’incesto, dello stupro e della brutalità virilista [1].

Questi movimenti possono essere assegnati alla “società civile” (nonostante l’imprecisione del concetto) e dimostrano eloquentemente che essa non è immobile né rassegnata. Ma sono eterogenei sotto tutti i punti di vista: partecipanti, origini o occasioni, durata, modalità di organizzazione (o spontaneità), tensioni interne, riferimenti ideologici o simbolici, grado di radicalità nell’opposizione all’ordine sociale e di ostilità verso i suoi rappresentanti ufficiali. È in parte ovviamente questa la contropartita della repressione ineguale a cui sono soggetti. Non ci permettono nemmeno di proporre una definizione univoca di cosa sia un “movimento”, perché ognuno ne ha reinventato la forma a seconda delle circostanze e degli obiettivi. Ma direi ipoteticamente che sono (o erano) tutti caratterizzati da una reale capacità di trasformare la difensiva in offensività, il “rifiuto” (o la rabbia, o la disperazione) in affermazione di un diritto, di solidarietà e volontà di trasformare il “mondo” nella direzione dell’uguaglianza e della giustizia, e per questo universalizzabile a partire dalle situazioni e circostanze che le hanno originate. In altre parole, sono “azioni di cittadinanza” (acts of citizenship, dice Engin Isin) [2], portatrici di un’utopia concreta senza la quale non esiste politica di emancipazione.

La questione che allora si pone non è quella di fonderli o sussumerli sotto un unico “programma” e “strategia”, ma piuttosto, nella nostra determinatissima attualità, quella della lotta all’RN e a ciò che esso rappresenta, rilanciare la loro energia e trovare la loro intersezione mobile ed evolutiva, nella prospettiva di rafforzare il popolo, dal punto di vista della loro coesione e delle loro capacità di costruire un futuro comune. Naturalmente prendo intenzionalmente questo termine da un saggio di Michel Feher, pubblicato poco prima dell’evento del 9 giugno, che si oppone all’idea di un movimento sociale omogeneo, e invoca un’alleanza che si collocherebbe all’”incrocio delle cause singolari”, contro l’unione delle destre di cui egli ha anticipato l’avvento.

L’unica differenza che introdurrò a livello verbale (ma non è trascurabile), è che non penso che le cause singolari e i movimenti che le esprimono siano “minoritari”: credo invece che siano universalizzabili, e rientrino quindi nell’orizzonte di una maggioranza virtuale, da costruire attraverso la pratica politica. Ma per questo è necessario che l’intersezione dei movimenti, o di ciò che estende nel presente la loro esperienza e la loro ispirazione, non sia vuoto, né di idee, né di simboli, né di slogan, né soprattutto di attori e attrici concreti che “viaggiano” tra loro, passando dall’uno all’altro e discutendo la loro articolazione che ovviamente non è un’organizzazione professionale creata da militanti e da dirigenti di partito. Tale articolazione si dà in “assemblee” come quella evocata dalla prima dichiarazione delle organizzazioni convergenti nel “fronte popolare” che ha parlato della necessità di completare il proprio programma sui punti aperti o controversi attraverso dibattiti tra cittadini volontari [3]. Le forme tradizionali di pratica politica di massa potrebbero non aver detto l’ultima parola, come evidenziato dalla resilienza del sindacalismo, ma nuove forme sono fortemente necessarie e detengono la chiave per l’istituzione del “fronte popolare” nello stesso tessuto sociale e civico.

