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Europa sull’orlo di una crisi di batterie

C’è molta apprensione a Bruxelles sulla dipendenza attuale e futura dalla Cina per l’approvvigionamento di materiali critici e strategici come le terre rare, necessari per la transizione ecologica e digitale. Si dovrebbe investire sul riciclo. L’Italia, già al top nell’utilizzo, non ha alcun impianto in gestazione, neanche nel Pnrr.

La  neutralità climatica, la decarbonizzazione, la transizione energetica e digitale, l’economia circolare: sono questi gli obiettivi che l’Europa si è data di fronte al rischio esistenziale per l’umanità dell’Antropocene. Hanno ispirato il Green Deal, il RePower Eu, NextGeneration Eu (tradotto nel nostro Pnrr) a cavallo dei primi anni Venti di questo secolo. 

Dopo la pandemia e in mezzo alla guerra in Ucraina però l’orizzonte è cambiato e ora rimanere campioni dell’Accordo di Parigi per i paesi dell’Unione europea nella pratica si sta dimostrando sempre più difficile. La dipendenza dalla Cina sulle materie prime strategiche e l’enorme investimento degli Stati Uniti per continuare a primeggiare economicamente nel mondo occidentale hanno messo in ginocchio i sogni di grandezza ecologici europei in particolare nell’industria dell’auto elettrica e nelle batterie.

Nel mese di giugno del 2023 una grande frenesia ha preso a serpeggiare a Bruxelles, Parigi, Berlino. Si sono moltiplicati i rapporti sulle criticità, le dipendenze e i colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento, si sono accavallate previsioni funeste e inviti a far presto, a riaprire miniere in disuso e a fare accordi bilaterali con paesi fornitori, si sono tentati sforzi persino ridondanti di rilanciare il ruolo di leadership sui Goals dell’Agenda Onu 2030 come nel caso del vertice Focus 2030 convocato a Parigi dal presidente Emmanuel Macron il 22 giugno, al quale sono stati chiamati a partecipare anche il cancelliere Olaf Scholz e il presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva ma, come al solito, senza nessuna pompa magna riservata alla premier italiana Giorgia Meloni. Obiettivi dichiarati del summit parigino erano: occuparsi del debito e ripristinare lo spazio fiscale per i paesi in difficoltà a breve termine, promuovere lo sviluppo del settore privato nell’economia della transizione, incoraggiare gli investimenti in infrastrutture “verdi” e mobilitare finanziamenti innovativi. Niente di significativo è stato partorito dalla due giorni di incontri per mettere in asse gli interessi del Nord e del Sud del mondo all’ombra della Francia e avvicinarci al cosiddetto Global Gataway, cioè alla diversificazione delle fonti di materie prime per evitare dipendenze come nel caso della Russia con gas e petrolio, ma c’è da essere sicuri che nei corridoi, nelle salette appartate e nei boudoir si siano stretti accordi e relazioni tra consulenti di imprese, incaricati d’affari e rappresentanti di paesi in via di sviluppo con miniere di materie prime interessanti e strategiche per l’economia “green”. 

Soltanto pochi mesi prima del summit nella capitale francese, tra marzo e aprile, la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha approvato e reso pubblico il Critical Raw Materials Act – un pacchetto di misure per rendere l’Europa dei 27 più indipendente per tutte le forniture di materiali critici e strategici, aggiornandone l’elenco, una normativa e un regolamento che in autunno dovranno passare il vaglio del Parlamento di Strasburgo e del Consiglio europeo.  

Pochi giorni dopo il vertice di Macron, il 26 giugno, a Berlino, è stato siglato un accordo a tre – Francia, Germania e anche la negletta Italia questa volta – per definire regole di cooperazione sull’approvvigionamento di materie critiche essenziali all’industria del futuro. O meglio per definire «obiettivi di estrazione, lavorazione e riciclaggio delle materie prime strategiche e critiche in Europa», per sviluppare «ambiziosi criteri ambientali, sociali e di governance (Esg)», ed estendere gli «elenchi» dei materiali critici in particolare includendo l’alluminio.

