Dal Canada all’Argentina, una rassegna sulla situazione sociale ed economica nel continente americano afflitto dalla pandemia. Le misure dei governi, le richieste e le mobilitazioni di sindacati e movimenti sociali. Con un denominatore comune: la crisi la pagano i lavoratori e i più deboli.
Il Covid-19 si sta velocemente diffondendo nel continente americano, dove l’assenza di una strategia regionale e di coordinamento tra stati, sommata a crisi istituzionali, recessione e un elevato tasso di economia e lavoro informale, determinano un quadro socio-sanitario ad alto rischio e la perdita del lavoro, salari e redditi per ampi settori della popolazione, dal Canada all’Argentina. Una situazione sociale e politica di tale tensione che, in assenza di correzione da parte dei governi neoliberisti, renderà impossibile la necessaria coesione e cooperazione di tutte le componenti sociali e politiche per affrontare la pandemia. Ciò è evidente nelle azioni e negli appelli delle organizzazioni sindacali descritte qui di seguito.
La Confederazione Sindacale delle Americhe (CSA), che rappresenta oltre 55 milioni di lavoratori del continente, ha manifestato tutte le sue preoccupazioni di fronte alla pandemia, segnalando che, milioni di lavoratori nelle Americhe vivono già una dura realtà a causa dei processi di cambiamento dei sistemi produttivi, dei processi di privatizzazione e dell’alto indice di informalità (lavoro senza tutele), con chiare ripercussioni sui diritti umani e sulle condizioni di vita. Gli effetti diretti sulla regione non sono ancora stati calcolati, ma in un quadro di recessione economica e crescente disuguaglianza negli ultimi anni, si stima che le conseguenze saranno ancora più disastrose per i lavoratori.
La CSA, quindi, rivolge un appello ai governi del continente americano affinché adottino misure di difesa della salute di tutte le cittadine e cittadini, in particolare per quelle fasce della società meno protette e più a rischio di rimanere vittime del contagio. Inoltre, si chiede di attuare azioni che «privilegiano la vita, la salute, l’occupazione, i salari e la protezione sociale delle persone contro gli interessi delle grandi aziende e del capitale finanziario e rafforzano il ruolo dello stato di fronte alla pressione privatizzante sui servizi pubblici». Tra le proposte formulate nell’appello spicca la richiesta di adozione di politiche di tassazione delle grandi fortune e la confisca dei fondi illeciti nascosti nei paradisi fiscali di tutto il mondo, come misura di giustizia sociale per far fronte ai costi dell’assistenza e per il sostegno all’economia e all’occupazione.
Ma vi è anche la forte preoccupazione che i governi conservatori che praticano politiche neo-liberali approfittino di questa emergenza per restringere ulteriormente gli spazi democratici e reprimere la protesta sociale e l’azione sindacale, come sta accadendo in Brasile, Cile, Colombia. In conclusione, la CSA invita i governi ad affrontare l’emergenza Covid-19 rafforzando il dialogo sociale in tutte le sedi e spazi, locali e nazionali, e si rivolge ai sindacati degli altri continenti per una mobilitazione e una strategia unitaria, globale, come unica strada possibile per uscire da questa crisi senza che a pagare il conto siano lavoratori e lavoratrici. In effetti, la situazione nei singoli paesi del continente americano è preoccupante, dal Canada alla Patagonia. In Cile, Brasile, Uruguay, Ecuador, Colombia, Uruguay, Venezuela si susseguono ad esempio mobilitazioni e proteste sociali che hanno radici profonde, antecedenti all’emergenza attuale.
In Argentina, il nuovo governo – con la coppia Fernandez-Fernandez che ha sostituito l’esecutivo di destra di Macri – insediatosi pochi mesi prima dello scoppio della pandemia è forse l’unico del Sud America che ha instaurato un dialogo e un coordinamento con le centrali sindacali. Queste ultime hanno messo a disposizione le proprie strutture alberghiere e i centri sanitari per assistere la popolazione. I sindacati mantengono aperte le sedi, e hanno attivato il telelavoro. Tra le misure prese dal governo di Buenos Aires: controllo dei prezzi dei generi di prima necessità per evitare speculazioni e mercato nero, sostegno agli anziani con bonus pensione straordinario, sospensione dei contributi fiscali, stanziamenti straordinari per la cassa integrazione e per le piccole e medie imprese. Queste prime misure scadono a fine aprile, quando si potrà valutare lo stato della situazione sanitaria nel paese.