Mi si dirà che non ho fatto molti progressi perché questo incontro creativo dei movimenti attraverso i loro attori è altrettanto problematico quanto il “fronte popolare” a cui dovrebbe dare sostanza e radicamento nella vita quotidiana. Questo è assolutamente vero: non ho voluto fornire una ricetta, ma illustrare le dimensioni del problema che abbiamo di fronte e suggerire un modo attuale per riscoprire l’energia che aveva permesso allo storico Fronte Popolare di prevalere sui suoi avversari, nonostante le difficoltà profonde dei tempi e delle condizioni. È con lo stesso spirito che proporrò infine una terza discussione, questa volta concentrandomi sulla differenza tra il “populista” e il “popolare” che mi sembra costituire il cuore del confronto a venire, durante le elezioni e soprattutto dopo, qualunque sia l’esito, tra due concezioni e due pratiche della politica. È anche un modo per attaccare alla radice il discorso mistificante che presenta il confronto tra il Rassemblement national e il Fronte popolare come una lotta tra “due estremismi simmetrici”, ampiamente diffuso dai politologi del “centro”.

Struttura psicologica del lepenismo: odio e paura

Il punto di partenza di questa discussione mi sembra essere un chiarimento di ciò che costituisce la “forza” del Rassemblement National in Francia oggi e che si riflette nelle sue conquiste elettorali e nel suo insediamento nelle istituzioni (in particolare nei comuni), ma si riferisce in un modo più profondo a quella che – parodiando una celebre espressione – chiamerò la “struttura psicologica del lepenismo”, cioè all’insieme di affetti e di rappresentazioni che lo compongono e gli danno energia.

Georges Bataille ha parlato di una “struttura psicologica del fascismo” per sottolineare che l’arruolamento delle masse in Francia, ma soprattutto in Germania e in Italia in movimenti militarizzati, soggetti al culto del leader e animati da un odio omicida verso stranieri, intellettuali, comunisti ed ebrei, sviluppando un “fanatismo della normalità e dell’identità” non si spiegava solo con interessi di classe o convinzioni ideologiche, ma con impulsi inconsci, svelando il fondo libidinale e mortifero della psiche collettiva, che resistono alla normalità e che egli definisce “l’eterogeneo”[4]. C’è infatti qualcosa di questo ordine nel lepenismo che rende possibile vedere in esso un potenziale fascismo capace di riattivare tradizioni violente che la politica “liberale” aveva rimosso o emarginato, e che ora potrebbero ritornare alla ribalta sotto nuove vesti.

Diamo un’occhiata all’America di Trump, all’India di Modi, alla Russia di Putin: nulla ci immunizza da queste tendenze. Ma ci sono anche – almeno per il momento – delle differenze che vanno evidenziate per non immaginare che basterebbe brandire l’idea di una “mobilitazione antifascista” per bloccare alle urne, a breve termine, il progetto RN, e cominciare piuttosto dall’invertire i rapporti di forze che ha creato nella società. Il Rassemblement National ha al suo interno nuclei di giovani razzisti pronti alla violenza aperta, ma non mette in strada milizie o masse fanatiche. Questa non è né la sua strategia né la sua abilità. Il motivo della sua presa su un numero molto elevato di cittadini va ricercato in un altro registro: non è tanto l’odio quanto la paura, o l’angoscia di fronte alle trasformazioni del mondo che li tocca. Più precisamente, innesta l’odio (verso l’“Altro” in generale) su un affetto fondamentale che è la paura, quindi il sentimento di impotenza.

Che paura? In sostanza quella della crescente insicurezza in cui vivono questi cittadini e chi vive intorno a loro (i loro cari, i vicini, i genitori, i figli). Riguarda sia l’incertezza sul futuro professionale, familiare, scolastico (chi racconterà un giorno i danni provocati dal degrado del sistema educativo, della svalorizzazione dei diplomi e della selezione programmatica simboleggiata da “Parcoursup”?) che la crescente certezza di un declassamento del tenore di vita, di stabilità o precarietà, della qualità del lavoro e dell’ambiente urbano e periurbano, della considerazione da parte delle amministrazioni e delle “élites” dominanti. Questi sentimenti non riguardano frazioni della società, che potrebbero essere considerate “marginali”, ma uno spettro immenso di categorie sociali che si trovano a collocarsi nel mezzo, “tra” i ricchi (sempre più ricchi) e i poveri (sempre più poveri), coloro per i quali tutele e solidarietà crollano a favore della competizione accanita in cui ci sono sempre più iperdenti che vincitori e dell’abbandono, quando non è vero e proprio disprezzo.

