Si chiamano “compensazioni” o “carbon emissioni offsetting”. Sono un modo truffaldino con cui multinazionali come Eni si spacciano come impegnate per l’ambiente e le foreste. Un rapporto Greenpeace-Re:Common ne svela i meccanismi.
Greenpeace e Re:Common hanno recentemente pubblicato un rapporto dal titolo “Cosa si nasconde dietro l’interesse di Eni per le foreste?”, in cui si affronta il tema dei meccanismi cosiddetti di carbon emission offsetting (“compensazione” delle emissioni di carbonio). La lettura di questo breve rapporto (18 pagine, in buona parte occupate da immagini e fotografie) sarà molto utile a chiunque voglia farsi un’idea di questo tema di grande attualità e rilevanza poco noto al grande pubblico, e di come la lotta ai cambiamenti climatici entri nel grande gioco dell’economia globale.
Il ricorso all’offsetting, adottato da Eni e altre multinazionali dei combustibili fossili, in estrema sintesi, farebbe sì che “per ogni emissione generata dalle attività dell’azienda, nel suo bilancio risulterà che si è evitata un’emissione altrove, o che una certa quantità di anidride carbonica è stata catturata dall’atmosfera”.
È bene precisare che Greenpeace e Re:Common non si affidano a fonti d’informazione apologetiche dei meccanismi in questione (per la maggior parte delle quali si potrebbe porre la questione del conflitto d’interesse), ma – oltre che alla stessa Eni – si servono di fonti indipendenti e autorevoli, come il World Rainforest Movement , che raccoglie una miriade di voci presenti “sui luoghi del delitto”, e la Heinrich-Boell Stiftung.
La prima considerazione, cruciale ma forse non abbastanza enfatizzata nel rapporto, è che al fine della compensazione, Eni non considera “emissione generata dalle attività dell’azienda” quella derivante dalla combustione degli idrocarburi che essa estrae, quanto piuttosto solo quella dovuta alle operazioni di estrazione, trasporto, ecc. direttamente svolte dall’azienda. Il rapporto tra le due quantità è evidentemente infimo. D’altro canto, così come si sostiene che chi produce armamenti non sia da considerare responsabile dell’uso degli stessi, chi estrae gas naturale non può essere considerato responsabile del fatto che poi questo venga bruciato. Non sembra quindi esservi motivo perché Eni sposti il proprio core business dall’estrazione – per esempio – alle energie rinnovabili. Infatti Eni non prevede nulla del genere. E questo a maggior ragione ove si possano considerare “compensate” le emissioni immediatamente derivanti dalle attività dell’azienda.
Il rapporto porta il lettore, senza quasi che se ne accorga, a ricalibrare la percezione degli stessi termini di fondo della questione “compensazioni”. Emerge sempre più distintamente man mano che si procede nella lettura come determinate assunzioni di fondo, essenziali per la determinazione delle emissioni da considerare compensate dai progetti di offsetting, abbiano un profondo contenuto politico. Infatti di compensazione si può parlare solo in relazione a uno scenario di riferimento, la cui scelta modifica sostanzialmente i risultati e rende tutt’altro che asettici gli esercizi di contabilizzazione dei flussi di carbonio.
La compensazione può avvenire attraverso il Carbon Capture and Storage (CCS), cioè attraverso l’iniezione nelle viscere della Terra di un gas (la CO2) diverso da ciò che, liquido o gassoso, viene da esse estratto. Questa idea, che la CO2 pompata sotto terra starà lì senza fare danni per i millenni a venire, è controversa sin dalla nascita, ma non presenta trucchi sul piano della contabilità del carbonio: un atomo emetto, uno lo immagazzino. Se consideriamo il solo carbonio nulla di nuovo rimane in atmosfera per via delle mie operazioni. Peccato che rimanga in superficie pronto per essere spostato nell’atmosfera una volta bruciato tutto l’altro carbonio estratto.
Un trattamento contabile arbitrario e tendenzioso è invece possibile per qualcosa di esotico, lontano, un po’ astruso, come la conservazione delle foreste. Questo strumento di offsetting “si fonda sull’idea, erronea, che il danno climatico causato dal rilascio di carbonio rimasto immagazzinato per milioni di anni in depositi sotterranei possa essere compensato aggiungendo carbonio ai depositi in superficie (cioè, per esempio, a una foresta)”. Ai fini del clima in effetti i due “serbatoi” di carbonio (i giacimenti e le foreste) non sono affatto equivalenti. Questo è spiegato bene nel rapporto e basterà qui aggiungere un invito a leggere o rileggere il racconto Carbonio de Il sistema periodico di Primo Levi e a meditare sulla differenza tra un atomo di carbonio che giace nella roccia o sotto di essa, partecipando a cicli geologici, e un atomo di carbonio che va in giro per il pianeta, partecipando a cicli biologici.
Ma non è qui la truffa contabile, perché i due depositi potrebbero essere equivalenti da un punto di vista meramente contabile, di quantificazione del carbonio presente in ogni dato momento nell’atmosfera. La truffa si svela solo quando ci si pone la domanda: cosa si deve intendere per “aggiungere carbonio ai depositi in superficie?”. “Aggiungere” rispetto a quale situazione di riferimento? A quella data in un determinato istante? A uno scenario di accrescimento naturale indisturbato delle foreste, o a una ipotesi di taglio e degrado per cause antropiche?
