Biden sta cercando di stringere patti economici e commerciali che escludono la Cina, sia nell’area dell’indo-pacifico che in America Latina in una logica a blocchi contrapposti. L’Ue cerca di fare altrettanto nei Balcani. Ma le interrelazioni sono tali e tante che la separazione non sarà mai netta.
Un quadro in movimento
Alcune vicende recenti sembrano per molti commentatori segnare la crisi, se non la fine, della globalizzazione: da una parte le sempre più pressanti e ormai quasi parossistiche iniziative statunitensi per cercare di frenare l’ascesa economica, finanziaria, tecnologica, militare, politica della Cina, dall’altra lo scoppio della guerra in Ucraina con il corredo di sanzioni da parte occidentale e i problemi che ne derivano a livello mondiale, infine la stessa rigida gestione del Covid da parte di Pechino. A questo ultimo proposito è stato anche coniato il termine di “deglobalizzazione” dopo quello di reshoring, che sta a significare il ritorno in patria o nei paesi più vicini o più amici degli insediamenti produttivi e delle catene di fornitura che erano stati prima portati soprattutto in Asia, fenomeno che ha caratterizzato il mondo per molti decenni. Ma il senso e lo sbocco delle vicende in atto sembrano piuttosto complicati ed aperti a diversi scenari.
Come è noto, Donald Trump aveva a suo tempo posto dei dazi su molte merci cinesi, bloccato l’esportazione di prodotti e tecnologie nel campo dei chip, aveva chiesto alle imprese americane di chiudere i loro impianti in Cina. Si era parlato più in generale di un decoupling (scollegamento) degli Stati Uniti – e possibilmente di altri importanti attori occidentali – dalla Cina.
Ma le operazioni avviate allora non hanno portato a grandi risultati. Nel 2021 le esportazioni cinesi sono ancora fortemente aumentate e gli investimenti esteri diretti nel paese del Dragone hanno raggiunto cifre record (tali tendenze sembrano continuare nel 2022: nei primi cinque mesi dell’anno l’export cinese è ancora cresciuto dell’11,4%); anzi, in queste settimane negli Usa si va discutendo di abolire i dazi su molte merci cinesi per contribuire a combattere l’inflazione che ha raggiunto valori molto elevati, mentre si riaprono anche le porte alle importazioni dei pannelli solari cinesi, prima bloccate. Peraltro qualcosa si era mosso nel senso del decoupling; così in alcuni settori, dalle tecnologie alla finanza, l’ostracismo anticinese ha portato ad una progressiva presa di distanza tra gli attori.
Ora si riparte in maniera ancora più decisa con Joe Biden alla presidenza. L’idea di base dell’intervento è delineata in un discorso tenuto il 26 maggio dall’attuale segretario di Stato Usa Anthony Blinken quando ha affermato che la Cina è oggi il solo paese che ha insieme l’intenzione di rimodellare l’attuale ordine internazionale e sempre di più i mezzi per farlo, sul piano economico, militare e tecnologico.
Nei paragrafi che seguono cerchiamo di dare alcune informazioni sulle azioni in atto da parte della presidenza statunitense per combattere l’ascesa del paese asiatico. Tralasciamo le azioni più strettamente politiche, quali quelle di portare avanti sistemi di alleanza politica in funzione anticinese in Asia (con il Quad e l’Aukus) e ci concentriamo sulle iniziative economiche. Alla fine del testo seguiranno delle note sulle prospettive attuali della globalizzazione.
Il Build Back Better World
In occasione del summit del G-7 del giugno 2021, il presidente Biden aveva lanciato l’iniziativa Build Back Better World, o B3W, con l’obiettivo evidente di creare un’alternativa alla cinese Belt and Road Initiative. Si trattava, a detta degli americani, di creare una partnership per le infrastrutture rispettosa dei diritti umani, sostenibile e trasparente, che avrebbe dovuto in particolare finanziare progetti nei paesi in via di sviluppo. Hanno fatto subito seguito a tale iniziativa quelle analoghe degli alleati, della Gran Bretagna, dell’UE, del Giappone, che hanno percorso pedissequamente i dettami di Washington.
