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Il Green New Deal e la bussola della politica economica

Il lungo percorso dell’European Green Deal è iniziato a dicembre. E il Wwf già chiede impegni maggiori alla nuova Commissione per la transizione verde. Ma l’Italia nei vari piani e interventi del suo Green Deal resta ancora al palo.

Nella definizione della legge di Bilancio 2020-2022 (legge n. 160/2019) grande enfasi è stata data alla centralità che assume il Green New Deal che dovrebbe improntare la quarta rivoluzione industriale (rispondendo così agli impegni assunti con la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza – NADEF). L’iniziativa italiana si inquadra in uno scenario globale che nel 2020 vedrà i leader mondiali impegnati nell’aggiornamento di alcuni degli Obiettivi di sviluppo sostenibile di rilevanza ambientale, nella definizione della strategia per la conservazione della natura al 2030 in vista della COP15 sulla Convenzione per la biodiversità che si svolgerà in Cina, e nel definire un quadro di azione sempre più incisivo in materia climatico-energetica che sarà al centro della COP 26 in programma a Glasgow in Scozia quando l’Italia sarà impegnata negli appuntamenti della pre-COP.

Ma il nostro Paese deve anche rispondere adeguatamente alla sfida lanciata dalla Presidente in pectore della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha indicato i tre pilastri del suo programma: Social, Migration, Green Deal.

Le linee di intervento dell’European Green Deal sono state chiarite nella comunicazione della Commissione europea (CE) presentata l’11 dicembre 2019. Dunque il Green New Deal europeo ha iniziato il suo lungo percorso che proseguirà con un ulteriore vaglio congiunto della strategia e degli strumenti da parte degli Stati membri dell’Unione europea (UE), dell’Europarlamento e della stessa Commissione (CE).

Nella comunicazione CE dell’11 dicembre si dichiara l’obiettivo del conseguimento della neutralità climatica (emissioni zero di CO2) della UE entro il 2050 da rendere vincolante per legge; una riduzione delle emissioni di gas serra del 50-55% entro il 2030; un piano per il ripristino dei sistemi naturali europei danneggiati dalle attività umane; la creazione di un Fondo per la Giusta Transizione verso un modello economico low carbon, destinato a interventi per garantire la resilienza dei sistemi naturali colpiti dai cambiamenti climatici. L’Europa potrebbe avere certamente obiettivi più ambiziosi, data la gravità di quella che è diventata una quotidiana emergenza con costi sociali ed economici pesantissimi (basta pensare all’alternanza tra fenomeni alluvionali devastanti e lunghi periodi siccitosi), ed è per questo che l’European Policy Office del WWF ha chiesto di più. Il WWF EPO chiede, ad esempio, di anticipare la neutralità climatica  di dieci anni, al 2040, e di abbattere le emissioni di gas serra del 65% al 2020. Ma il senso di urgenza e l’impressione che finalmente ci si voglia incamminare verso una revisione dal paradigma produttivista e dissipativo delle risorse naturali è palpabile su scala europea; tanto che la stessa Banca Europea degli Investimenti (BEI) ha annunciato, comunicandolo già dal 15 novembre 2019, di non voler finanziare più, a partire dal 2021, progetti riguardanti la produzione di energia da combustibili fossili e di voler passare entro il 2030 dal 25% al 50% del totale degli investimenti da destinare alla transizione verde.

Manca invece sinora un respiro programmatico all’azione politico-istituzionale avviata nel nostro Paese. Il Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC), approvato in prima bozza nel 2019, conferma, sì, il phase out dal carbone entro il 2025, prevede però nel contempo un più largo uso del gas e una quota ancora insufficiente di energia prodotta da fonti rinnovabili. Mentre il Piano Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) è solo una raccolta di buone intenzioni senza indicazioni di priorità di intervento per prevenire e mitigare i fenomeni estremi e mettere in sicurezza il nostro territorio.

Il Governo “Conte 2” ha dichiarato di voler di imprimere una svolta a partire dalla legge di bilancio 2020, sulla scia di quanto annunciato nella NADEF, ma questa svolta si avverte dalla lettura della legge n. 160/2019? La risposta è dubbia.

La legge di Bilancio appena approvata prevede nel solo 2020 risorse complessive destinate alla realizzazione del Green Deal italiano per 1.438 milioni di euro, nell’ambito di un programma (con orizzonte ultimo al 2034) per complessivi 27.714 milioni di euro. Uno stanziamento, questo, senza precedenti, anche se ben lontano, nel lungo periodo, dai 50 miliardi in 15 anni promessi nella Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF), sull’onda probabilmente dalle analoghe dichiarazioni del governo tedesco. Non solo. Lo stanziamento risulta relativamente modesto per l’anno a venire.  Si pensi che per un singolo settore altamente inquinante, quello dell’autotrasporto, vengono garantiti 1.467 milioni di euro – inscritti nel bilancio di previsione del ministero dell’Economia e della Finanza – di sussidi per abbattere l’aumento del costo del gasolio. E non è stato un bel segnale che nel passaggio dal Senato alla Camera si sia operato un taglio dei fondi destinati complessivamente al Green Deal di 250 milioni di euro nel 2020 e di 1.710 milioni di euro al 2034 nel fondo delle amministrazioni centrali destinato a questo scopo.