Cosa bolle in pentola

Negli studi previsionali europei più recenti, ai quali hanno partecipato anche ricercatori dell’Enea e del Cnr, si fa presente che “l’Unione europea è completamente dipendente dalle importazioni dalla Cina per il fotovoltaico, tecnologia chiave per il piano RePower Eu”, in quanto è la Cina che produce il 97 per cento dei wafer solari avanzati. Non solo, l’Europa dipende integralmente dall’import per 11 delle 34 materie prime critiche da paesi terzi per produzioni che rappresentano il 23 per cento del Pil europeo. E il primo fornitore della Ue, per il 56 per cento del totale, è sempre la Cina. Se per qualche motivo geopolitico il governo di Pechino volesse vietare le esportazioni, l’Europa rimarrebbe al buio per quanto riguarda gran parte dei pannelli che si propone di installare, per non parlare dell’industria dell’auto. 

Non va affatto meglio ai magneti permanenti, che sono la parte fondamentale per fornire energia al rotore di motori elettrici e turbine. Per averne con alte prestazioni è necessario l’utilizzo le terre rare, in particolare neodimio e disprosio. Si calcola che nel 2030 di queste terre rare ne serviranno cinque o sei volte tante quelle che utilizziamo adesso. E la Cina ne ha praticamente il monopolio, tra estrazione e trasformazione. 

Con il litio, il cobalto e la grafite siamo sempre lì. Anche nel caso si dovessero sviluppare celermente batterie di nuova generazione con un ridotto utilizzo del cobalto a favore di altri materiali di più facile reperimento in paesi terzi, gli scienziati prevedono che nei prossimo due decenni il litio resterà essenziale. Secondo uno studio dell’AIE, l’Agenzia internazionale per l’Energia, la domanda di litio aumenterà di 42 volte dagli anni Venti agli anni Quaranta di questo secolo e l’utilizzo di terre rare dovrebbe aumentare parallelamente di sette volte. E le terre rare dipendono per ora al cento per cento dai siti di estrazione e lavorazione cinesi.

La Cina, del resto, ha iniziato a sviluppare l’estrazione e la produzione di terre rare – che servono anche per tutti gli apparecchi elettronici, dai computer ai televisori ai telefonini – dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, in epoca Deng. Si deve infatti al presidente Deng Xiaoping la storica frase: “Il Medioriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”. La Cina con innegabile lungimiranza in effetti da allora ha iniziato ad estrarne nella Mongolia Interna ma anche, negli anni a seguire, sia direttamente sia tramite acquisizioni, in California, Groenlandia, Madagascar, in quest’ultimo paese – il più povero del mondo – senza nessuna preoccupazione di impatto ambientale. E attraverso il monopolio acquisito comunque ne determina il prezzo sul mercato. 

Secondo Annemie Turtelboom, a capo della Corte dei Conti europea che si è espressa con un audit dal titolo “Un nuovo slancio strategico è necessario” lo scorso 19 giugno, se la Cina continuerà a produrre il 76 per cento delle batterie, questa dipendenza dell’industria europea, a seconda delle strozzature geopolitiche, può mettere a rischio il divieto di commercializzazione dei motori a scoppio nel 2035, uno degli obiettivi dall’Unione europea.

Il problema del riciclo

Negli Stati Uniti il problema dell’approvvigionamento dei materiali critici come le terre rare è stato affrontato “di petto” già da qualche anno. Non solo aumentando le capacità estrattive ma anche cercando di ricavare questi minerali fondamentali da fonti secondarie. Separare le terre rare pesanti dai detriti è però un processo complicato e costoso. Negli Usa esiste già, al contrario che in Europa, un’Agenzia statale che si occupa specificamente del problema la Us Rare Earths e a dirigerla è Mike Pompeo, l’ex Segretario di Stato di Donald Trump.

