Gli impegni presi dall’Unione europea a Parigi e in particolare la spinta verso l’obiettivo degli 1,5° richiedono un cambio di rotta rispetto al modestissimo accordo sul Pacchetto Energia 2030 che prevede obiettivi insufficienti
In quest’anno cosi denso di avvenimenti tragici, a un mese esatto dal sanguinoso attentato di Parigi, la conclusione positiva della COP21 rappresenta una vera boccata d’aria, un momento di sollievo, magari illusorio, magari più desiderato che reale, che ci fa credere che è ancora possibile lavorare come comunità globale, al di là di qualsiasi differenza culturale. Questo si poteva leggere nei volti dei delegati, durante il lungo applauso che ha seguito l’approvazione dell’accordo, segnalata dal martelletto verde di Fabius. Questo c’era nelle dichiarazioni positive praticamente unanimi di ambientalisti, rappresentanti dei verdi e attivisti, che nel corso degli ultimi cinque anni hanno lavorato senza sosta per evitare il fiasco, globale pure quello, di Copenaghen e che, al di là dei gravi limiti e delle numerose incognite del testo, hanno deciso di puntare tutto sui suoi importanti aspetti positivi, per ricominciare la battaglia da subito, forti di una nuova consapevolezza pubblica e di molti nuovi alleati.
A quasi 20 anni dalla firma del protocollo di Kyoto, per la prima volta il cambiamento climatico è esplicitamente un problema di tutti e per tutti; per affrontarlo tutti devono partecipare ed agire: gli Stati, i cittadini, il business, gli investitori. Come? Riducendo a zero le emissioni nette e uscendo dalla dipendenza dai combustibili fossili; finanziando chi già oggi ne soffre le conseguenze e chi deve cambiare economia e sistema energetico per uscire dalla povertà. Ci sarà molto da fare, molti ostacoli sul cammino, molti nemici in agguato, ci vorrà più o meno tempo, ma la strada è ormai stata indicata. Il problema, naturalmente, è che il fattore tempo e il fattore denaro faranno la differenza fra il raggiungere l’obiettivo e il mancarlo e da questo punto di vista non ci sono garanzie certe di successo. A Parigi si sono però poste le basi indispensabili per poter ripartire col piede giusto dopo anni di stallo e indecisione.
Le 39 pagine dell’Accordo non sono di per sé una lettura appassionante e ci sono moltissimi aspetti tecnici astrusi, molte incognite e numerose gravi lacune. Ma il processo che parte da Parigi è dinamico e condiviso e vede il coinvolgimento di una parte sempre più rilevante del business e della finanza oltre che di una società civile molto più capace di mobilitarsi e incidere che in passato; si potrebbe dunque determinare un’accelerazione virtuosa verso quel cambio di paradigma che gli ecologisti invocano da tempo. A Parigi abbiamo finalmente assistito ad un forte attivismo di questi attori “non-statali”, basti pensare che nel registro istituito dall’UNFCC per la “zona di azione degli attori non governativi” ci sono state più di 10.000 registrazioni e gli annunci di aumento di investimenti in rinnovabili, efficienza, difesa del suolo e molti altri settori si sono moltiplicati. Vedremo.
Ecco alcuni tra i punti dell’Accordo più rilevanti.
1) 2° C o 1,5° C?
Nel 2010, alla COP di Cancun, si menziona per la prima volta l’obiettivo di limitare il riscaldamento del pianeta a 2°, “considerando se si dovrà ridurlo a 1,5”. A Parigi, l’Accordo si è attestato su una formulazione che parla di un obiettivo “di molto inferiore ai 2°” e mira a “proseguire negli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°”. È più che evidente che per realizzare questi obiettivi dovranno cambiare molte cose, anche in Europa. L’uscita dai fossili diventa una prospettiva comune e non messa più in dubbio.
