Il peggioramento degli indicatori del benessere equo e sostenibile (BES) confermano una situazione, economica ma anche culturale, allarmante. E indicano anche priorità e bisogni collettivi. “Peccato la politica non li utilizzi come strumento”, dice il ministro Giovannini.
Tra il 5 febbraio e l’11 marzo scorso sono stati presentati gli aggiornamenti sull’andamento degli indicatori di benessere, cioè sulla qualità della vita degli italiani e su come e quanto sia cambiata negli ultimi dieci anni. Con poco clamore è stato prima presentato l’8° rapporto Istat sui BES, comprensivo di una disamina decennale di questo strumento di analisi, inserito nel 2016 nella programmazione economica del governo, con l’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e l’allora presidente Istat Enrico Giovannini, oggi ministro. Come prescritto dalla legge istitutiva di questo strumento di cui è stato primo firmatario Giulio Marcon, ora portavoce della Campagna Sbilanciamoci!, il ministro dell’Economia del governo Draghi, il banchiere Daniele Franco, ne ha quindi dovuto licenziare la relazione del Mef al Parlamento , che è stata spedita, per l’appunto, l’11 marzo.
Gli indicatori di benessere, utilizzati a livello internazionale e noti come dashboard, sono 12 in Italia e quest’anno il comitato che ne presiede il monitoraggio ha inserito per la prima volta un nuovo “marcatore” : l’aspettativa di vita alla nascita, che stima per ogni nuovo nato il numero medio di anni in cui si prevede che potrà condurre una esistenza in buona salute, senza incorrere in patologie croniche, al di là dei rischi standard di malattie e morte. Proprio questo indicatore, insieme ad altri parametri con cui può essere confrontato, come ha sottolineato lo stesso presidente Istat Gian Carlo Blangiardo, segnala come in un solo anno di pandemia gli italiani abbiano perso dieci anni di “conquiste” in termini di salute pubblica.
L’aspettativa di vita alla nascita nel 2010 era infatti di 81,7 anni, è salita a 83,2 anni nel 2018 e nel 2020 è scesa a 82,3 anni. L’aspettativa di una vita in buona salute però è molto più corta: per chi è nato nell’anno appena trascorso è di 57,6 anni nel caso dei neonati di sesso maschile e di 55,3 anni per le neonate. Le donne infatti vivono mediamente più a lungo ma per un lasso di tempo minore senza acciacchi fisici. E chissà, magari questo dato dovrebbe essere utilizzato come parametro anche per stabilire la speranza di vita nel calcolo per l’età pensionabile, visto che per lavorare non basta essere vivi ma di solito è richiesta una relativa buona salute.
Altro aspetto che gli indicatori segnalano è la variazione della diseguaglianza economica, in netta crescita, e l’aumento della povertà assoluta. Quest’ultima in un decennio è più che raddoppiata: nel 2010 i cittadini in condizione di deprivazione economica seria erano il 4,2 per cento della popolazione, dieci anni dopo la percentuale è diventata il 9,4 per cento. Il che significa che un cittadino su dieci oggi “non è in grado di far fronte a spese essenziali per condurre una vita considerata accettabile”: questa è la definizione di povertà, non non avere un pezzo di pane o una ciotola di riso.
L’impoverimento di fasce consistenti della popolazione italiana si collega strettamente all’indice BES sull’abbandono precoce dei percorsi di istruzione e formazione, con dati molto allarmanti, sicuramente aggravati dalla chiusura delle scuole per la pandemia considerando che l’8 per cento dei bambini è di fatto escluso dalla Dad, perché non ha la disponibilità di computer e collegamento internet.
In videoconferenza Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale delle statistiche sociali dell’Istat, ha spiegato però che oltre la pandemia molte criticità che emergono dal rapporto Bes sono ormai da considerare “strutturali” nella società italiana. Dimostrano il progressivo e costante distacco dalla qualità della vita media del resto d’Europa. Un distacco che la crisi del Covid-19 ha solo approfondito. I parametri peggiori, ha sottolineato Sabbadini, sono quelli che riguardano i livelli di istruzione, il numero dei posti letto e di infermieri per abitante – la metà di quelli disponibili in Germania – ma anche l’anzianità dei medici – i più vecchi dei paesi più industrializzati dell’area Ocse- , il tasso di occupazione femminile, che giaci vedeva agli ultimi posti ed è ulteriormente peggiorato nel periodo Covid. Peggiorano in modo sensibile anche indicatori BES ambientale – il consumo di suolo e il riciclo dei rifiuti mentre migliora la concentrazione di C02 e di gas climalteranti ma solo a causa del periodo di totale lockdown nella primavera scorsa- e peggiora, altro indicatore di povertà, la diffusione dell’obesità. Anche l’abusivismo edilizio, tornato ai valori massimi dopo lievi miglioramenti, è del resto sintomo di un impoverimento abitativo delle famiglie.