Con tutto ciò, al momento esiste solo una azienda in California, a Montain Pass, ad avere un progetto operativo di riciclo delle terre rare dai prodotti esausti. La stessa Annemie Turtelboom ha spiegato che “il riciclo potrebbe essere la pallottola d’argento” visto che raggiungere i target fissati dal Critical Raw Materials Act significherebbe 17 mila tonnellate di materie prime critiche. Perché questa strategia divenga però effettiva, ha avvertito, “serviranno altri 20 o 30 anni”. Il riciclo, ha spiegato, non è ancora una soluzione di indipendenza. Il motivo essenziale è che serve abbastanza materiale da riciclare perché sia il costoso processo sia conveniente e quindi serve un volume sufficientemente grande batterie usate da avviare ad un secondo ciclo. Nel 2021 è arrivato l’Inflaction Reduction Act di Biden, un gigantesco programma di sovvenzioni federali  per concentrare l’estrazione e la raffinazione di materiali critici entro i confini statunitensi o in paesi partner, un programma che sta muovendo imponenti rifocalizzazioni di industrie e anche accordi riservati di libero scambio con Cile, Australia e un’altra ventina di paesi per rifornire l’industria statunitense di litio, manganese, vanadio, nichel e altri minerali strategici. 

L’Italia all’apice del paradosso

Spulciando le carte si scopre che il Belpaese, per motivi non del tutto noti, è il primo della lista per crescita della produzione industriale sostenuta da materie prime critiche (tasso del 35% mentre la media Ue è al 22% e la Germania al 9%). Quindi il sistema industriale italiano è quello che sta accelerando maggiormente nel lasso di tempo dal 2012 al 2021 nell’utilizzo di questi elementi di importazione nella produzione industriale. Le materie prime critiche contribuiscono al 38 per cento del nostro Pil (pari a un valore di 686 miliardi di euro), siamo in cima alla lista del 2021 come paese utilizzatore, seguiti da Danimarca, Germania, Repubblica Ceca e Finlandia. 

L’Italia però è anche il paese dove non esistono impianti in grado di recuperare le materie prime critiche dai prodotti a fine vita. I fondi del Pnrr teoricamente dovrebbero servire ad avviare il riciclo di almeno il 10 per cento del totale, ma al momento non c’è nessun impianto neanche in fase di progettazione. Lo smaltimento dei materiali critici non viene fatto correttamente neanche negli hub attrezzati. Gli italiani del resto non sanno niente delle terre rare, uno su due non le ha neanche mai sentito nominare, secondo lo studio appena presentato da Lorenzo Tavazzi per conto dello Studio Ambrosetti in partnership con il consorzio privato Erion che si occupa di riutilizzo dei materiali secondari. 

Secondo Francesca Pagnanelli, docente di analisi e controllo dei processi chimici all’Università La Sapienza di Roma, specializzata in nanotecnologie industriali e direttrice del centro di ricerca inter universitario High Tech Recycling, è possibile che il grande utilizzo di terre rare in Italia non provenga tanto dall’industria aerospaziale o bellica di precisione quanto piuttosto dalle tante piccole e medie imprese che producono elettronica fine. In ogni caso il riciclo a suo dire non è partito essenzialmente perché “si tratta di un settore ad altissimo rischio, nel quale è difficile che i privati investano senza una regia, dei finanziamenti o degli incentivi statali”. Servono infatti grandi capitali iniziali e non è detto che la raccolta di “materiale secondo” ci sia e sia con volumi sufficienti. Inoltre, spiega, i prezzi dei materiali critici, in special modo le terre rare, sono molto volatili perché se la Cina decide di immettere grandi quantità sul mercato, i prezzi si possono ridurre molto e i margini di profitto potrebbero quindi crollare di colpo. 

La professoressa certifica che il riciclo dei componenti in Italia è fermo agli elementi in ferro o in rame mentre nessuno utilizza un processo chimico, necessario per separare dai componenti le terre rare. Neanche nell’unico hub per le batterie compartecipato dalla FAAM. 

Pannelli spiega che anche solo il trasporto delle batterie da riciclare, nell’attuale dedalo delle normative europee, è un incubo: “Le batterie e tutti i loro componenti al momento sono classificati come rifiuti pericolosi, incluse le polveri, e ciò comporta costi esorbitanti di spedizione. È chiaro che servono accortezze perché le batterie a ioni di litio possono esplodere, mentre con le terre rare i trasporti sono meno rischiosi. Alcune frazioni di rifiuto potrebbero però essere declassificate come materia prima secondaria, invece non esiste una aggiornata schedatura delle parti del rifiuto”. 