A questo proposito, bravi sociologi hanno proposto una categoria illuminante, quella della “coscienza triangolare”, per esprimere il sentimento di alienazione delle classi popolari in senso lato, tenendo conto di tutti gli individui che oggi sono privati ​​di capitale finanziario o culturale, si rivolge contemporaneamente in due direzioni: verso i “dominanti”, con risentimento per il loro arricchimento sempre più concentrato e sempre più arrogante, per il loro “separatismo sociale”, e verso gli “esclusi”, con repulsione davanti al destino che sembra prefigurarsi per tutti[5].

Il secondo affetto è ancora più violento del primo, perché i cittadini né poveri né ricchi, che stanno nel “mezzo” [il milieu, ndt.], non si fanno illusioni sulla possibilità di cambiare qualcosa nella concentrazione dei privilegi e della ricchezza (vale a dire, nel capitalismo), mentre sono ossessionati dalla paura di retrocedere o di cadere, e la amplificano fantasmaticamente.

La strategia del Fronte Nazionale (accentuata dopo la sua trasformazione in Rassemblement National) consisteva nello sfruttare il più possibile il sentimento di insicurezza esistenziale, che si accoppia con il sentimento di impotenza generalizzata, aggiungendogli due ingredienti che mobilitano le ansie “primarie” della psicologia individuale e collettiva di fronte alla violenza, associando l’insicurezza economica alla criminalità, alla “decivilizzazione” o alla cancellazione dei confini tra povertà e delinquenza, e di fronte all’alterità fondendo la paura di retrocedere con la paura di non riuscire più a distinguersi dagli “stranieri” o da quei concittadini sempre ritenuti stranieri, e per questo confinati nel “basso” della scala sociale. Ansie di caduta o di abbandono, in particolare di abbandono da parte dello Stato, e immaginazioni cospiratorie possono allora proliferare in modo circolare, in un circuito rinforzante: gli stranieri arrivano in massa, o vengono inviati in massa, per “sostituirci” e prendere posizioni politiche di potere, monopolizzare posti di lavoro e benefici sociali, spingendoci nella loro posizione “inferiore”. Alimentano la delinquenza e corrompono coloro che detengono il potere o li mettono al loro servizio. La loro presenza ha distrutto un ordine sociale che sarebbe potuto durare indefinitamente. E paradossalmente (scandalosamente) lo Stato (il nostro Stato) li “protegge”, vale a dire, non li scaccia né li reprime, almeno non abbastanza visibilmente. Il che sembra indicare che in qualche modo si sia denazionalizzato.

La centralità contraddittoria dello Stato

Tutto questo è, in un certo senso, ben noto. Non ho quindi alcuna pretesa di originalità. Ma vorrei fare quattro osservazioni:

1) Non dobbiamo certo sottovalutare il potere mobilitante e il potenziale mortifero degli affetti che derivano dall’odio per l’altro e che portano a sperare che la violenza, in particolare poliziesca, sia usata “di preferenza” contro le persone razzializzate che ci si ostina a definire “immigrati” della seconda, terza o quarta generazione, e di fatto a tempo indeterminato. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che questi affetti sono eredità delle rappresentazioni della colonizzazione e del risentimento che molti cittadini francesi provano nei confronti dei popoli “non bianchi” che ci hanno “espropriato” dei privilegi dell’impero.

Ma, almeno questa è la tesi che vorrei sostenere, dobbiamo renderci conto che la paura è più profonda dell’odio, o almeno che la sua persistenza è ciò che rende difficile, se non impossibile, liberarsi dall’odio, sia attraverso uno sforzo del cuore che della ragione. L’odio si fissa su “oggetti”, una volta i ricchi, ora i poveri, o i più poveri, per arrivare all’estremo. La paura spiega perché è impossibile, o molto difficile, credere nella possibilità di un mondo migliore, più egualitario o più giusto, che ci permetta di “non odiare” coloro da cui differiamo.

