Il voto del 5 gennaio per rimpiazzare due senatori sarà decisivo per sapere se il presidente eletto Biden avrà una solida maggioranza per fare grandi riforme “green” e “social”. Quanto alle cause per brogli, inquieta solo la condiscendenza a Trump dei repubblicani.
Dunque Joe Biden ha vinto le elezioni. Le ha vinte con un margine di voti piuttosto alto, prendendo più voti di qualsiasi presidente eletto nella storia Usa e anche raccogliendo la maggioranza dei consensi in un numero alto di Stati, strappando la Georgia e l’Arizona ai repubblicani.
Dunque Donald Trump ha rifiutato di riconoscere la vittoria e si è lanciato in improbabili accuse di brogli, anche contro i funzionari elettorali di Stati saldamente in mano a governatori e legislature repubblicane. Perché sia chiaro, visto che sui media tradizionali italiani non è sempre evidenziato come si dovrebbe: in questi giorni la campagna Trump ha perso tutte le cause intentate e quando i giudici hanno deciso di accogliere alcune delle richieste repubblicane, lo hanno fatto mettendo in discussione la validità di poche decine o centinaia di schede. Il risultato, insomma, non cambia.
L’atteggiamento di Trump non stupisce, per mesi la sua campagna ha preparato il terreno della sconfitta seminando dubbi sul processo elettorale. Trump e il suo clan non hanno mai mostrato riverenza per le istituzioni e i processi democratici e questa uscita di scena non è che l’epilogo di una parabola. Quel che preoccupa è la risposta che molte importanti figure repubblicane hanno scelto di dare a questo tentativo di rimanere al potere che fa somigliare la più anziana democrazia del pianeta alla Bielorussia. C’è una partita per prendersi le spoglie del consenso a Trump – non del trumpismo che per ora è vivo e vegeto – e politici cinici scelgono di mettere a rischio il processo democratico pur di essere il campione delle destre conservatrici e avere una chance nelle primarie del 2024.
Questo atteggiamento di una parte consistente del partito repubblicano ci dice forse qualcosa sulla presidenza Biden, parliamo di quella. Innanzitutto sappiamo che il 5 gennaio si voterà in Georgia per i due senatori dello Stato (ognuno ha le sue regole, in Georgia se non si prende il 50% si va al ballottaggio). L’esito di quel voto determinerà se Biden controllerà il Senato o meno, e dunque molto dei primi due anni di Biden alla Casa Bianca. Ora, checché se ne pensi dalle nostre parti, il presidente Usa non è un monarca e senza Congresso difficilmente può imbarcarsi in grandi piani riformatori. Ne avrebbe Biden? Dipende dai punti di vista.
Nel programma elettorale si parla di alcune cose di base, quali disfare il male fatto da Trump alla credibilità e al ruolo americano nel mondo: ritorno nell’OMS e nel Trattato di Parigi, tentativo di recuperare l’accordo nucleare iraniano, dialogo con l’Europa, reintroduzione di regole e limiti in materia ambientale e migratoria stracciati dal presidente ancora in carica, ritorno al multilateralismo. Poi ci sono i piani ambiziosi: migliaia di miliardi per un piano infrastrutturale “verde”, auto elettrica, cancellazione o rimodulazione del debito studentesco, aiuti alle piccole imprese nelle aree marginali, riforma del sistema penale, liberalizzazione della marijuana, introduzione di una public option (la creazione di un’assicurazione sanitaria pubblica come opzione alternativa ai privati), espansione di Medicare e Medicaid, le assicurazioni sanitarie pubbliche per anziani e poveri.
