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Il diritto alla città. Per città del diritto (digitale)

Occorre ripartire dalle città digitali/digitalizzate per affermare i nuovi diritti di un cittadino non più suddito della rete. Con questo primo intervento avviamo una riflessione sulle prospettive e le possibilità legate all’utilizzo delle nuove tecnologie

Con questo primo intervento di Lelio Demichelis avviamo una riflessione sulle prospettive, i rischi e le criticità, i vantaggi e le possibilità legate al sempre più pervasivo utilizzo delle nuove tecnologie, dei dati e delle piattaforme digitali per il governo della polis, a partire dalla pubblicazione in traduzione italiana del pamphlet “Il nostro diritto digitale alla città” curata da Openpolis

 

Potremmo partire da lontano e dire che la scienza e soprattutto la tecnica (e la rete) non sono e non vogliono essere democratiche – come opportunamente ci ha ricordato Ippolita[1] – eppure per anni abbiamo creduto il contrario e ancora molti ci credono, con due miliardi di persone convinte che Facebook sia un social e non invece, qual è – John Lanchester su Internazionale nr. 1222 – la più grande agenzia di pubblicità, ma anche la più grande agenzia di spionaggio mai esistita nella storia umana. Potenza del mercato e dell’illusione…

Se per Kant valeva il sapere aude!osa sapere!, ovvero «abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» per uscire dalla minorità e dal girello per bambini in cui ogni potere (religioso, politico, statale, oggi economico e tecnico) ama guidare ciascuno dicendogli cosa fare e come – oggi abbiamo delegato nuovamente il sapere e l’intelligenza, questa volta agli algoritmi. Tutti siamo presi da un intrigante internet-centrismo (come lo chiama Evgeny Morozov[2]), che ci ha convinto che il sapere e le decisioni è meglio lasciarle alle macchine, ai dati, ai numeri, più razionali di noi e meno soggetti agli errori. Che sarebbero appunto la forma massima ma soprattutto indiscutibile di razionalità calcolante (perché qualcuno ci fa credere che i dati siano veri in sé e per sé, in quanto oggettivi in sé e per sé); quel sapere (che ci chiede di non osare sapere, con la nostra propria intelligenza) che però ci aiuta a scegliere e decidere (e di questo gli siamo immensamente riconoscenti). Una delega (o un conformismo) che Kant attribuiva allora alla paura e alla viltà degli uomini; che oggi forse dovremmo attribuire al fascino irresistibile che la tecnica ha su di noi, che ci fa arrendere felicemente davanti a ciò che la tecnica e la Silicon Valley incessantemente ci offrono – e come per il consumo, anche per la tecnica e l’innovazione i processi di infantilizzazione e gamificazione sono molteplici e sempre più raffinati e soprattutto coinvolgenti[3]. Ma se la tecnica e la rete non sono democratiche, come provare a democratizzare anche la rete/tecnica, così come un tempo si era riusciti a fare nei confronti del capitalismo (politiche keynesiane, conflitto sindacale, welfare state)?

Occorre forse ripartire dalla città/polis, ovvero dalla polis/politica, cioè da quella politica che secondo Platone era la tecnica regia che tutte le altre tecniche doveva orientare verso il bene comune della polis (cioè di tutti e di ciascuno). Occorre ripartire dalla politica e da una grande idea di politica, capace di smontare la fake-truth della Silicon Valley. Dalla politica e dal diritto, senza il quale ogni polis (neppure quella digitale) può realmente funzionare. O meglio, può funzionare – e anche molto bene – ma non si chiama più democrazia, bensì autocrazia, tecnocrazia, oligarchia. E allora, per provare – non a rifondare, ma proprio – a fondare una città/polis-politica nell’era digitale, ecco questo agile volume collettaneo inglese (un pamphlet) dal titolo più che esplicito: Il nostro diritto digitale alla città (edizione italiana a cura di Openpolis, molto opportunamente dedicata a Stefano Rodotà). E che s’inserisce efficacemente in quel pensare criticamente la tecnica (e la rete e il digitale), che un po’ in tutto il mondo si sta sviluppando e crescendo, anche se con un drammatico ritardo sui tempi e sempre marginalizzato dai media e dai politici cortigiani.