In Bolivia, la pandemia ha costretto l’attuale governo a rinviare le nuove elezioni presidenziali previste per il mese di maggio, a seguito della crisi che ha portato il paese a una quasi guerra civile, con un rovesciamento istituzionale drammatico e violento, che ha interrotto il processo della costituzione plurietnica e multiculturale guidato da Evo Morales. L’attuale governo ha vietato di chiudere le utenze di luce, acqua e gas alle abitazioni di chi non è in grado di pagare le bollette. Ha stanziato un bonus di 60 euro al mese per ogni figlio in età scolare e alle famiglie in condizioni di povertà, e ha programmato il rinvio delle scadenze dei pagamenti e dei debiti per due mesi. Inoltre, si è impegnato a distribuire alimenti e beni di prima necessità nelle aree rurali e nei quartieri poveri delle città.
Jair Bolsonaro, in Brasile, ha invece utilizzato la pandemia per far approvare un decreto che affida al presidente della Repubblica, in caso di “emergenza nazionale”, poteri e decisioni senza dover passare per il parlamento. Una misura in totale contraddizione con le sue stesse dichiarazioni (la pandemia è “un semplice raffreddore”, “chi rimane a casa è un codardo”). Per la CUT, il ricorso a questa misura eccezionale è finalizzato a dare mano libera al presidente contro la protesta sociale e contro il sindacato, considerato dall’attuale governo il peggior nemico possibile. In tal senso, in Brasile le misure di emergenza in campo economico sono tutte a favore delle imprese: si sospendono i contratti collettivi e si lascia campo libero alla contrattazione individuale. Il dialogo sociale e il ruolo di rappresentanza dei sindacati non sono riconosciuti e vengono messi definitivamente in soffitta. Ma la misura che ha determinato una forte mobilitazione nazionale è stata la proposta di permettere alle aziende di sospendere il lavoro e di non pagare gli stipendi fino a un massimo di 4 mesi, decisione annullata a seguito della pronta azione e protesta dei sindacati.
La CUT chiede al governo (i) di sospendere le scadenze dei pagamenti e dei mutui; (ii) di investire urgentemente risorse nel sistema sanitario e per la protezione degli operatori sanitari e di tutti i lavoratori dei settori essenziali; (iii) di garantire i salari e l’occupazione; riconoscere l’equivalente di un salario minimo (240 euro) a chi ha perso il proprio lavoro e ai lavoratori del settore informale, che rappresenta il settore più povero e vulnerabile; (iv) di sospendere il pagamento delle bollette di acqua, luce, gas, internet e di erogare sussidi per trasporto pubblico, affitti, assicurazioni sanitarie per il periodo dell’emergenza pandemica; (v) di garantire assistenza e azioni di prevenzione sanitaria nelle aree rurali e nelle comunità indigene. Infine, la CUT chiede che si crei un Fondo straordinario con risorse statali e un’imposta sulle grandi ricchezze per sostenere le misure sopraindicate.
In Cile la situazione è molto tesa. Nel paese la protesta sociale era già esplosa prima del Covid-19, tanto da mettere in crisi – per la prima volta dopo trent’anni dalla fine della dittatura di Pinochet – un sistema democratico ancora vincolato al modello economico sperimentato in Cile dalla scuola neo-liberale di Chicago negli anni ’70. A Santiago si sommano adesso le due emergenze: quella della protesta di piazza per una nuova costituzione e un nuovo patto sociale tra cittadini e istituzioni, e quella dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia che si sta diffondendo nel paese. Il referendum con cui i cileni avrebbero dovuto dire Sì/No alla riforma costituzionale (e se Sì, incaricare una costituente composta da 50% rappresentanti dei partiti e 50% da rappresentanti della società civile), previsto per aprile, è stato ovviamente sospeso. Una decisione indiscutibile, ma che trascina il malcontento e le tensioni sociali.
La CUT, insieme ai movimenti sociali e agli studenti, denuncia l’opportunismo del governo nell’approvare con procedure d’urgenza nuove norme sul lavoro, senza consultare i sindacati: ad esempio la nuova legge sul telelavoro, che prevede la sconnessione dei lavoratori per un periodo di 12 ore, riconoscendo con ciò implicitamente il dovere di rimanere collegati in rete per almeno 12 ore al giorno. Il governo di Piñera considera l’emergenza pandemica come una “calamità”, “un caso di forza maggiore”, sollevando così il datore di lavoro dall’obbligo di pagare gli stipendi e di rispettare il contratto di lavoro. E lasciando senza alcuna protezione il lavoratore. Di fronte a queste misure discriminatorie e irresponsabili, la CUT ha avviato un ricorso legale ed è in stato di agitazione e mobilitazione. Sono convocati cacerolazos e manifestazioni nelle diverse città del paese «per difendere – come ha dichiarato Barbara Figueroa, presidente della CUT – i salari e la salute dei lavoratori. Non è possibile continuare a generare misure di protocollo per garantire il capitale invece di assicurare la vita di milioni e milioni di lavoratori».