Questo mancato aggiornamento della classificazione produce complicazioni anche paradossali, al limite del ridicolo. “Abbiamo – racconta – un piccolo impianto pilota di riciclo delle batterie a ioni di litio e di pannelli fotovoltaici con Seval a Colico. Al momento dell’avvio ci hanno chiesto il codice CER del litio metallico. Siamo rimasti a dir poco sorpresi, diciamo pure con un palmo di naso, perché il litio metallico non c’è proprio, noi trattiamo il litio ione, non il litio metallico. Tra l’altro se anche ci fosse il litio metallo, che non c’è, aprendo la batteria, al contatto con l’aria, si ossiderebbe”. Questo paradosso non dipende dall’Italia, l’intoppo burocratico è una conseguenza diretta del difetto di aggiornamento nella classificazione dei rifiuti a livello europeo. Pagnanelli sostiene che per risolvere incomprensioni tecniche di questo o di altro tipo bisognerebbe rivedere alla base la catena del riciclo: “La transizione non dipende solo dai materiali critici. Il problema – dice – è nei processi produttivi, che devono essere collegati necessariamente con il riciclo”. 

Più si diversificano le tipologie di batterie per le auto, di turbine eoliche o di pannelli fotovoltaici, più diviene fondamentale – sottolinea Pagnanelli – che sia il produttore stesso, che ne conosce tutti i segreti, a riciclarne le componenti più preziose, ottimizzando e chiudendo il processo. Quindi gli hub dovrebbero essere collegati ai centri di produzione. Comunque sia il riciclo dei materiali va fatto, ma resta inimmaginabile per l’Europa essere concorrenziali con la Cina sulle batterie anche attraverso questa strada, almeno nei prossimi venti o trent’anni. Tra l’altro la Amperex Technology Co del gruppo cinese Catl, la più grande produttrice di batterie al mondo, ha già un piano di investimento miliardario per i prossimi sei anni per sviluppare il riciclo dei componenti più preziosi delle batterie EV, dal cobalto al litio, al nichel anche in Nord America e in Europa attraverso partnership con industrie e hub locali. E i contatti sarebbero già a buon punto per impianti di questo tipo in Germania e in Ungheria.

Che fare per la transizione ecologica? 

Stefano Prato, direttore esecutivo della Society for International Development (SID), consulente delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, sostiene che per una effettiva transizione ecologica che argini i danni del cambiamento climatico non servono summit come quello di Macron a Parigi basati sulla finanziarizzazione e sugli incentivi dati ai privati, socializzando i costi. Servirebbe invece “una attenta regolamentazione dei processi produttivi”. Perché è necessario, afferma che “ciò che è legale sia anche sostenibile, insieme, mentre oggi spesso ciò che è legale non è ambientalmente sostenibile”. Per lui parlare di sostenibilità ambientale non ha molto senso se non partendo dal riconoscimento del grande debito ecologico che il Nord del mondo ha nei confronti dei paesi del Sud. “Credere che l’aggiustamento del sistema passi solo per produrre auto elettriche invece che con motore a combustione interna è l’ennesima schermata di fumo, bisogna invece cambiare modello di sviluppo. Non si guarisce dai mali del neoliberismo con più neoliberismo. Non ha senso pensare di mettere mano ai problemi del riscaldamento globale se non cambia l’estrattivismo neocoloniale che lo ha generato, non cambia molto se invece del petrolio l’Occidente si fa rifornire di litio o di terre rare con altre devastazioni ambientali”. Anche il problema del debito insostenibile per molti paesi del Sud del mondo, a suo dire, è un problema che deve essere affrontato in questa chiave. 

Alla fine delle interviste sia l’economista della sostenibilità Prato che la ricercatrice dei processi chimici del riciclo Pagnanelli arrivano alla stessa conclusione, sintetizzabile in una domanda di fondo: ha davvero senso costruire così tante auto, anche se elettriche? È questo che ci salverà nel 2050?

Pagnanelli sostiene che “il riciclo è meno dissonante rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi per il pianeta, ma in effetti si tratterebbe piuttosto di ridurre l’utilizzo di risorse non rinnovabili, perché la sostituzione di materiali con altri che sono comunque in esaurimento, la riapertura di miniere, la corsa alle risorse, è sempre consumo, accaparramento. E invece bisognerebbe puntare di più sull’educazione e su altri indicatori di benessere rispetto al prodotto interno lordo. Questa è la chiave della sostenibilità”.