Non è il Green New Deal proposto dalla sinistra americana, ma sarebbe un balzo a sinistra per il partito e per gli Stati Uniti. Cosa può fare Biden senza maggioranza? Molte cose relative alle regole, al funzionamento e gli appalti delle agenzie federali, quali introdurre parametri ambientali, consumi energetici, salario orario minimo. Su alcune questioni (incentivi a chi riporta produzioni industriali negli Usa, infrastrutture) c’è persino la possibilità di una collaborazione con i repubblicani, a meno che il leader Mitch McConnell non abbia in mente un’altra legislatura nella quale il Congresso è un luogo in cui non si vota su nulla e non si decide nulla. Molto dipende da quale strada sceglieranno i repubblicani, dai loro calcoli sul futuro elettorale: c’è chi schierandosi con Trump punta alla conservazione di questa coalizione elettorale estrema – difficile da riprodurre senza un Trump – e chi sa che, senza re-immaginare se stesso, il Grand Old Party rischia di perdere negli anni a venire (i ragionamenti sul consenso nero o ispanico a Trump, che potreste aver letto in questi giorni sono quantomeno esagerati).
E la sinistra? Queste settimane saranno quelle del braccio di ferro e del posizionamento. Si parla molto di posti nell’amministrazione per Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, facile a dirsi, difficile a farsi: i due sono senatori in Stati governati da un repubblicano e quando un senatore si dimette per passare ad altro incarico è questi a nominare un successore. Con il Senato in bilico, regalare un voto ai repubblicani sarebbe suicida. Ma i posti da riempire, le possibili agenzie o autorità da creare sono tante e ci sarebbe modo per dare spazio anche a istanze e figure della sinistra. La scelta di Ron Klain come capo dello staff non discende dalla ricerca di consensi dall’ala sandersiana ma è stata accolta con favore. Sia Klain che la probabile Segretaria al Tesoro, Lael Brainard, (un profilo “tradizionale”, con poca storia nel privato e molto, molto qualificato) hanno delle buone credenziali in materia ambientale.
Il tema di fondo è probabilmente la filosofia da cui Biden si farà guidare. Appare evidente che l’ex vice di Obama non venderà nessuna rivoluzione. Non è la sua natura e non è così che ha fatto campagna elettorale. Ma tra la sua storia politica, anche quella più recente al fianco di Obama, e il 2021 sembra essere passata un’era geologica e il bagaglio di esperienza di Biden sarà utile per la conoscenza della macchina istituzionale e burocratica e dei suoi limiti, non per leggere il mondo contemporaneo. Fortunatamente sembra che diversi pezzi della sua cerchia ristretta abbiano fatto i conti con gli anni ’90. Jake Sullivan, consigliere tra i più ascoltati, che fu cruciale nei negoziati con l’Iran e ha un passato in molti ruoli di politica internazionale, ha scritto un lungo saggio nel 2018 in cui si legge: “Ciò che è cambiato, per via dell’aumento delle disuguaglianze, del massiccio sotto-investimento nei servizi pubblici e degli effetti duraturi della Grande Recessione, è che il canto della sirena della supply side economics sta perdendo terreno a favore di argomenti radicati nell’equità economica, anche tra gli elementi della base repubblicana”. Sullivan non teorizza rivoluzioni, ma un cambio di passo sì, segnalando che per la sinistra non sono più gli anni 90.
Molta dell’azione di Biden dipenderà anche dalla società Usa. Come segnala Sullivan nel suo saggio ci sono temi che trascendono il consenso a presidenti e partiti. Il 3 novembre la Florida (che ha votato Trump) ha approvato un referendum che porta il salario minimo a 15 dollari, l’Arizona un altro che aumenta le tasse ai ricchi per pagare la scuola pubblica e il Colorado il congedo familiare pagato. Nel 2018 l’Oklahoma (65% a Trump) votò per espandere la sanità pubblica. Sui grandi temi, insomma, c’è ampio spazio su cui lavorare. A partire dall’ambiente: la stagione degli incendi in California ha colpito l’immaginario. I referendum approvati negli Stati sono il frutto del lavoro delle campagne e dei movimenti di sinistra. Così come la messa in agenda della necessità di riformare il sistema carcerario e di polizia è frutto della protesta di Black Lives Matter. Né Franklin Delano Roosevelt, né Lyndon Johnson sarebbero stati tanto coraggiosi se non fossero stati sostenuti e incalzati dai sindacati, uno, e dal movimento per i diritti civili, l’altro. Una sinistra che ha saputo mostrare come e quanto sa organizzare la società, che ha voci autorevoli e glamour in Congresso, potrebbe contribuire molto a rendere la presidenza Biden interessante.