Il PIT CNT, nel piccolo Uruguay, ha chiamato lo scorso mercoledì la popolazione a realizzare un apagón social e un cacerolazo di protesta contro il governo per l’assenza di misure di protezione sociale nei confronti di chi rischia la perdita del lavoro e delle fasce deboli della popolazione: anziani, lavoratori precari, informali. La centrale sindacale, dopo il lungo periodo di governi della coalizione di sinistra del Frente Amplio, ora si trova a fare i conti con un esecutivo di stampo neoliberista, che ha sostenuto posizioni assurde come quelle riportate dagli imprenditori in sede ILO contro il troppo elevato tasso di copertura della contrattazione collettiva, ribaltando quello che è sempre stato un obiettivo di ogni paese civile.
Il PIT CNT, di concerto con altre realtà della società civile uruguayana, ha elaborato una piattaforma di 11 punti, che è stata consegnata al governo e per la quale ha avviato una campagna nazionale di mobilitazione. Le principali richieste vertono sulla necessità di garantire un reddito minimo a tutta la popolazione. Infatti, circa 400.000 lavoratori autonomi, con contratti in scadenza e non rinnovati, ambulanti e del settore informale, si troveranno presto in condizioni di indigenza se non avranno subito un reddito di sussistenza. La centrale sindacale, da parte sua, ha già avviato azioni di solidarietà e di assistenza a famiglie di lavoratori in difficoltà, con la distribuzione di pasti nei quartieri operai. Chiede al governo di agire rapidamente e dichiara la propria disponibilità a sedersi al tavolo per coordinare insieme a istituzioni e imprenditori un piano di emergenza nazionale.
Anche la Colombia si trova ad affrontare l’emergenza pandemica in un momento delicatissimo, con la quasi paralisi degli accordi di pace, proteste sociali diffuse in tutto il paese a causa del pacchetto di riforme strutturali imposte dalle agenzie internazionali (come FMI e OCSE) che hanno ulteriormente ridotto salari e servizi di base alla popolazione. Tutto questo nel quadro di livelli crescenti di impunità e di violenza, con omicidi mirati di ex-guerriglieri, attivisti sociali, sindacalisti, leader indigeni. E all’interno di una dinamica di polarizzazione della società che rende praticamente impossibile un’azione unitaria di contrasto alla pandemia. Il governo conservatore e di destra del presidente Duque, ha promesso interventi a pioggia per le fasce più deboli, senza però attivare una mobilitazione di tutte le forze politiche e sociali per far fronte alla nuova emergenza Covid-19.
La CUT, insieme alle altre centrali sindacali e ai movimenti sociali, continuano le mobilitazioni iniziate il 21 novembre scorso. Le richieste inviate al governo sono essenzialmente: (i) la sospensione dei pagamenti e delle scadenze fiscali; (ii) la continuità della fornitura di luce, acqua, gas per il periodo della crisi alle famiglie non più in grado di pagare le bollette; (iii) l’introduzione del telelavoro dove questo è possibile; (iv) la flessibilità nell’orario di lavoro; (v) il divieto di licenziamenti e la proroga dei contratti a termine; (vi) la cassa integrazione per i lavoratori delle aziende che sospendono le attività; (vii) il sostegno alle piccole e medie imprese; (viii) una particolare attenzione alle lavoratrici domestiche e al contrasto della violenza domestica; (ix) la protezione dei minori in contesti di fragilità e disagio socioeconomico.
