L’esame dei flussi elettorali di questo voto europeo ci restituisce un’Italia segnata da molte linee di frattura, soprattutto centro-periferia. In questa foto la destra meloniana e salviniana non è ancora egemone ma tutto è molto fluido, mentre avanza il temibile disegno del premierato.
Che domenica 9 giugno sia un giorno da segnare nigro lapillo è indubbio. Per l’Italia e per l’Europa. Il giorno delle elezioni in cui le peggiori destre nostrane e continentali possono vantare una legittimazione popolare che la Storia ha negato loro finora. In cui l’onda nera che avevamo visto formarsi e crescere sui confini orientali si è riversata nelle urne non più soltanto dell’Ungheria di Orban o della Polonia dei gemelli Kaczyński, ma della Parigi che fu di Voltaire e dei comunardi e della Berlino di Willy Brandt e della stessa Angela Merkel. Il giorno, ancora, in cui qui da noi Giorgia Meloni, fresca dell’ultimo scandalo Signorelli, ha potuto concludere il proprio trionfale discorso annunciando che “oggi i cittadini ci hanno detto da che parte stanno, e stanno dalla nostra parte”…
Lungi da noi l’intenzione di negare, o anche solo di attenuare, la gravità di quanto accaduto, cercando brandelli di ragioni per consolarci. Quella che si è aperta – nella forma più emblematica in democrazia, attraverso un’elezione – è una ferita non rimarginabile nel breve tempo, per il fatto che rivela un organismo, in Italia e in Europa, profondamente malato, di una malattia subdola, che corrode insieme al tessuto sociale anche le coscienze. E di fronte a questa diagnosi infausta non ci sono premi di consolazione che reggano, né la giaculatoria ripetuta dai media di sistema secondo cui, comunque, a Bruxelles “la maggioranza europeista tiene”, né la constatazione che a Roma, di fronte alla Dama Nera Giorgia c’è comunque una donna forte, Elly, sull’asse PD-AVS… Detto questo, tuttavia, alcune cose, basate sui fatti e sui numeri, è opportuno ricordarle.
Intanto questa: col voto di sabato e domenica Giorgia Meloni detta Giorgia – lei più che il suo partito, in forza dell’estrema personalizzazione impressa alla sua campagna – ha ottenuto un buon risultato, ma non il trionfo che si accredita e che uno stuolo di paggi mediatici s’affolla a conferirle. E’ stata – vogliamo dirla così? – una “vittoria in retromarcia”, con la percentuale del 28% gonfiata dall’astensione record che ha creato il trompe l’oeil di due punti percentuali in più mentre erano oltre seicentomila i voti reali in meno. D’altra parte i conti sono presto fatti, basta consultare il sito del ministero dell’Interno Eligendo: alle politiche del 2022 il partito di Giorgia Meloni aveva preso 7.301.303 voti, due anni più tardi è sceso a 6.704.423. Altri quattrocentomila voti circa mancano all’appello per la Lega, e centocinquantamila per Forza Italia, malamente occultati dall’incorporazione dei Moderati di Lupi, Toti e compagnia che nel 2022 figuravano come lista autonoma e nel ’24 sono stati incorporati sotto l’ombrello di Tajani. In tutto fanno un milione e centomila elettori perduti in meno di un biennio dalla maggioranza di governo tra le nebbie dell’astensione: quel gigantesco esercito di più di 26 milioni di elettori che hanno disertato le urne, quasi dieci milioni in più rispetto a due anni fa, a misurare il grado di crescente sfiducia nel Paese (di cui eravamo stati forse facili ma senz’altro lucidi profeti). Soprattutto a ridimensionare pesantemente la presunta legittimazione che il governo di destra e il partito della sua Presidente si attribuiscono. Se infatti meno di un elettore su due ha partecipato al voto (record assoluto per le elezioni generali in Italia), ciò significa che quel 28% tanto sbandierato si dimezza. Se valutati sulla totalità del corpo elettorale, che sfiora i cinquanta milioni di aventi diritto, quei sei milioni di voti per “Giorgia” rappresentano il 13,4%, all’incirca un ottavo dell’elettorato. E gli undici milioni dell’intera maggioranza ne costituiscono meno di un quarto (per la precisione il 22%). Come a dire che l’egemonia è lontana. E proclamare che “i cittadini stanno dalla nostra parte”, come ha fatto la premier, è una spacconata.
Se poi vogliamo aggiungere qualche altro anticorpo alla depressione, possiamo notare come a questa destra-destra manchino i giovani: al di sotto dei 30 anni FdI prende solo il 14% dei voti (secondo l’elaborazione autorevole di YouTrend) mentre è sovra-rappresentato tra gli ultrasettantenni (altro che Giovinezza Giovinezza) nella cui fascia la maggioranza di governo sfiora il 50%, mentre tra gli under trenta non supera il 29% (in questa fascia d’età AVS-PD-M5S avrebbero da soli la maggioranza del 51%). Come dire che il tempo lavorerebbe per noi, se avessimo tempo… Se non incombesse lo scasso della Costituzione, l’aberrazione del premierato, l’autonomia differenziata… Se l’Italia morente non minacciasse in culla l’Italia che potrebbe essere, riproponendoci il motto marxiano secondo cui le mort saisit le vif…
Né dovremmo dimenticare che questo voto ha, più che in passato, un netto segno territoriale. Ci presenta un’Italia estremamente eterogenea, segnata da molte linee di frattura (i politologi le chiamano cleavages), che non si riducono più solo a quella classica che distingue tra Nord-centro-Sud-Isole (che pure ha pesato, con un’affluenza che al Nord supera, sia pur di poco, il 50% e al sud cade al 43,7 per crollare nelle Isole al 37,2%), ma che portano in primo piano anche l’importante dicotomia centro-periferia, la distanza crescente tra l’Italia “delle
città” e l’Italia “delle province”. La destra – in particolare Fratelli d’Italia, ma in misura evidente anche la Lega – non possiedono l’Italia urbana. Nessuna delle grandi città, esclusa Roma (seppure per un pelo, un punto percentuale o poco più), vede come primo partito FdI: così Milano dove il distacco è di 10 punti (31% il PD – 21 FdI), esattamente come nella Genova epicentro dello scandalo Toti (31% a 21%) mentre nella terza metropoli del vecchio triangolo industriale, Torino, PD batte FdI 46 a 41. A Firenze poi il distacco sale a 15 punti (35 a 20), quasi come a Bologna (40 a 24), mentre a Bari si fa abissale (49 a 21). Non parliamo delle due metropoli meridionali, dove il partito di Giorgia quasi non si vede: a Napoli non va oltre il 13% contro il 26,7% del PD e il 26,6% dei 5Stelle; a Palermo è quarto, al 16,4% dopo 5Stelle, Forza Italia e PD…
Situazione meno netta nelle aree urbane di media grandezza, come i capoluoghi di provincia, ma comunque mediamente in linea con la tendenza a penalizzare “Giorgia”: di alcune realtà si è già ampiamente occupata la cronaca, là dove si votava per la carica di sindaco, come a Bergamo, a Cagliari, a Sassari, a Modena, tutti assegnati al centrosinistra al primo turno a fronte della sola Pescara al centrodestra. Ma più in generale i capoluoghi di provincia sono andati prevalentemente all’opposizione rispetto al governo nazionale, con l’eccezione del Lazio. Tra le province lombarde, per esempio, territori non certo ospitali per le sinistre, in sei capoluoghi su unici il PD è risultato primo partito. In Emilia Romagna il rapporto è di sette a uno (Piacenza). In Toscana di otto a tre (Arezzo, Grosseto, Lucca). In Campania Napoli non è un’eccezione, anche a Salerno, Caserta e Avellino, comuni capoluogo, ha prevalso il PD mentre a Benevento è Stati Uniti d’Europa a fare il pieno.
Ovunque, invece, nel contado – nei comuni della provincia in rapporto ai rispettivi capoluoghi – le posizioni si rovesciano: la destra va sempre meglio, in alcune realtà anche in dimensioni clamorose. I comuni-polvere, per usare un termine introdotto da Aldo Bonomi nelle sue ricerche a base territoriale – sono quasi sempre appannaggio della destra, prima leghista, ora meloniana. Faccio l’esempio di un territorio che mi sta particolarmente a cuore, la Valle Stura, nel Cuneese, perché è stata ottant’anni fa un epicentro della guerra partigiana: nel comune di Argentera (80 abitanti), alta valle, Fratelli d’Italia prende il 60% lasciando il PD al 7%; a Bellino, poco più in là, nella valle accanto (96 abitanti), i post-fascisti fanno il 43%, il PD il 17%; ad Aisone (210 abitanti), media valle, il rapporto è di 36 a 20; a Demonte, dove nel ’44 c’era il comando partigiano, 39 a 21; a Moiola (222 abitanti) 41 a 19. Persino nel comune di Rittana (104 abitanti) – e qui la cosa mi fa particolarmente male perché lì c’è Paraloup, la borgata dove salirono subito dopo l’8 settembre Duccio Galimberti e Livio Bianco e dove combattè anche mio padre -, il partito di La Russa, di Signorelli, del suo patron Lollobrigida, prende il 53%, un altro 20% va alla Lega di Vannacci e solo il 7% al PD… Ma un quadro migliore non viene neppure dalla Val di Susa, altro luogo del cuore per me, sede di un’altra, più recente resistenza, i cui nomi di alcuni suoi comuni restano ben fermi nella mia memoria come simbolo di coraggio civile. Beh, anche quelli hanno in buona misura ceduto allo spirito (maligno) del tempo. Penso a Venaus, alla storica battaglia del 2005, che si è dato a Giorgia con un 26% contro il 18% al PD (e si può comprendere) e il 15 ai 5Stelle un tempo paladini del NO TAV. Penso a Bussoleno, capitale morale della Valle che resiste, col suo vergognosi 24% a FdI, quattro punti più del PD e ben 10 più dei 5Stelle. Penso ad Almese, 26% a 20 e a 12. Penso a Mompantero, eroico fin dal nome, anche qui 23 a 18. E la stessa Susa, la peggiore: 29 a 15!
Potremmo dire che siamo in presenza di un processo di americanizzazione. Di quella trasformazione già in corso da parecchi anni negli Stati Uniti, e visibilissima alla base del successo trumpiano, in forza della quale la dimensione geo-politica o geo-sociale prevale in misura crescente su quella politico-culturale. Un fenomeno in conseguenza del quale il posizionamento territoriale, in particolare sull’asse centro-periferia o su quello velocità-intensità di comunicazione/lentezza-rarefazione interattiva, tende a prevalere su tutti gli altri aspetti, siano essi la storia, le appartenenze politiche, le identità culturali che costituivano invece gli elementi costitutivi delle culture politico-ideologiche novecentesche. Qui, a comandare, è il grado di vicinanza o di distanza da quelli che sono considerati i centri del potere. Il senso di inclusione o, all’opposto, di esclusione che individui spaesati avvertono rispetto ai punti di condensazione del potere, con un evidente rinculo, tra i “distanti”, su atteggiamenti rancoroso-rivendicativi, richieste di protezione e di tutela da parte di “capi” considerati autorevoli, facile resa alla logica del capro-espiatorio, o alle retoriche d’identificazione fittizia come quella dell’underdog, l’affermazione vittimistica da parte di forze in sé aggressive e “cattiviste”, il disprezzo per il civismo considerato élitismo, insomma la paccottiglia dell’ormai noto armamentario populista.
Con questo viluppo perverso di passioni tristi e di appetiti feroci dovremo vedercela ancora a lungo perché è il prodotto non di una sola linea di crisi ma di uno sciame sismico che sta trasformando nel profondo le basi materiali della nostra società con lo sfarinamento del suo tessuto e insieme il profilo delle nostre democrazie. Come dire che la notte è fonda, e l’alba lontana. Il punto è comunque che – sinceramente non so se considerarlo un vantaggio o una minaccia – non ci troviamo di fronte a una situazione consolidata. A un “blocco” – per usare un termine d’altri tempi – solidificato e stabile, ma piuttosto a una condizione di fluidità strutturale. A uno stato liquido (quanto fu profeta Baumann!) e per certi versi gassoso, in cui le configurazioni sono mutevoli e tendenzialmente effimere, gli scenari mutano prima ancora di essere stati non dico metabolizzati ma anche solo “visti”, e i pifferai magici che si tirano dietro torme di topini ciechi si succedono l’uno all’altro.