Pochi i fattori in positivo: oltre alla qualità dell’aria, l’abbassamento della criminalità “predatoria” (furti, rapine, borseggi), l’aumento della presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle imprese, in seguito alla legge sulle quote rosa, ma non nella politica. E infine Sabbadini sottolinea la parziale ripresa della partecipazione dei cittadini alla vita sociale e politica “connessa all’esigenza di informarsi sull’evoluzione della pandemia”.
Nel rapporto del Mef sugli indicatori di benessere è stata inserita anche una previsione sulla qualità della vita che ci dovremmo aspettare nei prossimi tre anni, questa previsione si basa sulle indicazioni della Nota di aggiornamento del Documento di programmazione economica o Nadef, che stima un miglioramento della situazione economica e sociale anche se in maniera piuttosto vaga. All’epoca del Nadef non era ancora neppure sicuro l’arrivo dei 209 miliardi del Recovery Fund. In ogni caso il ministero di via XX settembre prevede che l’aspettativa di vita in buona salute potrà tornare sui livelli del 2014 soltanto tra due anni, nel 2023.
In ogni caso il rapporto ministeriale sui BES mette in luce soprattutto l’argine che è stato posto dallo Stato a un sprofondamento della qualità della vita degli italiani per l’effetto dell’epidemia su una debolezza sociale ed economica già conclamata. La relazione sofferma dunque sui provvedimenti presi del governo precedente e su quanto abbiano limitato i danni e contenuto gli effetti negativi della situazione pandemica. Il reddito pro capite è calato di 2,3 punti percentuali nel 2020, in misura fortemente minore dalla riduzione del Pil pro capite, sostenuto da tutte le misure di sussidio e di sostegno decise dall’esecutivo Conte bis e che ora saranno in parte prorogate dal governo Draghi con il decreto “Sostegni”.
La diseguaglianza di reddito disponibile, altro indicatore BES che monitora le dinamiche del 20 per cento (o quintile) più ricco della popolazione in rapporto al 20 per cento (o quintile) più povero, ha raggiunto con il valore 6,3 nel 2020. Non è ancora il punto massimo, riscontrato nel 2015, ma neanche il suo punto minimo risalente al 2007, e di sicuro si calcola che abbia ripreso a crescere dopo il calo registrato nel 2019, anche se non è stato ancora precisamente calcolato quanto si sia approfondita la distanza. I ricercatori del Mef si soffermano in generale sulla valutazione “controfattuale”, cioè prendendo in considerazione il caso che non si fosse verificata alcuna epidemia o ancora che gli interventi pubblici di sostegno non fossero stati assunti. Senza Covid, la forbice della diseguaglianza economica sarebbe aumentata di un altro mezzo punto percentuale. E in più sarebbero finiti nella povertà assoluta poco meno di un altro mezzo milione di individui, i quali sarebbero andati ad aggiungersi al milione di persone già finite in questo bacino durante l’anno pandemico appena trascorso, nonostante i sussidi a pioggia sparsi dal governo Conte bis. Oggi i poveri sono il 9,4 per cento della popolazione italiana, il valore più alto dal 2005.
Il reddito di cittadinanza (insieme al reddito di emergenza) ha contenuto il fenomeno e dato qualche respiro a oltre 332 mila persone. La platea dei beneficiari si è pertanto triplicata rispetto agli esordi. L’importo medio è rimasto di 550 euro, anche perché nel 41 per cento dei casi il reddito di cittadinanza è stato percepito da singoli individui e non da famiglie. Resta invece la predominanza dei cittadini meridionali: al 60 per cento (59,9% per la precisione) i beneficiari sono abitanti del Sud e delle isole.
Il capitolo dell’istruzione e dell’abbandono scolastico merita un approfondimento. L’indicatore Bes numero 6 indica “l’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione” per i ragazzi dal 18 ai 24 anni, cioè segnala i giovani che raggiungono a malapena la fine della secondaria di primo grado o licenza media e quindi non terminano neanche l’obbligo scolastico. Nel 2019, come per tutti gli altri indicatori tranne l’aumento di peso corporeo, il valore dell’abbandono scolastico era leggermente migliorato, almeno nelle regioni del Nord. Ora riguarda oltre il 13,5 per cento della platea giovanile. L’indice però, a ben vedere, presenta per tutte le serie storiche dati molto disomogenei da regione a regione, persino da provincia a provincia. Campania e Sardegna ottengono la maglia nera, ma anche province come quella di Imperia in Liguria presentano storicamente tassi più alti della media nazionale. Negli obiettivi europei anche senza scomodare il Next Generation Eu, la dispersione scolastica nel 2020 non avrebbe dovuto superare la soglia del 10 per cento, che è la media Ue.
I giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (i cosiddetti NEET) dopo alcuni anni in diminuzione, nel 2020 sono tornati a crescere fino al 23,9 per cento, oltre due punti percentuali in più rispetto all’anno precedente, il “roseo” 2019. Il 62,6 per cento degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha almeno un diploma superiore o un attestato equipollente. Ma anche sull’istruzione superiore siamo ben lontani dalla media europea che è del 79 per cento: 16 punti percentuali in meno. Si registrano percentuali più basse solo a Malta e in Portogallo. Migliora, anche se lievemente, il dato sui laureati, che in ogni caso resta disastroso: solo 7,6 ragazze ogni 100 e 5,2 ragazzi ogni 100 è riuscito a conseguire una laurea nell’anno 2018, seguendo un trend di crescita negli ultimi 5 anni che ha riguardato entrambi i generi. Se le donne sembrano avere più facilità a laurearsi, il divario di genere rimane ancora pesante rispetto alle scelte, perché le laureate nelle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, fisica, statistica, informatica, matematica, architettura) sono la metà rispetto agli uomini, allontanandosi così dai settori dove, almeno secondo le previsioni del World Economic Forum , si concentreranno le offerte di lavoro nelle professioni emergenti entro il 2025. Cioè le professioni della tanto invocata transizione climatica e tecnologica.
C’è da aggiungere infine una nota che la dice lunga sulle conseguenze dei mancati investimenti in università e ricerca, oltre che sull’esito delle ultime riforme. Il livello di istruzione terziaria italiano è il più basso a livello europeo in termini qualitativi, in base alle analisi PIAAC, il programma internazionale di valutazione delle competenze. In sostanza, dice PIAAC, per competenze linguistiche le nostre lauree equivalgono in molte discipline a un diploma di secondo livello nei paesi con livelli di istruzione più avanzati come Australia, Giappone, Paesi Bassi, Finlandia. Eppure l’offerta lavorativa in Italia è così povera che il fenomeno dell’over-skilling, quando le competenze sono superiori alle mansioni proposte, riguarda il 12 per cento della forza lavoro disponibile. Mentre il fenomeno opposto dell’under-skilling riguarda ancora il 6,4 per cento della popolazione attiva, il secondo valore più elevato dei paesi più industrializzati presi i esame. I posti di lavoro dove in Italia è richiesta una laurea sono la metà di quelli proposti in Spagna, il secondo paese dopo l’Italia ad aver ricevuto più finanziamenti con il Recovery Fund europeo proprio con l’obiettivo generale di uscire dalla pandemia e dalla crisi con una trasformazione produttiva e una società più equa e coesa. C’è solo da sperare che la formazione, tangenziale a tutti gli obiettivi del Next Generation Eu, non finisca in fondo alla lista delle riforme da implementare per il governo Draghi.
In ogni caso Palazzo Chigi avrebbe uno strumento adatto per una programmazione più rispondente: gli indicatori di benessere, appunto. Peccato che, come ha riconosciuto il ministro Enrico Giovannini – lo stesso che da presidente Istat nel 2016 li ha elaborati perché fossero inseriti nella strumentazione delle leggi di bilancio – gli indicatori BES “siano rimasti un allegato senza un vero impatto politico”. Giovannini, che in questo momento come ministro della Transizione ecologica si trova in mano dossier scottanti come Alitalia, Stellantis o il ritorno di fiamma per il ponte sullo Stretto di Messina, a proposito degli indicatori di benessere ha auspicato che “venga rivista la procedura” degli atti programmatori del governo e addirittura che, per agevolare questo passaggio, venga inserita il diritto a uno sviluppo economico e sociale sostenibile all’interno della Costituzione.
O magari non si deve aspettare l’ennesima riforma costituzionale. Magari basta valutare i molti bisogni sociali e collettivi rimasti inevasi, che il peggioramento della qualità della vita segnalato dagli indicatori Bes confermano, come è stato sottolineato nella videoconferenza del 18 marzo organizzata dal sito Collettiva della Cgil, con la partecipazione del segretario generale Maurizio Landini, del ministro del Lavoro Andrea Orlando e, tra gli altri, dai collaboratori nei Sbilanciamoci! Dario Guarascio e Martino Mazzonis.