Dall’Ecuador arriva la voce del sindacato dei bananeros (ASTAC) per denunciare le condizioni di lavoro e i rischi a cui sono soggetti i lavoratori, i quali si vedono costretti a spostarsi giornalmente su mezzi di trasporto come sempre affollatissimi, contravvenendo alle più elementari norme di sicurezza contro il contagio. Gli stessi lavoratori operano senza o con scarsa protezione personale per circa 12 ore al giorno, e sono minacciati di licenziamento in caso di assenza o di mancanza di protezioni che dovrebbero procurarsi per proprio conto. Al contempo, le aziende dichiarano e pagano i contributi sociali solamente per il 50% dei lavoratori presenti nelle piantagioni, lasciando l’altro 50% senza alcuna possibilità di sussidi o assistenza. E i lavoratori con più di 60 anni di età, oltre al maggior rischio di infezione, rischiano di essere lasciati a casa senza alcun riconoscimento economico e assistenziale.
Denunciando queste condizioni e i rischi che l’arrivo della pandemia può generare tra i lavoratori nelle piantagioni di banane, il sindacato chiede alle multinazionali e al governo dell’Ecuador di: (i) rispettare la giornata di lavoro di 8 ore, contro le attuali 12-14, includendo le donne che si debbono far carico anche delle attività domestiche e di cura; (ii) garantire protezione sociale e salario per i lavoratori più anziani; (iii) limitare la frequenza di irrorazione aerea di prodotti chimici già dannosi per la salute in condizioni di normalità. Inoltre, il sindacato rilancia la questione dei capitali sottratti alla fiscalità, trafugati nei paradisi fiscali, che oggi dovrebbero essere riportati nel paese e utilizzati per far fronte alla crisi. E si chiede al governo di rendere obbligatorio per le multinazionali di versare i contributi sociali per tutti i lavoratori, cosa che oggi non avviene. Infine, il sindacato si appella alla solidarietà internazionale e al coordinamento tra tutti sindacati bananeros e le centrali sindacali per chiedere regole commerciali eque a garanzia della salute di tutti i cittadini e dei diritti dei lavoratori: «Le grandi catene di supermercati europee e nordamericane, i principali clienti delle nostre banane e corresponsabili della violazione dei nostri diritti, devono agire ORA! Pagare un prezzo equo che consenta loro di prendersi cura e proteggere la salute dei lavoratori.»
La situazione forse più drammatica è quella del Venezuela. La repubblica bolivariana si trova in una crisi istituzionale interna senza apparente via d’uscita, con l’economia al collasso, iperinflazione galoppante, salari senza più poter d’acquisto, la maggioranza della popolazione allo stremo e oltre tre milioni di venezuelani rifugiati nei paesi confinanti in cerca di migliori condizioni di vita. La CSA e la Confederazione Sindacale Internazionale (CSI) hanno fatto proprio l’appello dei sindacati e dei lavoratori del Venezuela chiedendo alla comunità internazionale di sospendere le sanzioni e l’embargo imposto dagli Stati Uniti, per consentire al paese di chiedere aiuti e prestiti al fine di organizzare l’assistenza alla popolazione. Nell’appello si chiede anche al governo venezuelano di convocare tutti i partiti, le forze sociali e i sindacati per definire e coordinare il piano di emergenza nazionale contro la diffusione della pandemia.
In Centro America i governi, alle prese con bilanci pubblici cronicamente insufficienti per affrontare i bisogni correnti, devono ricorrere a ogni calamità all’aiuto esterno, aumentando così a dismisura l’indebitamento e la dipendenza dal sistema finanziario internazionale e dalle potenti multinazionali. Honduras, Salvador, Guatemala, Nicaragua, sono paesi con elevati tassi di economia informale e di povertà, e con istituzioni e strutture democratiche fragili. Una delle principali voci del loro Pil è prodotta dalle rimesse degli emigrati negli Stati Uniti, in Messico e nel vicino Costa Rica. Un’esplosione della pandemia in questa regione lascerebbe un segno epocale nelle aree a maggioranza indigena, dove i servizi sanitari e la presenza dello stato sono praticamente inesistenti o di scarsa qualità e affidabilità. La maggioranza dei lavoratori non ha contratti e non usufruisce di protezione sociale e sanitaria. I sindacati indipendenti resistono in condizioni avverse, con i dirigenti minacciati e discriminati, spesso oggetto di violenze e di assassinii: rivendicano il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro, le norme dell’ILO, i diritti umani, e svolgono un lavoro encomiabile e indispensabile, anche se i risultati sono minimi di fronte a un sistema di sfruttamento radicato nelle peggiori forme di capitalismo selvaggio e di rapina.
Negli Stati Uniti d’America il presidente Trump, com’è noto, ha sfoderato la sua solita arroganza mediatica facendo spallucce alla pandemia, per poi correre ai ripari annunciando piani d’intervento mai visti nella storia degli Usa, dopo che New York e altri stati erano già in piena emergenza sanitaria con curve di contagio in salita verticale. Per la grande centrale sindacale AFL-CIO, la sfida è doppia, e mi sia concesso, non si sa quale sia il principale pericolo per lavoratori e lavoratrici: la politica di Trump o la diffusione della pandemia.
L’AFL-CIO, nei giorni scorsi, si è così espressa: «La pandemia di Covid-19 ha messo in luce l’inadeguatezza dei nostri sistemi di protezione dei lavoratori, assistenza sanitaria e salute e sicurezza sul lavoro, nonché l’impatto di molti anni di austerità del bilancio e insufficiente finanziamento delle nostre infrastrutture di sanità pubblica. Dovrebbe servire da atto d’accusa per la deregolamentazione sconsiderata e pericolosa sostenuta dall’amministrazione Trump, che ha indebolito o eliminato le norme in materia di salute e sicurezza, ridotto il numero di ispettori del posto di lavoro al livello più basso della storia e smantellato l’infrastruttura che i precedenti presidenti avevano messo in atto per mitigare focolai di malattie infettive come questa. La pandemia ha anche rivelato debolezze sottostanti nel nostro sistema economico, come l’elevato livello di indebitamento delle grandi società e l’eccessiva dipendenza di beni e prodotti provenienti dalla Cina. L’urgenza di un’azione forte e profonda non deve essere minimizzata. Inoltre, questa crisi sottolinea l’importanza critica di informazioni oneste e trasparenti da parte dei leader politici. Dobbiamo ascoltare gli scienziati e consentire loro di fare il loro lavoro. L’AFL-CIO elaborerà e perfezionerà queste raccomandazioni preliminari per sviluppare un programma politico globale per affrontare tutte le implicazioni della pandemia di Covid-19.»
Raccomandazioni che l’AFL-CIO sta già applicando nelle proprie sedi, in tutti gli stati Usa, lavorando senza sosta per proteggere il personale impiegato nell’assistenza e potenziare i servizi di emergenza. E al contempo formando e istruendo i delegati per informare nei luoghi di lavoro su come comportarsi e proteggersi. Ai governi degli stati Usa il sindacato chiede inoltre di intraprendere un’azione su vasta scala, e con l’urgenza richiesta da questa pandemia. In particolare, è richiesta la protezione di chi è impegnato in prima linea, tramite: (i) l’impiego immediato di fondi straordinari per il sistema sanitario (che, va ricordato, è sostanzialmente privato); (ii) la distribuzione di aiuti e sussidi economici ai lavoratori che hanno perso il posto di lavoro o a cui è stato sospeso il salario; (iii) l’assistenza sanitaria a chi non ha coperture assicurative; (iv) stanziamenti per la pronta ripresa del sistema produttivo e dell’occupazione. Per fare ciò, continua il documento dell’AFL-CIO, occorrono politiche immediate e di medio periodo nei settori della salute e sicurezza sul lavoro, tutele dei lavoratori (come ferie e giornate di malattia retribuite, indennità di disoccupazione), cure mediche e assistenza sociale gratuita per le fasce povere, una grande iniezione di risorse per contrastare l’impatto della pandemia sull’economia.
Anche in Canada, il Canadian Labour Congress (CLC), la principale centrale sindacale canadese, si è mobilitata per la difesa della salute e del lavoro, formulando un parchetto di richieste alle istituzioni. In sintesi, le richieste sono: (i) attivare accordi di lavoro flessibili, telelavoro, video e teleconferenza, porre fine ai viaggi non essenziali e posticipare riunioni ed eventi non necessari; (ii) fornire un congedo per malattia retribuito in regime di invalidità a breve termine e piani di congedo per malattia garantendo copertura per terapie e medicinali; (iii) riconoscere il congedo per malattia di 14 giorni durante il periodo di quarantena; (iv) proibire l’obbligo dei test del coronavirus come condizione per continuare a lavorare; (v) ridurre al minimo i licenziamenti ricorrendo a tutti gli istituti a disposizione; (vi) realizzare un coordinamento costante con i delegati alla salute e sicurezza e con i sindacati in materia di salute e sicurezza per fornire informazioni accurate e tempestive ai dipendenti sull’accesso a obblighi, sussidi e assistenza; (vii) garantire alle famiglie delle vittime assistenza psico-sociale per chi si trova in condizioni di fragilità.
* Sergio Bassoli, Area Politiche internazionali CGIL