2) La paura è un affetto che nasce e prolifera nell’immaginazione; potremmo dire che è un fantasma di cui gli individui sono la fonte, anche se non i padroni. Ma l’insicurezza da cui nasce non è immaginaria: è del tutto reale, ed è diventata la condizione in cui vive oggi un numero sempre maggiore di cittadini del mondo. Soprattutto, è la condizione in cui sono precipitate popolazioni che, in varia misura, erano state protette fino a tempi relativamente recenti a causa della loro nazionalità e come risultato delle loro lotte e dei loro sforzi, come le popolazioni delle nazioni borghesi “imperiali” del “Nord”. Questo è il risultato delle politiche neoliberali che brutalizzano l’intera società per promuovere la globalizzazione e la deregolamentazione, con l’Europa “comunitaria” che svolge un ruolo straordinariamente perverso di protezione distruttiva in questo senso, tanto più terrificante perché sembra essere situata, per così dire, al di sopra del sovrano.

Questo risultato è particolarmente avvertito laddove, come in Francia, lo Stato sociale (che ho proposto altrove di definire “Stato nazional-sociale”) aveva raggiunto un alto grado di universalità e di efficacia, sotto la spinta di lunghe lotte di classe ma anche di un orientamento “solidale” dello Stato e delle sue politiche pubbliche. È dunque assolutamente inutile di voler far retrocedere le paure e gli odi interiorizzati e collettivizzati sprovvisti di mezzi e di reali intenzioni di combattere l’insicurezza sociale (Robert Castel) e le sue cause strutturali, mondiali e di lunga durata. Anche se la promessa di “recuperare il passato” che propone il Rassemblement National ha proprio tutte le caratteristiche di un’impostura, essa risponde tuttavia a un’esperienza reale.

3) Lo Stato è precisamente il perno, o il punto in cui si “annodano” gli elementi psicologici e i vincoli strutturali (economici, sociali) all’opera in questo complesso. Naturalmente, non esiste lo “Stato” al singolare, è solo un nome per un insieme molto complesso e per nulla coerente di istituzioni con storia e status giuridici diversi, dalla potenza “normativa” o “coercitiva” ineguale, distribuite su tutta la società. Il “Capo di Stato” ne è solo una piccola parte, costantemente spinto a sopravvalutare il proprio potere. Ma questo nome copre effetti ben reali che si riflettono nella coscienza di chi non potrebbe vivere senza i sussidi che lo Stato fornisce o prescrive in maniera legale.

Nel corso del XX secolo, in Francia e altrove, lo Stato si è notevolmente modificato rispetto all’organismo di potere “sovrano” che ha avuto origine nell’imperium medievale e monarchico e di cui si sono “riappropriati” i rappresentanti eletti dal popolo nell’era moderna. Secondo la definizione di Michel Foucault, la cui formula può essere generalizzata, lo Stato è il potere o l’istanza che, per i cittadini, è responsabile di “far vivere o lasciare morire”. Da parte mia, ho parlato di Stato “nazional-sociale” per indicare che le politiche su cui poggia oggi la sua legittimità non riguardano tanto la “difesa della società” contro i suoi nemici interni ed esterni o l’assoggettamento a un’ideologia dominante, quanto piuttosto la sua capacità di organizzare servizi pubblici “universali” e di garantire per legge risorse e aiuti personalizzati (come gli assegni familiari) in un quadro nazionale. Ciò non significa che i beneficiari debbano essere definiti dalla loro nazionalità: ciò dipende dall’idea che lo Stato e i suoi cittadini hanno della “comunità” che vive e lavora sul suo territorio.