È probabile che il lettore, posto dinanzi a questa domanda veda come i risultati di ogni contabilizzazione dipenderanno in maniera cruciale da una scelta che è del tutto arbitraria e di natura sostanzialmente politica. Se è così, non si stupirà del fatto che i progetti dai quali Eni (come molte altre multinazionali, beninteso) comprerà quote di emissioni negative di carbonio per “compensare” le proprie sono principalmente progetti di conservazione delle foreste. In tali progetti viene stimata la quantità di emissioni che si verificherebbe in assenza del progetto, a causa del taglio e del degrado che si suppone avrebbero luogo per cause antropiche, oltre a quella del carbonio che viene fissato dalle piante “salvate”. È a fronte di queste emissioni evitate e di questi assorbimenti “permessi” dal progetto, che viene concessa ai suoi sottoscrittori una pari quantità di permessi (negoziabili) di non evitare emissioni.
La scelta politica (eccola!) che consente l’inserimento nei conti ambientali dell’azienda di una certa quantità negativa di emissioni di carbonio, è dunque quella di considerare “aggiunto ai depositi in superficie” carbonio la cui emissione viene evitata grazie alla conservazione delle foreste. Il fatto che non vi sia alcun motivo oggettivo per cui le emissioni evitate debbano essere considerate come emissioni negative (al pari del CCS), compensabili da altre emissioni, positive, non appare sufficientemente messo a fuoco neppure nel rapporto qui recensito. Questo riporta invece come sia in molti casi dubbio il metodo con cui vengono fatte le stime delle emissioni evitate, evidenziando come il dubbio sia sempre – guarda caso – che i permessi di emissione (le “compensazioni”) venduti da tali progetti a imprese come Eni siano in eccesso rispetto alle emissioni effettivamente evitate, cioè che la previsione di deforestazione o degrado della foresta in assenza del progetto sia esagerata.
Ma se si guarda alla questione con occhio scevro da pregiudizi, si vede che ben più importante è la considerazione dell’inesistenza di una situazione di riferimento oggettiva, di uno “zero naturale” al quale si possa “apoliticamente” rapportare la situazione effettiva, per dire quanto carbonio sia effettivamente aggiunto ai depositi in superficie. La scelta dello scenario di riferimento è una scelta politica a tutti gli effetti, alla quale l’imparzialità della contabilità è applicabile come a qualunque altra scelta. Perché non dovrebbe essere presa a riferimento la situazione con il progetto, anziché quella senza?
La conservazione è cosa sicuramente di per sé encomiabile, ma che ad essa corrisponda una riduzione delle emissioni in quanto essa evita emissioni è quanto meno discutibile. La foglia di fico della presunta neutralità apolitica e oggettività del contabile cade là dove questi piazza lo zero. Taglio e degrado delle foreste sono importanti cause di emissione, ma evitare che una foresta venga tagliata o degradata, equivale davvero a ridurre le emissioni? Se preesistesse un diritto a produrre emissioni deforestando, allora si potrebbe dire di sì. Ma se un tale diritto non preesiste, perché l’evitare quelle emissioni dovrebbe dare diritto a qualcuno di emettere in altro modo? E soprattutto per quale motivo tale diritto, sottratto alle popolazioni indigene dovrebbe essere trasferito alle multinazionali? In questo trasferimento di diritti si può ravvisare il senso più profondo dell’operazione offsetting. Nel rapporto non mancano gli accenni ai lati più oscuri della faccenda: l’accaparramento della terra (land grabbing) e i diritti violati di comunità locali e popoli indigeni che “vengono rappresentati come una minaccia per la biodiversità, nonostante siano spesso proprio loro a difendere le foreste dagli attacchi della grande industria estrattiva e agro-alimentare, anche a costo della loro stessa vita” (per approfondimenti si veda il sito dedicato del Wwf ).
Greta Thunberg, nel discorso tenuto alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima, svoltasi a Madrid nel dicembre 2019, qualificò come “furbetta” la contabilità sulla quale certi paesi basano i propri impegni di riduzione delle emissioni climalteranti. Greenpeace e Re:common ci aiutano a svelarne una variante privata. Altre ne esistono, come ad esempio quelle legate all’utilizzo di metriche monetarie per esprimere “il vero valore” dell’ambiente e della sua protezione. Si tratta evidentemente di un ossimoro, la cui trasformazione in conto è costellata di trappole e arbitrarietà tra bellissime dichiarazioni d’intento e oscure procedure contabili. Un esempio di queste metodologie è il “True Value” della Kpmg, la cui applicazione porta – sempre a titolo esemplificativo – il secondo produttore di cemento dell’India, la Ambuja Cement Company, a considerare valore aggiuntivo delle proprie attività, da sommare a quello del valore di mercato dei suoi prodotti, il risparmio dei costi di discarica realizzato grazie al riciclaggio.
Un altro potrebbe essere ravvisato nei capitoli relativi alle valutazioni monetarie del volume dei “conti dell’ecosistema” recentemente licenziato dalla divisione statistica delle Nazioni Unite, il per i quali il mancato riconoscimento dello status di “standard statistico” è stato oggetto di polemica anche sulla prestigiosissima rivista Nature. Ma qui il discorso rischia di allargarsi a macchia d’olio. Due conclusioni, ad ogni modo, sono chiare: una è che, come per altre forme di contabilità truffaldina, c’è nelle derive metodologiche qui segnalate il tentativo o il rischio (a seconda dei casi) di nascondere un fallimento, nella fattispecie quello del modello di economia fondato sull’energia fossile e sul consumo bulimico di risorse ambientali. L’altra è che di attività come quelle di Eni e delle altre multinazionali del petrolio e del gas, fallimentari per il pianeta (ma non per gli azionisti, e questo è certamente un corno del problema ), andrebbe semplicemente pianificata l’eutanasia, nell’ambito di un non più rimandabile cambiamento radicale del modello di sviluppo.