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Dopo il Coronavirus niente sarà più come prima?

La speranza è che, passata la tempesta sanitaria, economica e finanziaria scatenata dal diffondersi di Covid-19, le cose cambino per il meglio. Eppure, in Italia, in Europa e a livello globale, ci sono molti segnali niente affatto incoraggianti.

Sui giornali e in televisione cresce il numero dei commentatori che sottolineano come la crisi del coronavirus abbia mostrato le gravi carenze dell’attuale modello di sviluppo sul piano economico, sociale e politico, pensando quindi che, passata la crisi, tutto cambierà.

Si dovrebbe tornare a un maggiore intervento dello Stato, a un rafforzamento dei settori della sanità, della scuola, della ricerca, parallelamente a un rinnovamento pressoché totale di una classe dirigente che ha mostrato, almeno in Occidente (con l’Italia tra i paesi guida), il suo fallimento. E registrare, nel nostro paese, a che cosa è stata ridotta la sanità pubblica negli anni di governo del centro-sinistra e del centro-destra, può far desiderare che le cose cambino rapidamente.

Ma inviterei a non farsi molte illusioni. Già dopo la crisi del 2008 molti hanno pensato che le cose sarebbero notevolmente cambiate almeno sul fronte della finanza, e molte dichiarazioni di politici anche autorevolissimi erano andate in quel senso. Ma, passata la tempesta, le classi dirigenti, già allora chiaramente incapaci di intendere e di volere, tornarono indifferenti alle vecchie faccende, con il risultato peraltro che la situazione ha continuato a degradarsi.

Così già quella crisi aveva mostrato che esse sono allo stremo, incapaci di qualsiasi progetto, di qualsiasi visione se non quella di cercare di restare abbarbicati al potere e di fare quello che i vari gruppi di interesse privati dettano di volta in volta (Monbiot, 2020). Colpiscono in queste settimane in particolare i casi di Johnson e di Trump (sul caso dei paesi anglosassoni si veda di nuovo il bell’articolo di Monbiot, 2020), ma anche Merkel, per non parlare di Macron, Lagarde e di altri attori più o meno minori, sembrano aver perso del tutto la bussola.

In assenza di una forza antagonista il nostro mondo sembra destinato a un ulteriore e inesorabile declino. Per questo sarebbe necessario avviare nuovi processi di riflessione e una nuova stagione di lotte, anche se l’impresa sembra difficile.

A proposito delle vecchie abitudini

D’altro canto, per il momento registriamo il permanere delle vecchie tendenze sotto molte forme. Ricordiamone solo alcune.

Intanto la crisi ha messo ancora una volta in rilievo le nette differenze tra ricchi e poveri: Berlusconi si ritira in una villa sulla Costa Azzurra, mentre i benestanti, come sottolinea Michel Onfray, lasciano Parigi per rifugiarsi nelle dimore di campagna e i parigini meno abbienti sono invece obbligati a restare in città in pochi metri quadrati di spazio; fioccano in particolare (ma non solo) nei paesi anglosassoni le offerte di affitto di dimore di lusso in luoghi molto appartati, naturalmente a prezzi adeguati. Infine, i ricchi cinesi che si trovano in Occidente affittano jet privati per fuggire dall’Europa e dagli Stati Uniti e tornare in patria.

Qualcuno fa notare che i vari governi stanno stanziando sotto varie forme migliaia di miliardi – ufficialmente almeno – per combattere il coronavirus (ma neanche i mercati si fidano), mentre gli investimenti per salvare il pianeta dalla crisi ambientale, problema ancora più serio e che sta sul tavolo da molti anni, languono miseramente.

Una nuova crisi economica e finanziaria

Altrettanto se non più grave della crisi sanitaria, appare in prospettiva quella economica e finanziaria, che sembra destinata a durare a lungo, se consideriamo poi che le conseguenze della crisi precedente, quella del 2008, si fanno sentire in qualche modo ancora oggi.

Il virus ha contemporaneamente compresso la domanda e l’offerta (Wolf, 2020). Stanno scomparendo, speriamo solo temporaneamente, interi settori di attività, dai divertimenti ai viaggi al turismo, alla ristorazione. E anche se i settori in maggiore crisi alla fine in qualche modo si riprenderanno, moltissime imprese non riapriranno i battenti.

È plausibile, tra l’altro, una drammatica caduta della domanda in relazione alla mancanza di ordini per le imprese, alla frantumazione delle reti logistiche e di fornitura, alla riduzione dell’occupazione e dei livelli retributivi, mentre l’incertezza che questa situazione tende a creare potrebbe contribuire a portare a cadute drammatiche dell’economia (Sandbu, 2020). Così si prevede, ad esempio, che negli Stati Uniti stia maturando una forte ondata di licenziamenti Casselman e altri, 2020).

