Come è stata costruita l’egemonia culturale e politica neoliberista? Come funzionano le gerarchie del capitalismo mondiale? La storia e la geografia del potere al tempo del neoliberismo sono esplorate nel libro di Marco d’Eramo ‘Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi’ (Feltrinelli).
Marco, il figlio di Luce D’Eramo è piovuto nella mia vita dal secondo piano di Via Tomacelli 146 (almeno ricordo così) dove lavorava a Mondoperaio, il mensile socialista, arrivando fin dentro al rinomato quinto piano del manifesto. Sapevo che aveva studiato fisica alla famosa Sapienza romana e poi sociologia con Bourdieu alla Sorbona. Pintor che aveva momentaneamente ripreso in mano il mani lo mise a capo di una pagina, la tre, intitolata all’Economia internazionale. Anticipare l’economia rispetto all’abitudininarie, solite cronache, politiche, pettegole nelle prime pagine degli altri quotidiani, questo l’intento; non solo, ma l’insistere con i compagni lettori che il capitalismo era uno solo e certamente internazionale era un impegno e un vanto per il quotidiano comunista. Oltre al capitano, Marco, la pagina tre aveva un unico soldato, ed ero io. Da un lato Valentino, direttore operativo del quinto piano, mi disse subito che mi pagava un mezzo tempo, ma beninteso per lavorare a tempo pieno. Marco dal canto suo aggiunse che doveva partire, subito, e per almeno tre mesi, verso la Germania, per un’inchiesta sulle grandi imprese tedesche che avevano fatto la guerra, spesso servendosi di schiavi nei “campi”; ed erano state sì denazificate, ma troppo spesso erano rimasti in attività Konzerne più grandi di prima. Mi lasciava un consiglio, di contare su Angela Pascucci che si occupava d’altro nel giornale e la promessa di un aiuto, un giovanotto, uno sconosciuto, immigrato di ritorno, che sarebbe arrivato dalla London School of Economics, tal Mario Pianta. Ancora non l’avevo capito, ma i paradossi, i colpi di scena, i salti mortali, semplici e doppi salti mortali per confondere e lasciare a bocca aperta gli interlocutori – per esempio i lettori – sono tra le spezie che arricchiscono la cucina di Marco.
Esaurita la leggenda, veniamo alla storia. La storia è quella della guerra continua tra ricchi e poveri, capitalisti contro proletari come si diceva nel millennio che è finito vent’anni fa. “Roba nuova”, direte voi, ironicamente. Tutti sanno che la guerra è stravinta dai ricchi. “Dominio“, l’ultimo libro di Marco d’Eramo, è però la storia di come sono andate le cose e perché hanno vinto loro e abbiamo perso noi. Una storia che ancora non c’era, in questi termini scientifici e approfonditi. Noi siamo l’intera popolazione mondiale di tutti i continenti e di tutti i colori: setto od otto miliardi di persone; loro sono i padroni, quelli che decidono ciò che gli altri devono o non devono fare e pensare, se vogliono sopravvivere. Ma non c’è l’internazionale dei padroni, il culmine segreto, una gigantesca Bilderberg a dare la linea, o così via. Loro sanno tutto, imparano il da farsi nelle università, nelle apposite accademie, nei centri di ricerca. Soprattutto è in quei posti esclusivi che selezionano le persone adatte e le adatte teorie.
Va chiarito che la capitale dei capitali è, per Marco, l’America, Wall Street e dintorni; mentre i vecchi imperi, Parigi, Londra, Tokyo, Mosca, sono fuori gioco; Bruxelles, l’Europa attuale, poi, conta pochissimo; nuovi arrivi – Africa, Asia, America latina – non se ne vedono; anche l’impero cinese vale solo per il futuro. Oggi è oggi; domani non è ancora arrivato. Ma non è una ripetizione aggiornata di un qualche Superimperialismo alla Kautsky.
Qui sono spiegate le tecniche della lunga presa del potere. “Dominio” spiega che è in errore chi crede ancora nel proletariato che spezza le catene e attacca il dominio dei capitalisti, dei proprietari, dei padroni della terra. Vero è proprio l’opposto: le masse sono sconfitte, per secoli, e in modo irrimediabile. C’è qualche suggerimento, verso gli ultimi capitoli del libro – duecento e più pagine, assai fitte, piene di insegnamenti e di vere e proprie sorprese – come quello di leggere finalmente tutto Machiavelli per cominciare a ribellarsi contro il dominio oppressivo, o l’altro di rifiutare una volta e per sempre la neolingua orwelliana che usiamo per parlare, per scrivere, per pensare. Programmi di difficile realizzazione, ma generosi e sinceri. Come anche di ricordare in ogni momento di essere tutti controllati, sempre e comunque, tanto Marco che scrive un gran libro, che io che cerco di recensirlo, dai vari google e facebook e instagram e amazon e così via. Il loro potere autocratico contro il nostro, clandestino o quasi.