Ciò che non è cambiato è invece il fatto che le imposte dirette o indirette che pesano in modo diseguale sui cittadini vengono raccolte dallo Stato e poi distribuite in base alle sue politiche (forse avrei dovuto parlare di Stato fiscale-nazionale-sociale, seguendo i suggerimenti di Wolfgang Streeck) [6]. Ma a partire dall’ultimo trentennio del XX secolo, questa stessa struttura è stata stravolta: lo Stato è diventato sempre più dipendente dai mercati globali sia per le sue risorse che per le sue politiche sostituendo il debito alla tassazione. E si è impegnato, sotto la pressione di questi stessi mercati, o meglio di coloro che li dominano, a smantellare progressivamente i servizi e i sistemi di diritti sociali che gli davano legittimità politica. Questo è il cosiddetto neoliberismo i cui effetti devastanti si vedono oggi sulla fiducia nelle istituzioni democratiche.

A partire da questo si comprende meglio come funziona la parola d’ordine della “preferenza nazionale” che è il cuore dell’ideologia populista. E da qui si capisce in quale crisi sia istituzionale che psicologica essa si radica. Più i cittadini perdono i diritti e i servizi che gli erano stati assicurati in precedenza, o idealmente promessi, più essi trovano insopportabile che questi stessi diritti e servizi siano forniti (anche se con il contagocce) a individui che non dovrebbero far parte della “comunità nazionale”, se ci si attiene ai criteri di origine e genealogia. E tanto più rivolgono il loro risentimento contro lo Stato, chiedendo una prova visibile che lo Stato “appartiene” a loro (così come loro appartengono allo Stato, cioè dipendono da esso), e che questa proprietà gli conferisce la priorità nell’uso dei suoi servizi.

Queste prove sono date da sfratti, discriminazioni, stigmatizzazioni e violenze nei confronti di beneficiari indegni. Perché le cose vadano diversamente, bisognerebbe invertire contemporaneamente la traiettoria della riduzione dei diritti e dell’impoverimento dei servizi pubblici in modo da giustificarne l’universalità, e la rappresentazione dell’appartenenza al corpo dei cittadini (quella che la tradizione repubblicana chiama “nazione”) dovrebbe essere staccata dallo schema della proprietà e sostituita da quello della partecipazione alla “cosa comune”.

Queste due mutazioni sono davvero rivoluzionarie rispetto al corso attuale delle cose e non possono essere decretate, anche se è della massima importanza per una politica di sinistra coerente con se stessa formulare l’obiettivo e lavorare per crearne le condizioni, in particolare attraverso le riforme fiscali (da qui la ferocia dell’attuale scontro sulle “nicchie” di esenzione e sull’evasione fiscale), ma anche nelle rappresentazioni dominanti della comunità nazionale.

4) Ciò mi porta all’ultima osservazione, in un certo senso la più importante e la più delicata di tutte. Sono tanto più desideroso di farlo perché è il risultato di una tradizione internazionalista a cui ho aderito in gioventù durante le guerre coloniali, in solidarietà con il privilegio storicamente accordato alla lotta di classe come base della politica democratica. Fu poi estesa da altri movimenti di emancipazione intrinsecamente transnazionali o che portavano a mettere in discussione il controllo delle popolazioni da parte di organismi statali “sovrani”. Allora tendevo a pensare che la forma-nazione (e quindi la correlata equazione tra cittadinanza e nazionalità) è sempre dalla parte degli ostacoli alla giustizia, all’uguaglianza e alla libertà piuttosto che delle loro condizioni. Questo mi portava a sottovalutare le ragioni che avevano portato il Front Populaire (soprattutto tra i comunisti) a rivendicare il patriottismo, prima ancora che si affermasse come l’anima della Resistenza e del suo “Consiglio nazionale”, il punto più alto dell’antifascismo).

Il confronto impostoci oggi dal discorso populista, le cui categorie e sfumature puntano tutte verso il “nazionalismo integrale” (Charles Maurras), dovrebbe indurci a rivedere completamente questa valutazione. L’alternativa non è tra un’emancipazione o un egualitarismo “cosmopolitico” e un nazionalismo esclusivo e xenofobo, ma tra due concezioni della nazione: una aperta al cosmopolitismo, l’altra no. Sono due modi di costruirla istituzionalmente come comunità di interessi e valori, e due modi di articolare la sua “indipendenza” con le normative sovranazionali (la più importante delle quali dovrebbe oggi riguardare la lotta al riscaldamento globale), ma anche con la circolazione di persone, lingue e riferimenti culturali da ogni parte del mondo.