2) Fuori dai fossili, “volontariamente”
Lo strumento più importante per ridurre le emissioni sono i cosiddetti INDC (Intentional Nationally Determined Contributions), cioè gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni. Il limite del sistema messo a punto a Parigi è che si basa su target nazionali disparati e assolutamente insufficienti, e che settori importanti come l’aviazione e la navigazione continuano a rimanere fuori dal calcolo. L’Accordo, che entrerà in vigore nel 2020, è legalmente vincolante quanto all’obbligo degli Stati di presentare i contributi nazionali alla riduzione globale delle emissioni, ma i target individuali e le misure per raggiungerli non sono vincolanti e non lo sono neppure gli impegni a contribuire finanziariamente per andare incontro ai paesi in via di sviluppo. Ad oggi, anche se fossero rigorosamente attuati, gli impegni nazionali di riduzione non impedirebbero di arrivare a 3°/3,7° di aumento della temperatura alla fine del secolo: evidentemente troppi per evitare conseguenze catastrofiche ormai chiare a tutti. La sfida più importante di Parigi e la ragione per la quale molti hanno parlato soltanto di un inizio di un processo che sarà ancora lungo, è esattamente la distanza fra obiettivi, intenzioni e strumenti e l’assenza di strumenti legali vincolanti. Questi sono sostituiti, almeno per ora, da un complesso sistema di controllo, revisione, dialogo e preparazione prima e dopo il 2020, che si spera permetterà di rivedere al rialzo i target di riduzione ed assorbire il gap attuale. Il punto che rimane aperto è quando questa revisione sarà fatta davvero. Su questo punto, si sono spese ore e notti insonni ai negoziati di Parigi.
3) E in Europa?
Gli impegni presi dall’Unione europea a Parigi e in particolare la spinta verso l’obiettivo degli 1,5° richiedono un cambio di rotta rispetto al modestissimo accordo sul Pacchetto Energia 2030, che prevede obiettivi di riduzione delle emissioni del 40% (invece del 55%) e di promozione di efficienza energetica e rinnovabili assolutamente insufficienti (27% non vincolanti a livello nazionale) ad assicurare il rispetto della traiettoria dei 2°, figuriamoci per quella di 1,5°! Sarà molto importante mantenere una forte pressione sull’UE (e sull’Italia) nel corso dei prossimi mesi, dato che si prepara per il 2016/2017 una serie importante di nuove direttive su clima ed energia che va dall’efficienza energetica, al sistema di scambio di emissioni, fino alle rinnovabili, oltre all’importantissimo pacchetto sull’economia circolare. Dal modo in cui l’UE saprà legiferare in questi settori, abbandonando le ambiguità “fossili” che ancora sono molto forti ed influenti, capiremo se a Parigi si è fatto sul serio oppure no. Non sarà facile, ma la dinamica messa in moto a Parigi e una maggiore visibilità dei settori economici “verdi” oltre alla mobilitazione di associazioni e movimenti potranno fare molto.
Anche l’Italia, che ha giocato un ruolo di tranquilla retroguardia a Parigi, dovrà davvero cambiare strategia e politica energetica: niente trivelle, inceneritori, rigassificatori, gasdotti; nuove regole e finanziamenti per rinnovabili ed efficienza energetica. Non partiamo da zero. È di pochi giorni fa la notizia che il Governo ha deciso di abbandonare le trivelle entro le 12 miglia marine, per evitare il referendum promosso dalle regioni. Questo è un primo risultato raggiunto dalla “No Triv”, ma anche dalla lunga campagna estiva di Possibile alla quale ha partecipato anche Green Italia. Ma è chiaro che dovranno seguirne molti altri.
4) Money, money, money
Come era ampiamente previsto, la questione di quanto e chi dovrà finanziare la mitigazione e l’adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici – in particolare nei confronti dei paesi meno avanzati – e di quale dovrà essere il contributo delle economie emergenti (che se è vero che non hanno responsabilità per il passato ne hanno di ingenti per il presente e il futuro) è stata una delle questioni più bollenti e complicate da gestire. Si partiva dall’impegno preso a Copenaghen dai paesi più ricchi di contribuire con fondi pubblici e privati che dovevano crescere per arrivare a regime nel 2020 a una somma di 100 miliardi l’anno. Oggi non andiamo oltre i 57 miliardi di dollari secondo i dati dell’OCSE e questi dati sono peraltro contestati da molti, India in testa. Alla fine, l’accordo non è proprio esaltante. Si rimane sulla somma di Copenaghen per i paesi più ricchi, con l’impegno di proporre per dopo il 2025 un target di finanziamento addizionale ai 100 miliardi attuali, che non sono più un tetto massimo, ma la base di partenza. E i paesi “non-Ocse” sono solo “incoraggiati” a contribuire. Come si vede, la questione di come finanziare in modo equo l’uscita dai fossili – e le azioni per limitare i tragici effetti che il riscaldamento del pianeta porterà nei prossimi decenni – è ancora molto incerta.
Ci sarebbe naturalmente ancora molto da raccontare su questo Accordo, ma per adesso mi preme sottolineare nuovamente che a Parigi si è scritta una pagina incoraggiante, ma per certi versi ancora vuota. Starà a noi tutti, politici, attivisti, operatori economici, amministratori locali, portatori e portatrici di tutte le sfumature del “verde” fare in modo che non si sia trattato solo di un momento di auto-illusione collettiva.