Bomba, missili, droni, portaerei, carriarmati sono solo un aspetto della guerra totale e neppure il maggiore; conta molto di più l’ideologia. L’ideologia è insegnata sorprendentemente nelle principali scuole americane: Harvard, Yale, Princeton e così via. I maestri principali sono decine di cosiddetti premi Nobel dell’economia che insegnano tutti le stesse verità, in buona misura assemblate in centri di riflessione e ricerca esclusivi e protetti, ben noti e stimati nel mondo dei veri ricchi. Nota d’Eramo, di passaggio, che quelli onorati dal premio sono tutti sedicenti Nobel, perché l’inventore della dinamite non ha mai pensato a essi, non ha lasciato nulla per gli economisti che considerava privi di meriti, senza benemerenze da vantare nei confronti della società futura che sentiva di aver tanto offeso con la sua arma di massima distruzione e voleva risarcire; non “candidati” da lui, essi sono nominati con scelte, regole e denari propri dalla Banca statale di Svezia.
A tenere il contatto tra ideologia e facoltà universitarie infestate dai finti premi Nobel sono le Fondazioni. Le Fondazioni sono erette dai grandi nomi dell’industria e della finanza americani che buttano sul tavolo miliardi di dollari; non finanziano solo, secondo tradizione, biblioteche, sale da concerto e musei per sfuggire alla tassa sul reddito e ai rimorsi, ma cominciano a giocare la partita direttamente, là dove le idee si formano, quelle buone; e le altre, pericolose, vengono accantonate. Le nuove Fondazioni finanziano professori e studenti, ricerche e carriere e dunque indirizzano il retto pensiero e ostacolano di fatto il resto. Le Fondazioni, tutte in mano a facoltosi miliardari scelgono nei fatti gli insegnamenti e i corsi, e di conseguenza rettori e direttori di istituto e a scendere, professori, borsisti, studenti meritevoli. Tutto comincia quando un importante industriale, Olin, che produce la chimica “caustica” e le armi Winchester e ha già una Fondazione, vede un filmato nel quale un gruppo di giovani sbandati di colore assale con armi improvvisate e bottiglie e si impadronisce della sua università, la Cornell. Olin decide di rimettere le cose a posto. Ben presto Olin ha successo e si allineano grandi nomi americani come i famosi fratelli Koch che hanno dato luogo al movimento del Tea Party ai tempi di Obama, e ora sono stati i sostenitori di Donald Trump, puntando svariati milioni sulla sua riuscita. Costoro finanziano gli studi universitari con intenzioni precise, molto più mirate delle tranquille Fondazioni dei vecchi tempi come la Rockefeller e la Ford. D’Eramo affida a un generale molto noto anche nelle nostre periferie, il generale dei marines Petreus, una grande responsabilità. Petreus ha scritto un libro per spiegare che l’ideologia è un’arma decisiva e la narrativa l’accompagna necessariamente: “La più importante forma culturale da capire per le forze Coin (che qui significa counterinsurgency, non grandi magazzini) è la narrativa… “. Petreus probabilmente non sa che l’ideologia di lotta nasce dal pensiero di un famoso filosofo marxista, Althusser. Per uno strano arzigogolo della storia, Altuhsser ha inteso molti decenni prima quale sia la forza della ideologia, anzi il fatto che anche non volendo la si “respira”.
Uno dgli insegnamenti principali del sistema che chiameremo Petreus (ma d’Eramo indica molti altri autori e ricerche e libri per riferire puntualmente dei percorsi che portavano al risultato sicuro applicato alle Fondazioni e di lì ai Nobel e al derivato insegnamento dell’economia nelle più rinomate facoltà) è quello dello stato frugale, o per dirla con uno slogan più esplicito che arrivi diritto al cuore di ogni scelta politica, accademica, sociale, che espliciti il compito di “starve the beast”, affamare la bestia; spiegando che la bestia è lo Stato e naturalmente anche le sue spese in welfare. Il principio era ed è quello di togliere tutto il possibile allo Stato, lasciandogli solo, per ora, un po’ di responsabilità nell’ordine pubblico e contemporaneamente tagliare il welfare gradito o preteso dalle popolazioni in termini di sanità, istruzione, pensioni e tutti gi altri benefici tipici di uno Stato forte e benamato. Vi è poi un altro principio basilare nella guerra dei ricchi contro i poveri, e questa volta si tratta di un insegnamento che è entrato anche nel pensiero e nel linguaggio di chi crede di essere indipendente e contrario alla disciplina preminente nelle maggiori università americane; anche al di fuori di quegli ambienti si ragiona in termini di capitale umano, senza riflettere su quel che vuol effettivamente intendere. In ultima analisi per capitale umano s’intende il valore di ciascun umano: quello che sa e che fa e che è in grado di vendere sul mercato. Sul mercato si presentano dunque, nella nuova prospettiva, due capitalisti: uno, il solito, che compra forza-lavoro e un altro capitalista che vende la forza lavoro che possiede e mette su mercato. Due sul mercato; nel ‘Dominio’ spiegato da d’Eramo non vi sono vere differenze tra l’uno e l’altro, entrambi curano il proprio interesse individuale, senza che si frappongano coalizioni di ogni tipo, per esempio un sindacato, un partito. Non ci sono differenze: tanto l’uno che l’altro, tanto il padrone che l’operaio, o il commesso, o il bracciante, possono andarsene se trovano di meglio. Ed è inutile pensare che nella vita vera le cose non stanno proprio così.
Ma facciamo nostra una delle ultime pensate di Marco: “Ecco, Machiavelli l’ha detto: ‘le buone leggi nascono dai tumulti'”. Un lavoro titanico ci attende: imparare come si fanno i tumulti. “Ma ricordiamoci che nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto, proprio come noi ora”.