Al momento del varo dell’iniziativa statunitense non era chiaro quante risorse sarebbero state messe in campo, mancavano le informazioni sui tempi di svolgimento del progetto, non si aveva idea di quanto i paesi potenzialmente interessati avrebbero collaborato, mentre il Congresso Usa non si mostrava molto entusiasta dell’iniziativa.
La risposta cinese non si era fatta attendere: da una parte i rappresentati del paese asiatico mettevano subito in rilievo le debolezze del progetto, dall’altra avanzavano la proposta di lavorare insieme agli Stati Uniti sulla questione. Ma gli americani non hanno risposto a tali avances.
A distanza di un anno dal suo lancio il progetto sembra incontrare grosse difficoltà ad andare avanti. Era inserito in uno schema più generale e dallo stesso nome rivolto al mercato interno; le difficoltà politiche, in particolare l’ostilità dei repubblicani, hanno portato come conseguenza che è stata messa la sordina alla cosa. Tutte le iniziative ufficiali in merito e già programmate sono state cancellate e tutte le iniziative prima individuate sono molto in ritardo sui tempi di marcia. Si pensa quindi a un pacchetto più ristretto, ma tutto appare piuttosto incerto.
Tra l’altro, quando i repubblicani riprenderanno – presumibilmente – il controllo del Congresso, a novembre, che ne sarà dell’iniziativa? Nel frattempo i governi dei paesi alleati stanno ufficialmente cercando di andare avanti con i loro rispettivi schemi, ma tutto appare ormai immerso nell’incertezza, se non nell’irrilevanza. Vedremo.
L’IPEF
Come è noto, a suo tempo Trump aveva affossato la costituzione di un accordo di libero scambio con undici paesi asiatici, il cosiddetto CPTPP ideato da Barack Obama, che avrebbe portato alla caduta progressiva dei dazi tra i vari paesi partecipanti.
Nel mentre la Cina è riuscita a far decollare un accordo alternativo, il RCEP, che va avanti a velocità piuttosto spedita, essendo partito operativamente il primo gennaio. Il RCEP comprende quindici membri, da cui dipende il 30% del commercio estero della Cina e nella sostanza questo accordo dovrebbe contribuire a diminuire il ruolo degli Stati Uniti nella regione, anche se al patto partecipano, oltre ai paesi ASEAN, i più fedeli alleati degli Stati Uniti, Australia, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud. Il RCEP costituisce come dimensioni il più importante accordo commerciale del mondo e prevede un abbattimento progressivo dei dazi e di altre barriere, nonché lo sviluppo dell’e-commerce e la circolazione dello yuan nell’area. Incidentalmente, segnaliamo che il volume degli scambi della Cina con i paesi dell’ASEAN è oggi di circa 2,5 volte quello degli Stati Uniti con gli stessi paesi.
Così alla fine di maggio Biden ha ufficializzato quello che dovrebbe essere in qualche modo un sostituto del vecchio progetto affossato da Trump, sostituto denominato IPEF (Indo-Pacific Economic Framework), cui hanno aderito dodici paesi, gran parte dei quali partecipano peraltro anche al RCEP. Naturalmente dal patto è esclusa la Cina. Ma esso offre agli altri paesi molto meno dell’iniziativa a guida cinese.
Lo schema prevede una generica cooperazione sul commercio estero, sulle catene di fornitura, sulla promozione delle infrastrutture e delle energie pulite e sulla lotta alla corruzione. Ogni paese è libero di decidere in quali delle quattro aree è interessato a siglare accordi. Il patto non prevede invece alcun miglior accesso alle esportazioni verso gli Stati Uniti, che è la cosa che interesserebbe di più e che era al centro del vecchio progetto di Obama. L’atmosfera politica in patria non è favorevole ad aprire le porte alle merci degli altri paesi. Non si capisce quindi quali sarebbero i vantaggi per i paesi che comunque hanno aderito, non si sa quanto speranzosi di ottenere qualcosa. Biden sembra interessato soprattutto ad utilizzarlo come nuova arma economica contro la Cina.
Anche in questo caso se i repubblicani tornassero al comando, il progetto presumibilmente scomparirebbe. In ogni caso Biden non osa neanche farlo passare dal Congresso per l’approvazione, sapendo che non sarebbe bene accolto.
Per altro verso, appare difficile che gli Stati Uniti riescano a fermare o anche a rallentare un’integrazione economica dell’Asia che va avanti in modo molto forte già da molto tempo e che ha davanti a sé prospettive rilevanti.
L’Americas Partnership for Economic Prosperity
Il pacchetto economico che Biden offre alle nazioni dell’America Latina dal nome Americas Partnership for Economic Prosperity e che è stato presentato al summit interamericano che si è aperto a Los Angeles il 7 giugno, sembra intanto avviato per cercare di contrastare la sempre maggiore presenza cinese nel continente.
Al summit non sono stati invitati Cuba, Venezuela, Nicaragua e questo tra le proteste di Messico e diversi altri paesi dell’area, che quindi hanno inviato all’incontro soltanto i loro ministri degli Esteri, mentre altri paesi hanno accettato l’invito solo dopo forti pressioni da parte di Washington. Durante la campagna elettorale, tra l’altro, Biden aveva promesso di aprire le porte a Cuba, ma non l’ha poi fatto. La sostanza è che la diplomazia americana è guidata dalle esigenze di politica interna e gli esiliati cubani sono fortemente contrari alle aperture agli scambi con il loro paese di origine.
La Cina è diventata da qualche tempo il più importante partner commerciale della regione latinoamericana (gli scambi commerciali relativi sono aumentati del 41% nel 2021), nonché una fonte molto importante di investimenti diretti e di prestiti ai governi per la costruzione di infrastrutture. 21 paesi dell’area hanno firmato accordi di cooperazione con Pechino. Ora il pacchetto di Biden sembra prevedere soltanto 300 milioni di dollari per la sicurezza alimentare e per la lotta al Covid, mentre, come abbiamo già ricordato, il BBBW è fermo. La Banca Interamericana di Sviluppo, tradizionalmente importante fonte di finanziamento dei paesi latino-americani, è in difficoltà dopo che alla sua testa è stato eletto, contro la tradizione e con una forzatura, uno statunitense, mentre la promessa ricapitalizzazione della stessa per finanziare maggiori attività non ha avuto luogo. In sostanza Biden si presenta anche in questo caso quasi a mani vuote.
D’altro canto, gli Usa trascurano l’area da molto tempo, l’importanza dell’America latina per la politica statunitense appare molto basso e sembra improbabile che il summit abbia ottenuto il risultato di migliorare in modo sostanziale le relazioni con i paesi dell’area. Se poi in Brasile alle prossime elezioni presidenziali venisse eletto Lula, il politico brasiliano ha già promesso che firmerà con la Cina un accordo di stretta cooperazione.
Incidentalmente, come ha già fatto notare qualcuno, chi ha inserito la parola “prosperità” nel nome del pacchetto probabilmente ignora che anche il Giappone imperiale, occupando alcuni paesi asiatici, parlava di costruire un’area di co-prosperità nella regione. L’espressione, da questo punto di vista, suona abbastanza sinistra. Comunque anche in questo caso staremo a vedere quali saranno gli sviluppi dell’iniziativa.
Le isole del Pacifico
La Cina ha firmato in aprile un accordo, oltre che sui rapporti economici, anche sulla sicurezza con le Isole Salomone, che permette a Pechino di dispiegare forze militari e di polizia. Pechino punta ora ad un accordo simile anche con Kiribati e qualche altro paese dell’area.
L’intesa sulle Isole Salomone ha scatenato le ire di Usa, Australia, Giappone e Nuova Zelanda, i tradizionali partner dell’area, i quali pensavano che il controllo delle isole del Pacifico spettasse loro di diritto. Appare curioso che gli Stati Uniti, che posseggono circa 1.000 basi militari nel mondo, tra quelle ufficiali e quelle segrete, si scandalizzino che la Cina firmi un accordo sulla sicurezza. E comunque gli occidentali hanno trascurato l’area e ora la Cina si presenta come una fondamentale fonte di commercio, investimenti, aiuti. I rappresentanti del paese hanno nella sostanza dichiarato che essi costruivano ponti e strade e non volevano aumentare la presenza militare.
In un incontro alla fine di maggio tra il ministro degli Esteri cinese e i leader di otto paesi dell’area, i presenti si sono messi d’accordo su una cooperazione reciproca in sei campi: sanità, agricoltura, riduzione della povertà, prevenzione dei disastri, cambiamenti climatici, pesca.
I Balcani, Taiwan e il ruolo dell’Europa
L’Unione Europea sembra seguire con diligenza le indicazioni di politica estera fornitele da Washington e questo non avviene soltanto per quanto riguarda il caso Ucraina, che pure appare abbastanza clamoroso, né solo per il già citato progetto BBBW.
Da tempo si registra una influenza crescente della Cina nei Balcani, in particolare attraverso la costruzione e il finanziamento di progetti infrastrutturali. L’Unione Europea opera in modo molto diligente nel cercare di frenare e bloccare tale avanzata. Così la concessione del porto di Rijeka (l’ex Fiume) era stato attribuito ad un consorzio cinese per essere poi revocato senza alcun motivo, mentre si è anche riusciti anche a far sì che alcuni paesi balcanici diventassero meno favorevoli alla presenza cinese.
Il ruolo di fedele esecutore di Washington si registra anche sulla questione di Taiwan. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno rafforzato i loro rapporti economici con l’ex isola di Formosa, naturalmente suscitando l’ira di Pechino. In particolare per quanto riguarda l’Unione Europea, si è tenuto con l’isola un dialogo sul commercio e gli investimenti.
Tale iniziativa segna la presa di distanza dell’UE nei confronti di Pechino. I tempi della Angela Merkel e di un accordo di cooperazione sugli investimenti sembrano ormai molto distanti. Il Parlamento Europeo ha appena approvato una mozione nella quale afferma che la Cina pone una minaccia agli interessi della UE nella regione dell’Indo-Pacifico e domanda alla stessa UE di rafforzare la partnership con Taiwan.
Ufficialmente l’UE si dichiara interessata a stringere i rapporti in particolare nel settore dei semiconduttori, ma certo la taiwanese SMCT, azienda di chip più importante al mondo, non ha nessuna intenzione di rivelare i suoi segreti tecnologici al nostro continente; tra l’altro, sebbene sollecitata in proposito, la società ha rifiutato di aprile in Europa un impianto produttivo.
Particolarmente prono ai voleri di Washington si mostra nell’UE il governo italiano, che ha tra l’altro bloccato, dal momento del suo insediamento ad oggi, diversi investimenti cinesi nel nostro paese, alcuni dei quali innocui dal punto di vista tecnologico, mentre in almeno un caso ha deciso una azione sostanzialmente controproducente.
Il caso della Germania
Per segnalare le difficoltà potenziali dei processi di globalizzazione segnaliamo a questo punto il caso di un paese molto importante: la Germania.
Il periodo del governo Merkel è stato caratterizzato dallo sforzo di mantenere buoni rapporti politici ed economici sia con la Russia che con la Cina. Tale politica era dettata dal fatto che la Germania era molto dipendente dalla prima per l’energia, il carbone, il petrolio, il gas, mentre la Cina è diventata da tempo il primo partner commerciale tedesco. Il volume degli scambi bilaterali ha raggiunto nel 2021 i 245 miliardi di euro, prima di quello dei Paesi Bassi con 206 miliardi e degli Stati Uniti con 194 miliardi. Così l’industria automobilistica tedesca produce più auto in Cina che in Germania e sembra difficile ridurre i legami, visto che il settore occupa direttamente o indirettamente circa 15 milioni di lavoratori.
Il nuovo governo di Berlino potrebbe cambiare in parte atteggiamento verso la Cina, visto che al suo interno si manifestano forze fortemente ostili e le pressioni americane si fanno ogni mese che passa più stringenti. Un mutamento a 180 gradi della politica tedesca è in ogni caso impensabile. L’economia ne soffrirebbe troppo.
Si è parlato sui giornali e nei circoli politici del possibile esodo di molte imprese tedesche dalla Cina, ma almeno sino a questo momento non si mostrano segnali rilevanti in questo senso.
Note conclusive
La Cina negli ultimi anni, anche attraverso i commerci e con la Belt and Road Initiative ha tessuto una fittissima rete di rapporti con i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Ora Biden cerca di contrastare o rompere tali connessioni, ma difficilmente ci riuscirà, non avendo a disposizione i mezzi economici necessari a tentare l’avventura. Qualcuno ha parlato di una strategia “tutta cannoni e niente burro”. Intanto l’UE, superando una politica precedente di apertura, rappresentabile con il volto rasserenante di Angela Merkel, si presenta ormai sulla scena internazionale come una semplice pedina di Washington, senza la minima autonomia.
Indubbiamente il modello di globalizzazione quale è stato portato avanti per decenni, che si basava sull’egemonia Usa, appare oggi in rilevante difficoltà; una serie di paesi nuovi, a cominciare dalla Cina, hanno assunto nello scenario economico, finanziario, tecnologico, militare, politico, una importanza ben maggiore di quella che avevano soltanto qualche decennio fa. D’altro canto, gli Stati Uniti, che pure erano stati alla guida di tale processo, ora cercano con tutti i mezzi di frenare, se non di bloccare, l’ascesa della Cina e degli altri paesi asiatici sulla scena mondiale.
Non si capisce però quali possano essere i vantaggi delle alleanze proposte da Biden (manca ancora qualcosa per l’Africa, ma basta aspettare e Biden si farà presumibilmente vivo anche su questo fronte) e quale possa essere l’interesse comune con gli Stati Uniti.
Non ci sembra che stiamo assistendo ad una fine della globalizzazione e ad un processo di reshoring, quanto piuttosto appare palese il desiderio degli Stati Uniti, e in parte dell’UE a guida statunitense, di cercare di frenare i mutamenti, un compito molto impegnativo.
In estrema sintesi, si può forse parlare di un processo di riglobalizzazione o di globalizzazione su nuove basi. A questo proposito si possono intravedere due possibili sbocchi a questi processi in corso. Il primo prevede lo sviluppo di una globalizzazione multipolare, in cui, di certo, Cina e Stati Uniti (e forse l’India) assumano un ruolo fondamentale e contemporaneamente acquisiscano una spazio importante anche altre realtà. Il secondo sbocco possibile, che sembra la soluzione preferita dagli Stati Uniti, vede la formazione di due blocchi, uno occidentale a guida Usa (e che comprenda possibilmente il numero più elevato possibile di paesi in via di sviluppo) e l’altro orientale a guida cinese con diversi paesi asiatici, africani, dell’America Latina.
Quale che sia lo sbocco futuro, va sottolineato che i rapporti economici tra i vari paesi e in particolare tra la Cina e i paesi occidentali sono oggi tanto interconnessi ed intricati che una separazione netta tra le due aree appare sostanzialmente impossibile. Quindi anche se si formassero due blocchi, non sarebbero completamente chiusi su se stessi, registrerebbero sempre interscambi molto importanti.