Così come esiste un discorso populista e un discorso popolare, esiste anche un modo di costruire la nazione che ignora la sua molteplicità e la sua storia reale a favore di “luoghi della memoria” feticizzati, di tradizioni regionaliste convenzionali e di criteri di appartenenza ideologica che discriminano tra “veri” e “falsi” cittadini, e un modo di costruirla che si basa sulle sue componenti reali, la cui molteplicità in un dato momento storico è irriducibile a un unico tipo e si riferisce a relazioni multiple tra il suo “dentro” e il suo “fuori”.

Una simile concezione evolutiva non rifiuta alcuna “identità” collettiva, ma cerca di far emergere il “noi” dalle relazioni di reciprocità, dagli interessi comuni e dalla maggiore capacità di realizzarli che la totalizzazione delle differenze conferisce, anche quando comporta difficoltà e conflitti. È notevole, inoltre, che la maggior parte delle richieste di riconoscimento (o di “rispetto”) che provengono oggi dai “quartieri” in rivolta contro il razzismo e l’esclusione vadano proprio in questa direzione. Ma sarebbe del tutto illusorio credere che la semplice constatazione di questa realtà sia sufficiente a delegittimare la concezione esclusiva della nazione in cui si identificano gli elettori del Rassemblement National e che si esprime nell’ossessione della “catastrofe migratoria” da scongiurare con i mezzi più brutali. Questa ossessione è infatti la contropartita del sentimento di impotenza collettiva che si è impadronito di masse di cittadini alle prese con l’insicurezza e la paura.

Il popolo “manca”, ma in due modi antitetici. In un caso, la sua assenza viene ostinatamente negata sotto forma di proclamazione di appartenenza alla nazione ideale da cui sono stati eliminati tutti i nemici interni, mentre nell’altro viene affrontata come il progetto costantemente rilanciato, “utopico” nel senso che contraddice l’ordine sociale dominante, ma fondato sulle relazioni sociali attuali, di tenere insieme le “masse” eterogenee di cittadini che hanno lo stesso interesse a uscire dall’impotenza in un mondo di incertezza e di disuguaglianze estreme. Popolo contro popolo, nazione contro nazione, comunità contro comunità. E, nella situazione attuale, “fronte” contro “fronte” (anche se mascherato da “raduno”).

Per un “contro-populismo”: potenza di agire, autonomia, servizio pubblico

Vorrei ricapitolare ciò che ho provato a proporre qui e aprire alla discussione in alcune proposizioni schematiche:

Il populismo incarnato dal Rassemblement national con caratteristiche francesi nel quadro di una tendenza politica molto più larga, all’opera sia all’Est che all’Ovest, a Nord e a Sud, è un fascismo in potenza. Ne mostra già molti tratti ma si trattiene dallo scivolare completamente sia per tattica, sia perché le condizioni di una messa in movimento delle masse in una ideologia nazionalista integrale eliminatrice dei “nemici interni” non sono tutte riunite. La situazione è più avanzata da questo punto di vista nell’India di Modi o negli Stati Uniti con Trump.

Ma una simile evoluzione non è reversibile attraverso le sue proprie forze. Al contrario, è chiaro che sarebbe accelerata dall’arrivo dell’RN alla guida dell’amministrazione dello Stato, tanto dall’eccesso di potere che queste eventualità conferirebbero ai suoi detentori quanto dagli ostacoli e dai fallimenti in cui incapperanno, in una spirale di esasperazione senza limite. L’unico modo di bloccare questo corso è di opporgli un contro-populismo cosciente e organizzato come quelli a cui tende implicitamente il progetto del “Nuovo fronte popolare”. Un contro-populismo non è un “populismo alla rovescia”, come in un gioco di specchi. Sebbene si proponga anch’esso di “trovare il popolo”, e di costruire una comunità nazionale, esso deve procedere per strade radicalmente differenti.