Ripartire dalle città, dunque, ripartendo dal basso ma con una grande idea politica sopra o meglio davanti: perché è nella e dalla città che sono nati i diritti moderni del cittadino (non più suddito); ed è dunque dalla città digitale/digitalizzata che occorre far nascere i nuovi diritti di un cittadino anche digitale e non più suddito della rete. Dove in primo luogo – come scrive Openpolis – «deve essere garantito l’accesso ai dati ma anche le competenze necessarie per utilizzarli», evitando che siano i dati a utilizzare noi: perché questa è la condizione preliminare (anche se forse non sufficiente, da sola), «per poter prendere parte alle trasformazioni in atto, invece di limitarci a subirle». Perché le città sono governate oggi (e domani, sempre più) da dati e algoritmi secondo quell’ideologia dei dati che è figlia della razionalità calcolante e della matematizzazione della vita. Dati il cui uso è politico, ma la cui raccolta e gestione sfugge del tutto al controllo democratico dal basso (della polis) e al loro bilanciamento orizzontale secondo lo stato di diritto.

Da qui il diritto alla città, nel senso del filosofo francese Henri Lefebvre, cioè a città più giuste e inclusive, città dei cittadini, per i cittadini e governate dai cittadini. Mentre David Harvey aggiungeva: «Il diritto alla città è molto più della libertà individuale di accedere alle risorse urbane: è il diritto a cambiare noi stessi, cambiando la città (…) rivendicando il diritto a comandare l’intero processo urbano». Un diritto da esercitare sempre, ma soprattutto quando le città (e i cittadini) vedono ampliate o create nuove disuguaglianze, non solo socio-economiche o digitali, ma civili e politiche. E dove le tecnologie non solo connettono tutti e tutte le cose (realizzandosi, aggiungiamo, l’internet degli uomini & l’internet delle cose, insieme), ma estendono il loro controllo grazie a sistemi detti intelligenti, in realtà costituiti da incessanti meccanismi di raccolta dati, analisi in tempo reale, algoritmi che decidono per noi, centri di comando e di controllo altamente centralizzati e verticali, anche se tutto in rete sembra essere orizzontale. Dati per misurare, monitorare, controllare, esaminare, premiare/sanzionare i comportamenti e governare spazio, tempi, flussi e individui (e si rilegga Sorvegliare e punire di Michel Foucault[4]).

Mentre la datafication – o altrimenti, il dataismo – è un processo che si autoalimenta, accrescendo il capitale informativo e quindi economico (di pochi), analogamente a ciò che produce il lavoro digitale/gratuito, posto che le app sono progettate per far sembrare gratis ciò che è il nostro lavorare gratuitamente – fornire i nostri dati al Big Data. Mentre nella città – spazio pubblico per nascita e per storia – progressivamente si privatizzano tutti gli spazi che erano (appunto) pubblici – e privatizzazione e datizzazione sono parti di un unico processo. Che cancella il conflitto e il dissenso sociale (considerato non razionale perché prescinde dai dati), spalancando le porte alla tecnocrazia se non alla algo-crazia, il potere/sapere degli algoritmi e delle macchine che apprendono da sole.

Ma i dati (che in verità non sono mai oggettivi, ma sempre politici – come ci ricorda il volume) e la datificazione della vita potrebbero essere usati per processi anche di liberazione e di democratizzazione dei dati stessi, come immagina Taylor Shelton, uno degli autori? Se usassimo una razionalità-non-matematica e demo-cratica, forse sì; se invece pensiamo di poter democratizzare questa razionalità-matematico-strumentale-calcolante, no. E questo è l’unico punto di personale distanza rispetto alle riflessioni del volume. Perché davvero occorre ripartire dalle città, rivendicando il diritto alla città. Che significa poi rivendicare (è la grande idea politica di una città per sua essenza aperta, capace cioè di sconfiggere tutti i comunitarismi e i populismi oggi risorgenti), il diritto alla cittadinanza, alla libertà e alla demo-crazia come auto-governo. Libertà e democrazia che vogliamo continuare a credere più forti degli algoritmi e più fascinose dell’ultimo smartphone.

[1] Ippolita (2014), La Rete è libera e democratica. Falso!, Laterza, Roma-Bari.

[2] E. Morozov (2014), Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano; E. Morozov (2016), Silicon Valley. I signori del silicio, Codice, Torino.

[3] V. Packard (1998), I persuasori occulti, Einaudi, Torino; B. Barber (2010), Consumati, Einaudi, Torino; Z. Bauman (2007), Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari.

[4] M. Foucault (2013), Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino