La Cina sta diminuendo il volume degli investimenti in Occidente, e in Europa, a vantaggio dei paesi del Sudest asiatico. Inoltre sta aumentando gli investimenti per rendersi autonoma su semiconduttori e aviazione civile. Ma è troppo poco per pensare a una crisi della globalizzazione.
La globalizzazione è qui per restare
E’ da tempo ormai, prima con l’avvento di Donald Trump negli Stati Uniti e poi con lo scoppio della pandemia, che si discute di deglobalizzazione e di decoupling come di elementi che sembrano ormai almeno per la gran parte inevitabili e in parte in atto. In realtà la situazione appare molto complessa e non riconducibile a semplici slogan giornalistici.
Ricordiamo che la globalizzazione è stata una trama collettiva fondamentale delle vicende umane nel corso dei millenni. Peraltro segue dei cicli; così a periodi di crescente integrazione economica tra i paesi, come successe ad esempio tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale, seguì a partire dalla fine della guerra e sino a tutti gli anni trenta un periodo di crescente chiusura delle frontiere. Poi è ripartita ancora più fortemente di prima, dal momento che presenta grandi vantaggi, anche se troppo spesso si concentrano nelle mani di pochi.
Nel più recente periodo, che ha visto i processi di globalizzazione presentarsi con un’intensità e una pervasività mai raggiunte prima, è mancata un’azione dei governi per far fronte alle conseguenze negative, a partire dalla difesa del lavoro, nonché per dare corso ad un impegno per la riduzione delle diseguaglianze e del potere dei grandi gruppi privati.
Bisogna inoltre ricordare che, guardando di nuovo alla storia, molte crisi producono alla fine una maggiore, e non una minore, globalizzazione (James, 2021).
In realtà, piuttosto che ad una ritirata generale nei processi di globalizzazione, in questo momento storico stiamo assistendo semmai ad una sua ristrutturazione. Da una parte, ad esempio, con la diminuzione del peso dell’industria e la crescita di quello dei servizi (The Economist, 2020), mentre dall’altra con uno spostamento relativo del peso dei vari attori, con la Cina che concentra una maggiore attenzione verso l’Asia.
Per altro verso ci sono settori tra i più importanti, quali quello dei semiconduttori, produzione chiave per l’economia mondiale, nei quali la demondializzazione appare impossibile, almeno nel medio termine e la dominazione dell’Asia inattaccabile (Escande, 2021).
Il decoupling: la crisi della strategia Usa
Concentriamo la nostra attenzione sul supposto processo di decoupling, cioè sul tentativo di Trump di isolare economicamente la Cina.
Sul fronte commerciale l’azione di Trump è sostanzialmente fallita. Alla fine del suo mandato il saldo della bilancia commerciale degli Usa con la Cina era rimasto praticamente invariato rispetto al quadro iniziale; nei primi quattro mesi del 2021, poi, mentre le esportazioni cinesi aumentavano di circa il 30% a livello globale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, lo facevano di circa il 50% verso gli Stati Uniti. E questo nonostante tutte le barriere, tariffarie e non, poste in essere dalla Casa Bianca a guida Trump.
I porti statunitensi sono intasati dalle grandi navi portacontainer provenienti dall’Asia: così l’area di Oakland registra una fila di vascelli che si allunga per circa 100 chilometri (Lesnes, 2021).
Anche sul fronte delle localizzazioni produttive sono state sino ad oggi veramente molto poche le imprese Usa che hanno deciso di spostarsi altrove o di tornare in patria, nonostante gli appelli fatti all’epoca dallo stesso Trump.
Il fatto è che la Cina è diventata o sta diventando il mercato più importante del mondo per la gran parte dei prodotti industriali e di consumo e per essere forti a livello globale le grandi multinazionali, americane e non, devono essere competitive sul mercato cinese. La Cina sta inoltre diventando sempre più il paese che si pone al centro dei processi di innovazione.
In ogni caso le imprese Usa producono e vendono oggi nel paese asiatico prodotti per più di 500 miliardi di dollari all’anno.
D’altro canto, per quanto riguarda le catene di fornitura a livello mondiale, normalmente i cinesi sono quasi imbattibili per il rapporto prezzo/ prestazioni, per la grande varietà, efficienza, qualità, rapidità, costi del servizio.
In ogni caso, disfare delle catene di fornitura complesse e interconnesse che sono state pazientemente costruite in una generazione è un compito complicato e difficile. D’altro canto le imprese potrebbero avere grandi difficoltà a mettere su le loro attività in altri paesi, dove mancano la quantità e qualità dei fornitori e i servizi di contorno, le infrastrutture (Hille, 2020).
Una drastica diminuzione dei rapporti economici con la Cina sarebbe pertanto molto costosa e potenzialmente controproduttiva. Le interdipendenze sono là per durare (Jean, 2021).
Va anche ricordato che alcuni settori apparentemente secondari dell’economia statunitense dipendono sempre più dal mercato cinese. Citiamo a questo proposito il mercato cinematografico: nel 2019 i film Usa hanno rappresentato il 30% degli incassi nel settore in Cina. Nel campo dell’educazione, che dipende sempre più dall’arruolamento degli studenti esteri, nel periodo 2029-2020 il 35% dei giovani in formazione proveniva dalla Cina (Ng, 2021).
Si possono anche ricordare i casi di altri paesi. Il Giappone e la Corea del Sud hanno varato norme per incoraggiare il ritorno in patria delle proprie aziende presenti in Cina, ma il successo di tali iniziative appare sino ad oggi piuttosto scarso (Bloomberg, 2020).
Per quanto riguarda poi il nostro paese, uno studio della Banca d’Italia su 4.200 imprese italiane censite mostra che l’85% dichiara di non avere chiuso fabbriche all’estero negli ultimi tre anni e che non intende farlo nel prossimo anno, mentre solo il 2,5% ha scelto di riportare la produzione in Italia (Marroni, 2021).
Gli investimenti esteri in Cina
Nel 2020 la Cina è diventato il primo paese del mondo per quanto riguarda l’ammontare degli investimenti diretti nell’anno essendo aumentati di circa il 5% fino alla cifra di 144,3 miliardi di dollari, mentre quelli complessivi a livello mondiale crollavano nello stesso anno del 38% (Xinhua, 2021). E nel primo trimestre del 2021 essi si sono ancora incrementati del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (Liu Zhihua, 2021).
Parallelamente dalla metà dello scorso anno e sino ad oggi abbiamo assistito a una corsa degli investitori stranieri all’acquisto di titoli pubblici e privati cinesi, spinti dagli alti rendimenti e dalla rilevante ripresa dell’economia cinese.
L’andamento di alcuni settori
Il centro di gravità del settore del lusso si sta spostando in Cina, aiutato anche dallo scoppio del Covid. La ripresa di questo settore dopo un anno difficile quale il 2020 si aspetta lì, dove tra l’altro si sta verificando una corsa agli investimenti in loco delle grandi imprese del settore che mirano ad aprire quanti più punti di vendita possibili nelle grandi città. Nel 2025 circa il 50% del totale mondiale delle vendite nel settore del lusso saranno in Cina e quasi un altro 20% negli altri paesi asiatici, mentre in Europa rimarrà soltanto il 13% del totale (Reuters, 2020; White, Abboud, 2021).
Nel 2018 Pechino ha annunciato la rimozione dei limiti alla partecipazione azionaria straniera nelle banche ed altre istituzioni finanziarie cinesi. Da allora assistiamo ad un crescendo di investimenti da tutto il mondo, a cominciare dagli Usa, sia con l’acquisizione di quote di maggioranza o di minoranza in imprese già esistenti, che nella fondazione ex-novo (Jiang Xuequing, 2021; Jenkins, 2020).
Quanto al settore veicoli, è da molti anni che la Cina è di gran lunga il più importante mercato e centro di produzione di auto e la spinta locale al mercato delle auto elettriche e a quelle a guida autonoma ha contribuito a una corsa ulteriore delle case automobilistiche occidentali e asiatiche agli investimenti in Cina. Così la Daimler, mentre frena su quelli in patria, vara un programma ambizioso di nuovi investimenti in territorio cinese (Sheperd, 2020).
Da ultimo si sta verificando una nuova corsa delle imprese straniere ad accaparrarsi almeno una piccola fetta degli enormi investimenti che si stanno varando nel paese nel settore dell’ecologia.
La delocalizzazione cinese
Appare sempre più evidente che in alcuni settori si stanno verificando mutamenti rilevanti ai processi di internazionalizzazione, sotto l’impulso dei paesi occidentali, ma anche di riflesso della stessa Cina.
In settori caratterizzati da un’elevata incidenza del costo del lavoro (tessile-abbigliamento, del mobile, dei giocattoli e così via) appare abbastanza chiara una tendenza da parte di imprese che a suo tempo avevano scelto la Cina proprio per il basso costo del lavoro, a dislocare almeno una parte della produzione in paesi dell’Asia del Sud-Est (Vietnam, Cambogia, ecc.), cosa che da tempo stanno facendo anche molte imprese cinesi.
In altri settori appare qua e là invece la tendenza ad affiancare ai tradizionali insediamenti produttivi in Cina, che rimangono la destinazione principale, impianti paralleli in altri paesi, in modo da ridurre i possibili rischi relativi a qualche possibile incidente economico o politico (Zhou Cissy, 2021). Si può citare il caso della Apple e della Foxconn, che hanno avviato produzioni parallele in India, dove peraltro la pandemia ora ha bloccato quasi tutto.
L’Unione Europea
La Commissione Europea si sta muovendo per ridurre la dipendenza dei paesi del blocco da fornitori esteri in alcuni settori chiave, come i prodotti farmaceutici e le tecnologie digitali. Sono stati analizzati 5.200 prodotti importati e ne sono stati individuati 137 nei quali la UE è fortemente dipendente dalle importazioni estere. Di questi, 34 sono potenzialmente i più vulnerabili, con un basso potenziale di diversificazione delle forniture o della sostituzione con produzioni Ue. Vengono tra l’altro citati in proposito le batterie, i semiconduttori, e alcune materie prime critiche (Chen Weihua, 2021).
Per altro verso la UE subito dopo aver firmato un progetto di trattato con la Cina sugli investimenti, sembra ora aver imboccato la strada di un energico tentativo di contrastare lo stesso paese introducendo una norma che metterebbe forti ostacoli all’ingresso in Europa delle imprese statali cinesi, con la scusa di mantenere pari condizioni di mercato per le imprese europee.
Sempre l’UE sta intanto avviando due progetti con l’India, sempre in funzione anti cinese.
Sono stati rispolverati i colloqui, bloccati nel 2013, per arrivare ad un trattato commerciale e per gli investimenti con l’India e si sta studiando un’iniziativa, sempre con New Delhi come partner per un progetto alternativo a quello cinese della Nuova Via della Seta.
Per quanto riguarda la prima iniziativa, il paese asiatico è diventato da tempo sostanzialmente autarchico ed appare difficile che ora cambi atteggiamento se non su partite minori. In relazione alla seconda, pensare che l’India partecipi in maniera sostanziale alla messa a disposizione di rilevanti capitali per portare avanti l’iniziativa citata appare molto difficile, data la cronica e grave mancanza degli stessi in patria. Ma neanche l’Unione Europea nuota nell’oro.
Il decoupling cinese
La Cina, di fronte alle difficoltà frapposte dagli Stati Uniti e dalla UE allo sviluppo dei rapporti economici reciproci, appare ormai tentata per alcuni versi a portare avanti una molto maggiore autonomia strategica in campo economico e a lasciare solo come un’opzione il dialogo con i paesi occidentali, mantenendo comunque un’ampia disponibilità ai rapporti e agli accordi.
Si mantiene, e anzi si estende, l’apertura all’insediamento delle imprese estere nel paese, mentre si porta avanti la strategia detta di “circolazione duale”, che cerca di trovare un equilibrio tra apertura e sicurezza interna, dando priorità al mercato domestico e spingendo ancora di più a colmare al più presto i divari sul fronte tecnologico (semiconduttori, aviazione civile).
La Cina sta intanto rivedendo la strategia relativa alle catene di fornitura, cercando di portarle quanto più vicino possibile a casa, come del resto stanno facendo altri paesi asiatici.
Le imprese cinesi stanno riducendo e fortemente i loro investimenti diretti nei paesi occidentali, giocoforza mentre vedono grandi promesse nei paesi dell’Asean, in Corea del Sud ed in Giappone (Su-Lin Tan, 2021), oltre che in Africa ed in America Latina.
Gli Usa hanno prima bloccato le forniture di tecnologie e componenti avanzate ad Huawei, spingendo i paesi alleati ad eliminarla dalle loro reti di telecomunicazione, poi Washington ha esteso tali vincoli ad altre imprese. Ciò ha danneggiato in misura rilevante la stessa Huawei soprattutto nel settore dei telefonini. Inevitabilmente in Cina ciò ha provocato una rinnovata e forte spinta allo sviluppo di un’adeguata industria nazionale dei semiconduttori.
Tuttavia se c’è è un settore in cui c’è da attendersi nei prossimi anni una separazione tra la Cina ed altri paesi da una parte, quelli occidentali dall’altra, quello riguarda internet.
Oggi la rete è controllata dagli Usa e in particolare da alcuni grandi attori privati nordamericani. La Cina, viste anche le presenti minacce, non accetta più di seguire supinamente. E sta mettendo quindi a punto un progetto alternativo, il cui studio sta andando avanti insieme altri paesi (Russia, Iran, Arabia Saudita tra gli altri), aperto ad altri contributi. Il progetto prevede il varo di una nuova tecnologia di rete che superi alcuni difetti strutturali di quella presente. A detta dei cinesi, quella attuale ha raggiunto i suoi limiti tecnologici e appare inadeguata a venire incontro alle necessità del mondo digitale in evoluzione (internet delle cose, auto a guida autonoma, chirurgia a distanza, ecc,). Tale nuova rete sarà controllata dagli Stati, mentre attualmente, come già indicato, è nelle mani di alcune imprese private.
Ricordiamo come il circuito finanziario Swift, che collega tra di loro tutte le banche del mondo sulla base anche di standard comuni e appare indispensabile per lo sviluppo dei movimenti finanziari mondiali, sia controllato dagli Stati Uniti, che lo hanno anche utilizzato come un’arma contro i possibili nemici, ad esempio con l’Iran. Appare quindi ragionevole che la Cina e la Russia stiano cercando di mettere rapidamente a punto un circuito alternativo.
Ricordiamo lo sviluppo in atto da parte cinese di una moneta elettronica nazionale che nel lungo termine dovrebbe riuscire a contribuire a sganciare il paese dalla dominazione del dollaro.
Conclusioni
Le notizie sulla fine della globalizzazione e in particolare sull’avanzare dei processi di decoupling sono certamente esagerate, anche se qualcosa si sta muovendo.
Certo, la pandemia e le politiche trumpiane stanno portando a qualche mutamento che ha però limiti importanti. Le imprese di tutto il mondo cercano di essere sempre più presenti in Cina, che è ormai la piazza economica più importante al mondo e anche sempre più una fonte preziosa di innovazione. Anche da noi le cronache economiche sono piene ogni giorno di notizie di imprese piccole e grandi che affidano una parte molto importante delle loro speranze di crescita al paese asiatico.
La stessa Cina, di fronte alla crescente ostilità occidentale, sembra tentata dall’obiettivo di raggiungere una crescente autonomia strategica rispetto almeno ai paesi occidentali.
Così si stanno creando delle fessure con l’Occidente in alcuni settori (internet, Swift, tecnologie avanzate, in particolare semiconduttori, moneta elettronica).
Su tutta la questione aleggia uno stato di grande incertezza e di grande confusione. Può reggere, e sino a quale punto, la contraddizione tra crescente integrazione sul piano economico e ostilità altrettanto crescente a livello politico con i paesi occidentali?
Testi citati nell’articolo
-Bloomberg, South Korean firm reluctant to bring production back from China, www.caixinglobal.com, 6 ottobre 2020
-Chen Weihua, Europe acts to reduce reliance on key imports, www.chinadaily.com.cn, 7 maggio 2021
-Comito V., Ancora sull’ipotesi di decoupling Cina-Usa, www.sbilanciamoci.info, 17 ottobre 2020
-Escande P., Puces électroniques : la démondialisation impossible, Le Monde, 15 maggio 2021
-James H., Globalization’s coming golden age, www.foreignaffairs.com, maggio/giugno 2021
-Jean S., L’interdépendance, nouveau talon d’Achille des économies, Le Monde, 16-17 maggio 2021
-Jiang Xuequing, Foreign investors line up for China financial services play, www.chinadaily.com.cn, 6 maggio 2021
-Jenkins P., The great Wall (Street) of China, www.ft.com, 12 ottobre 2020
-Hille K., The great uncoupling: one supply chain for China, one for everywhere else, www.ft.com, 6 ottobre 2020
-Lesnes C., En Californie, embouteillage de port-conteneurs à Oakland, Le Monde, 15 maggio 2021
-Liu Zhihua, Q1 foreign investments tops 300b yuan, ministry says, www.chinadaily.com.cn, 17 aprile 2021
-Marroni C., Rientro delle produzioni in Italia limitato al 2,5%, Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2021
-Ng D., The US economy, starting with Hollywood and education, needs China to build back better, www.scmp.com, 13 maggio 2021
-Reuters, Luxury brands in China double down…, www.scmp.com, 3 ottobre 2020
-Sheperd C., VW and chinese partners pour 15bn euros into country’s electric car market, www.ft.com, 28 settembre 2020
-Su-Lin Tan, Chinese firms outpace regional counterparts…, www.scmp.com, 14 maggio 2021
–The Economist, Changing places, 8 ottobre 2020
-White E., Abboud L., Hainan ‘on fire’ as luxury’s centre of gravity tilts to China, www.ft.com, 16 aprile 2021
-Xinhua, Global investors flock to China…, www.chinadaily.com.cn, 2 maggio 2021
-Zhou Cissy, Global supply chain continues to shift away from China…, www.scmp.com, 30 aprile 2021