Tanto più che, come indicato in un precedente articolo, ci troviamo di fronte a un enorme livello di indebitamento a livello mondiale. D’altro canto i mercati finanziari globali (soprattutto azioni e obbligazioni), gonfiati dalle liquidità e dalle speculazioni, sono cresciuti sino a quattro volte la dimensione dell’economia reale, raggiungendo un livello più elevato di quello riscontrabile alla vigilia della crisi del 2008 (Sharma, 2020). Molte imprese Usa, in particolare nel settore dell’energia, stanno affannosamente cercando in questi giorni di ristrutturare il loro debito.

Alcuni prevedono inoltre che l’Unione Europea abbia bisogno di stimoli ai settori produttivi pari ad almeno 500-1000 miliardi di euro. Anche la velocità di intervento appare essenziale. A livello mondiale, per le sole compagnie aeree la IATA valuta la necessità di risorse finanziarie a breve termine per 200 miliardi di dollari, pena il fallimento di una buona parte delle compagnie. La Boeing (come del resto molte società petrolifere) è già sotto pressione e solo una forte iniezione di denaro da parte del governo potrebbe salvarla.

Ma non ci sono solo le imprese. Una larga parte della popolazione anche nei paesi ricchi ha riserve di cassa molto limitate o inesistenti. Siamo indubbiamente in una situazione drammatica. Per fortuna si tratta di una crisi che potrebbe durare per un tempo limitato, se i governi faranno la cosa giusta.

Qualcuno, come Emmanuel Saez e Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley (Wolf, 2020), propone rimedi estremi, cioè che i governi, di fronte a una domanda che evapora, agiscano per qualche tempo come clienti di sostituzione, permettendo alle imprese di continuare a pagare i dipendenti e a manutenere gli impianti. Questa soluzione sarebbe migliore rispetto a quella dei prestiti da parte degli stessi governi, perché tali prestiti dovrebbero poi essere restituiti creando un pesante onere dopo la fine della crisi; nel primo caso, invece, il programma terminerebbe naturalmente con la fine della pandemia. E gli Stati potrebbero a quel punto imporre tasse addizionali per rifarsi almeno in parte delle uscite precedenti.

Soldi a tutti?

Il governo italiano, come ormai quelli di tutti i principali paesi toccati dal virus, ha apprestato e sta apprestando programmi di intervento finanziario abbastanza massici. Nel caso italiano, come è noto, sono già stati stanziati 25 miliardi di euro, molti altri arriveranno probabilmente nelle prossime settimane e si sta mobilitando anche la Cassa Depositi e Prestiti con una decina di miliardi; in giro per il mondo si annunciano cifre fantasmagoriche, Trump parla di migliaia di miliardi di dollari.

Nell’ambito di un giudizio complessivamente positivo su questi interventi, si può però esprimere una qualche riserva: le misure in direzione delle imprese dovrebbero avere come obiettivo quello di sostenere l’economia, le imprese e l’occupazione. Ma bisogna aiutare tutti, ed entro quali limiti? Bisognerà finanziare anche i mercanti d’armi o le imprese che erano in crisi profonda già prima dell’arrivo del coronavirus?

In altre parole, non c’è il rischio di indirizzarsi ancora una volta verso la formula consolidata dei profitti privati e delle perdite pubbliche? Non c’era il famoso rischio d’impresa che giustificava il ruolo del profitto? Le aziende, anche quelle piccole, non dovrebbero sopportare almeno una parte dei danni? In altre parole, bisognerebbe essere molto attenti e selettivi negli interventi.

Ma si possono avanzare dubbi ancora più incisivi. Come sottolinea ormai da molto tempo – tra gli altri –, Naomi Klein (Solis, 2020), quella del coronavirus appare un’occasione ghiotta perché governi ed elite globali realizzino programmi politici che altrimenti incontrerebbero una forte opposizione pubblica. Si tratta cioè di un buon pretesto per far avanzare ancora una volta quel capitalismo dei disastri che, approfittando di ogni crisi, distribuisce denaro a pioggia ad amici, parenti, lobby di settore, depaupera il pubblico per arricchire il privato, rende ancora più inaccettabili le diseguaglianze esistenti. Non è che per finanziare le imprese amiche, Trump tagli i programmi sociali?

Ci salverà di nuovo la Cina?

Pochi forse lo ricordano, ma la crisi del 2008 fu superata in Occidente – e per una parte molto importante – grazie alle azioni della Cina. Il paese, tra l’altro attraverso un programma di stimoli di circa 600 miliardi di dollari di allora, non solo riuscì a registrare una crescita del Pil del 9,4% nel 2009 e del 10% nel 2010, ma le sue imprese avviarono una grande domanda di merci e servizi verso il resto del mondo, domanda che contribuì appunto in maniera rilevante al superamento delle difficoltà anche in Europa e negli Stati Uniti.

Ci si può chiedere se anche questa volta il paese asiatico, che appare già in ripresa mentre le fabbriche si rimettono a girare e il traffico stradale tende a gonfiarsi di nuovo, avrà una funzione analoga. Certamente la ripresa cinese comporterà un riavvio della domanda dei prodotti verso altri paesi e questo avrà certamente qualche influenza sulla situazione, anche se va considerato che il caos in cui versa in queste settimane l’area occidentale ridurrà l’effetto positivo di tale ripartenza.

Molti si aspettano, anche in Europa e anche questa volta, un grande programma pubblico del paese asiatico per supportare l’economia. Può darsi però che la risposta del governo e della banca centrale cinese sarà più blanda di quella precedente; sembra di intravedere in effetti molta prudenza nei vertici politici e finanziari di Pechino, preoccupati dall’alto livello di indebitamento già in atto nel paese (Weinland, Kynge, 2020).

Pertanto si farà certamente qualcosa, ma forse non si interverrà in modo massiccio. Tanto più che oggi la Cina ha meno incentivi a farlo, essendo il paese molto più autosufficiente che non nel 2008. Il tema è in ogni caso aperto e si può anche sperare che la spinta alla fine sia massiccia.

L’Europa è perlomeno in coma

Ci soffermiamo solo brevemente sulla politica europea, dato che se ne è già parlato molto in questi giorni. Siamo di fronte alla constatazione dell’estrema debolezza e lentezza degli interventi di Bruxelles, che diventano un poco più incisivi solo quando le cose toccano direttamente la Germania o la Francia. In ogni caso, appare chiara la mancanza di una sia pur minima solidarietà tra i vari paesi: mancanza manifestatasi, tra l’altro, con la chiusura unilaterale dell’area Schengen e con il rifiuto almeno iniziale da parte di paesi come Francia e Germania di fornire materiale medico essenziale al nostro paese.

Del resto, su un altro piano, l’UE, di fronte al peso di Usa e Cina, non è in grado di darsi e mantenere uno spazio di movimento autonomo. Trump ci impone quello che vuole, mentre il paese guida del continente, la Germania, se osasse in qualche modo sfidare la Cina impedendo alla Huawei di installare nel paese i sistemi 5G, vedrebbe il suo sistema industriale, basato in primo luogo sulla vendita delle auto e della meccanica tedesca nel paese asiatico, crollare come rappresaglia.

Chiedere in queste condizioni più Europa o un’Europa diversa, più attenta alle questioni sociali e a lenire le difficoltà dei paesi più deboli, appare del tutto vano. A questo punto sarebbe forse opportuno smetterla di parlare di Bruxelles e considerare la costruzione della UE e della BCE come dei vecchi arnesi un po’ logori, che non bisogna buttare solo perché possono fornire ogni tanto qualche limitato servizio.

Il lavoro a domicilio

Infine una piccola nota in chiusura. È da molti anni che il lavoro a domicilio, totale o parziale, sta prendendo piede nel mondo delle imprese e degli uffici pubblici. Ora, in occasione della crisi, il suo utilizzo sta diventando importantissimo e si tratta certamente e per molti aspetti di uno sviluppo positivo, che permette di continuare a svolgere con una certa continuità servizi importanti, anche se il suo ruolo può essere forse sopravalutato.

D’altro canto, si dovrebbe riflettere sul fatto che la sua affermazione sul mercato potrebbe prendere – e quasi certamente prenderà – svolte inquietanti: esso sarà presumibilmente un mezzo importante per l’ulteriore precarizzazione a termine del lavoro, dopo i trionfi di Uber e compagnia e dopo gli editti contro il lavoro emanati negli scorsi anni dai governi di molti paesi occidentali, da Macron, a Renzi, a Schroeder.

Per altro verso, lo sviluppo di tale tecnologia va nel senso di un altro tipo di interesse attivo delle grandi imprese e del sistema economico attuale: quello di isolare sempre più le singole persone, distruggere possibilmente tutti o quasi i legami sociali e lasciarle sole di fronte a un sistema economico e politico ingiusto.

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Testi citati nell’articolo

Casselman, B., «Storm of layoffs is brewing in U.S.», The New York Times International Edition, 19 marzo 2020.

Monbiot, G., «Our politics isn’t designed to protect the public from Covid-19», The Guardian, 18 marzo 2020.

Sandbu, M., «Huge fiscal spending is needed to fight the coronavirus down turn», Financial Times, 17 marzo 2020.

Sharma, R., «This is how the coronavirus will destroy the economy», The New York Times International Edition, 18 marzo 2020.

Solis, M., «Intervista a Naomi Klein», www.rassegnasindacale.it, 17 marzo 2020.

Weinland, D., Kynge, J., «China lacks the appetite to save the world economy, analysts warn», Financial Times, 18 marzo 2020.

Wolf, M., «The virus is an economic emergency too», Financial Times, 17 marzo 2020.