Il cuore della differenza sta nel fatto che il populismo e, a maggior ragione il fascismo, hanno per principio l’istituzione della passività dei cittadini, anche e soprattutto questa passività bruciante, violenta che impregna la partecipazione alle manifestazioni nazionali o ai sit-in nella campagna elettorale. Il loro principio è la ripetizione del discorso e degli slogan proposti dai dirigenti. Il populismo non supera l’impotenza collettiva che è alla sua origine, ma la raddoppia e la rinchiude in un circolo invalicabile, mascherando la paura sotto l’odio e la brutalità. (…) Tuttavia l’efficacia e l’autenticità della lotta consistono nell’invenzione di un altro modo di praticare la politica di massa: aumentare la potenza delle “persone comuni” offrendogli la possibilità di liberarsi dalla paura attraverso l’attività, la solidarietà, l’autonomia e dunque la capacità di discutere gli obiettivi stessi della lotta e delle modalità di continuarla. Un altro modo per formulare questa tesi è collegare la differenza tra “populista” e “popolare” alla pratica di una cittadinanza attiva, sperimentando al suo interno la democrazia che si cerca di difendere. Da qui nasce la tensione permanente con la “forma partito” di cui la politica non può probabilmente fare a meno nelle istituzioni parlamentari e al di fuori di esse.

Si arriva allo stesso risultato coniugando l’idea della costruzione di un “Fronte popolare” con quella di un’intersezione dei movimenti così come l’avevo introdotta poc’anzi, riprendendo una formula di Michel Feher “rovesciando” però la sua prospettiva minoritaria in un’altra maggioritaria. I movimenti non possono fondersi, né iscriversi in cornici gerarchiche inglobanti. Bisogna al contrario che proliferino e si disseminino per affrontare tutti i problemi e rispondere a tutti gli obiettivi dell’emancipazione che sorgono dalle esperienze negative o affermative (sofferenze e creazioni) della cosiddetta “società civile”. Ma bisogna anche che convergano e si sommino nella costruzione di una resistenza comune all’autoritarismo, al populismo, al fascismo.

Tale unità non si crea per decreto, si scopre e si costruisce nei luoghi del confronto tra le idee e i loro sostenitori che possiamo chiamare “assemblee” o con un altro nome che è già stato usato nel corso della storia per nominare la spontaneità del raduno e la ricerca di una democrazia di base, partecipativa e non semplicemente rappresentativa: “consiglio”, “comitati”, “forum”… Non ci illudiamo però: la nascita e la durata delle assemblee è sempre irta di ostacoli, ma da esse passa l’obiettivo di costituire un “popolo”. Le assemblee vanno sperimentate alla luce della distanza che i loro partecipanti devono superare per riunirsi e fare nascere il comune, oltre che le repressioni o i tentativi di controllarle di cui possono essere oggetto. La distanza può essere spaziale e culturale: i “quartieri popolari” non sono più vicini alle università, anche nella banlieue parigina, così come le coltivazioni agricole non sono veramente vicine alle “zone da difendere”. La distanza può essere antropologica: tra generi o tra i sessi, tra le età e le generazioni, tra le formazioni e le professioni. Ci può essere infine una distanza tra i “movimenti” stessi con le loro storie singolari e i loro codici di riconoscimento. L’ipotesi di un “fronte popolare” costituisce in se stesso una grande utopia dell’incontro tra tutte queste esperienze e la loro conversione in un “movimento dei movimenti”. Senza questa ipotesi nulla può accadere, ma la proclamazione della sua urgenza è solo la prima delle difficoltà che dovrà affrontare.  