Basta dare un’occhiata alla lista dei partiti più votati alle europee dall’inizio del secolo in poi, che disegna un alternarsi di landslide come le chiamano gli americani, di “strisciate” relativamente uniformi sul territorio nazionale come ondate di uno tzunami che livellano di volta in volta sui rispettivi punti alti il successo dell’uno o dell’altro gruppo politico identificato col rispettivo capo e mai durato in sella per più di una legislatura: si comincia nel 2004 con l’Ulivo di Prodi, si prosegue nel 2009 col Popolo delle libertà di Berlusconi, poi, nel 2014, la strisciata super di Renzi, un’ondata tanto alta quanto effimera, quattro anni dopo, nel 2019, la Lega in formato nazionale dell’altro Matteo (contenuto solo al Sud dalla coda dello tzunami 5Stelle), per arrivare ora al turno di Giorgia.
Ma è soprattutto la cartografia dei flussi a certificare lo stato magmatico del corpo elettorale. L’enorme invaso degli astenuti, quei 7 punti percentuali in più rispetto al 2019, pesca un po’ tra tutti i partiti, trasversalmente, ma con particolare forza tra i 5Stelle e nel duo Calenda-Renzi. Nella direzione inversa, invece, lo scambio è praticamente assente (nessuno ricupera dal precedente esodo), con la sola eccezione di qualche cifra frazionale per la Lega (effetto Vannacci, generale all’opera per snidare qualche imboscato di ieri) e per AVS (effetto Salis e Lucano). A conferma che il fronte del non voto non solo è il più consistente, superiore addirittura alla somma di tutti i componenti del sistema dei partiti, ma è anche il meno contendibile per la difficile reversibilità della scelta dei suoi componenti. Al contrario la circolazione è particolarmente intensa nell’area di destra, con logica però rigorosamente endogamica, nel senso che non prende praticamente nulla ad di fuori dei propri confini di coalizione, ma scambia massicciamente tra le sue tre componenti interne, con una forte emorragia da parte della Lega a favore di FdI e meno intensamente di FI. Nel centro-sinistra, invece, il PD cede qualcosa a AVS ma drena molto dai 5Stelle e in parte da renziani e calendiani, che a loro volta cedono quote consistenti anche alla destra, soprattutto a FI e FdI (a conferma dell’intrinseca ambiguità dei loro rispettivi padri-padroni), e all’astensione senza guadagnare nulla da nessuno.
Come si vede è uno scenario difficile da ricondurre a una qualche logica, che non sia quella del caos. E dove immaginare strategie (o anche solo tattiche) a medio e lungo termine è pressoché impossibile. Dovremo navigare dunque a vista, cercando di parare i colpi più pericolosi, soprattutto quelli mortali inferti alla Costituzione, a cominciare dall’abisso del premierato. Tanto più che lo scenario europeo è in altrettanto, se non più vorticoso, movimento involutivo. Su di esso torneremo con una successiva analisi dettagliata dei risultati elettorali, ma un’osservazione può, e deve, essere fatta subito: l’ “Europa della guerra” è stata attraversata dall’onda d’urto del voto, colpita nel suo baricentro posizionato sull’asse Parigi-Berlino, Macron-Scholz. Ma nella sua caduta l’Europa della guerra rischia di trascinare con sé l’Europa delle democrazie. Ed è questo il primo punto che l’agenda politica di ognuno, a cominciare da noi, dovrebbe premettere, a qualsiasi altro ragionamento.
Quest’analisi è stata pubblicata il 13 giugno sul sito Volerelaluna con cui Sbilanciamoci ha un accordo di scambio di contenuti.