Andando più nel dettaglio, il Green Deal italiano è articolato, quindi, in due Fondi e una linea di finanziamento: il Fondo finalizzato al rilancio degli investimenti delle amministrazioni centrali per l’economia circolare, la decarbonizzazione dell’economia e la sostenibilità ambientale (435 milioni nel 2020); contribuiti per gli investimenti dei Comuni per l’efficientamento energetico e lo sviluppo territoriale sostenibile (500 milioni nel 2020). Più il vero e proprio “Fondo per il Green New Deal” (finanziato anche con i proventi derivanti dalle aste ETS sullo scambio di quote di emissione di CO2) per decarbonizzazione, sostenibilità ambientale, economia circolare e rigenerazione urbana e altri programmi di investimento (470 milioni al 2020).

A questi nuovi stanziamenti si accompagna il rifinanziamento del Green Climate Fund (fondo internazionale) con però solo 33 milioni di euro previsti nel 2020, ampiamente al di sotto della media di molti Paesi europei che hanno raddoppiato il loro contributo o sono andati anche oltre (Germania, Norvegia, Francia, UK, Svezia, Danimarca, Islanda, Polonia, Lussemburgo, Irlanda e Monaco). Inoltre degna di nota è la conferma – anche se ancora una volta non si parla di stabilizzazione – dell’Ecobonus del 50% per la riqualificazione energetica (finestre, infissi, schermature solari) dei singoli immobili e del 65% per altre tipologie di intervento (sostituzione impianti di climatizzazione invernale con caldaie di condensazione Classe A).

Profondamente deludenti sono poi le disposizioni della legge di Bilancio riguardanti i Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD). In questo caso, da un lato, accanto a una misura che timidamente cerca di incidere sul rinnovo della flotta dell’autotrasporto merci (escludendo i veicoli di classe euro 3 dai benefici derivanti dalla riduzione delle accise sul gasolio) si confermano, come abbiamo visto, ingenti sussidi al settore. E dall’altro, non si ha il coraggio di cancellare ma solo di “sospendere” dal 2020 al 2022, e solo parzialmente – perché chi estrae idrocarburi sino a 10 milioni di metri cubi a terra e 30 milioni di metri cubi di gas a mare continua a non dover pagare le royalties  lo scandaloso regime di esenzioni dal pagamento delle aliquote per l’estrazione degli idrocarburi liquidi e gassosi vigente nel nostro Paese (che, se abolito, porterebbe 40 milioni di euro l’anno di maggiori entrate).

Questo è un problema che deve essere affrontato seriamente e in fretta se il governo italiano vuole rispettare l’obiettivo indicato dall’OCSE in ambito G7 di azzeramento dei SAD entro il 2025, sussidi che in Italia pesano oggi per 19,8 miliardi di euro, di cui ben 16.8 a sostegno dei combustibili fossili. La verità è che siamo ancora all’anno zero, vista la debolezza delle misure appena richiamate previste dalla manovra 2020. E allora si cerca di correre ai ripari costituendo presso il ministero dell’Ambiente la “Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte per la transizione ecologica e per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi”. Commissione che speriamo contribuisca effettivamente a individuare i tagli prioritari da fare, indicando nel contempo come incentivare virtuosamente, con una quota parte delle risorse economico-finanziarie recuperate, la riconversione ecologica del nostro sistema economico. 

In Italia, in conclusione, non esiste solo un problema di fondi da destinare alla svolta verde del Paese, ma anche di governance della Giusta Transizione. Perché non basta, come previsto nel cosiddetto decreto Clima recentemente convertito in legge (decreto legge n. 111/2019 oggi legge n. 141/2019) cambiare il nome del CIPE in CIPESS, trasformandolo così in Comitato per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile, ma bisogna avere le idee chiare su quale sia la direzione da prendere anche nel medio e lungo periodo e quale sia il ruolo dello Stato nell’indicare e realizzare le priorità. L’assonanza con il New Deal roosveltiano non deve essere solo formale, la sfida per la ri-conversione ecologica dell’economia la si vince se finalmente i governi, a cominciare dal nostro, ricominciano ad avere e ad attuare una politica economica di largo respiro, che non sia semplicemente quella di assecondare le tendenze spontanee del libero mercato.