Oltre alla giustizia economica e sociale e alla difesa della democrazia, il Fronte popolare ha messo al centro del suo “programma” elettorale e di un governo a venire la difesa e l’estensione dei servizi pubblici: sanità pubblica, educazione, cultura indipendente dai monopoli commerciali, una giustizia accessibile a tutti, una polizia di prossimità, lo sviluppo del territorio e del tessuto urbano, trasporti a prezzi contenuti e energia non inquinante. Il Fronte popolare ha toccato il cuore del problema di ciò che, negli ultimi decenni a causa delle politiche neoliberali di austerità e di privatizzazione, è diventato una delle principali cause dell’aumento delle disuguaglianze. La precarizzazione che non è solo una pauperizzazione, ma un’“esclusione” o una disaffiliazione come l’ha definita Robert Castel riferendosi agli abitanti delle banlieues e in particolare ai giovani disoccupati. Con molti altri anch’io credo che oggi l’offerta ideologica e affettiva del Rassemblement National prosperi sul sentimento di insicurezza. I servizi pubblici non sono lo “Stato” perché, tra le altre cose, il loro funzionamento e la loro utilità dipende soprattutto dalla coscienza professionale e dall’empatia di coloro che li procurano ai malati, agli studenti, agli spettatori, agli abitanti, agli “ultimi”, in altre parole ai cittadini. Non si può dire allo stesso tempo che in una società come la nostra i servizi pubblici non esistano senza lo Stato che li finanzia attraverso le tasse o altri contributi, li inquadra giuridicamente e così li incorpora nel proprio organismo proliferante che i filosofi hanno comparato a un grande mostro mitologico.  

Con questa osservazione arriviamo a un’altra tensione in seno alla lotta del Fronte Popolare contro la “destatalizzazione” promossa dal neoliberalismo in termini socialmente selettivi: quella tra il principio di utilità e dunque di rafforzamento dello Stato e il principio di liberazione e di autonomia degli individui e delle capacità di auto-organizzazione o autogestione della società e dei suoi movimenti. La tradizione socialista e in generale quella della sinistra intellettuale, e partigiana, non ha smesso di oscillare o di cercare compromessi tra i termini di questa antitesi. Sarei tentato di dire che essa è costitutiva della politica in quanto pratica collettiva, come “governo di sé e degli altri”, per parodiare Foucault. Anche da questo punto di vista, l’idea del Fronte Popolare è una soluzione dinamica a questa contraddizione, che consiste nel lavorarla e trasformarla. Ma tutto questo verrà dopo, se ci sarà un dopo. Se riusciremo a fare arretrare l’estrema destra. Non c’è urgenza più importante di questa.

Note

Parte 1

[1]Penso in particolare al fuoco di sbarramento del tipo “Blum si starà rivoltando nella tomba” di Manuel Valls, Bernard Cazeneuve e altri, a cui il pronipote di Léon Blum, Antoine Malamoud, ha risposto con rigore e dignità su Mediapart: https://blogs.mediapart.fr/amd92/blog/110624/bernard-cazeneuve-accapare-leon-blum

Parte 2

[1] Non includo volutamente le manifestazioni dei contadini, il movimento di solidarietà con la Palestina, la mobilitazione contro l’antisemitismo e, simmetricamente, contro l’islamofobia, altre ancora che non mi sembrano aver acquisito la stessa capacità di strutturare rivendicazioni collettive di emancipazione, ma possiamo discutere.

]2] Engin Isin, Theorizing acts of citizenship, in Engin F. Isin-Greg M. Nielsen, a cura di, Acts of Citizenship, Palgrave Macmillan, 2008.

[3] Si veda il comunicato stampa dei quattro partiti di sinistra che hanno proposto la formazione di un “Nuovo Fronte Popolare ecologico e sociale” del 10 giugno 2024: Per una risposta repubblicana al rischio democratico

[4] G. Bataille, Scritti sul fascismo 1933-34: contro Heidegger, la struttura psicologica del fascismo, Mimesis, 2010.

[5] Olivier Schwartz, Vivons-nous encore dans une société de classes ? Trois remarques sur la société française contemporaine, in La vie des idées, 22 septembre 2009.

[6] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.

Traduzione di Roberto Ciccarelli

Ringraziamo Etienne Balibar e il sito Aoc Media per la gentile concessione editoriale per la traduzione