Il VI rapporto Ipcc spiega ciò di cui ci eravamo già accorti: il turbocapitalismo sta accelerando la distruzione del pianeta e siamo fuori tempo massimo per arrestare il riscaldamento a 1,5 gradi al 2030. Ma può andare peggio. La Cop26 di Glasgow in autunno sarà cogestita da Londra e Roma.
Il sesto rapporto degli scienziati sullo stato del clima è arrivato e la vera novità è che la voce dell’Intergovernmental Panel on Climate Change non assomiglia più al grido di una Cassandra. Questa volta la relazione costata sette anni di lavoro su modelli matematici e studi sul campo ai 234 scienziati di 66 paesi per conto delle Nazioni Unite ha il lugubre suono di un rumore di fondo. Che i cambiamenti climatici catastrofici si stiano accelerando di frequenza e intensità è ormai sotto gli occhi di tutti, anche dei più scettici, tra incendi indomabili, inondazioni a tutte le latitudini, venti che anche quando non prendono l’aspetto di uragani sembrano ormai indomabili e anomali, siccità e desertificazioni, terre incendiate da picchi di calore mai visti.
Non a caso l’ormai maggiorenne Greta Thumberg si dice “non sorpresa” dai risultati dell’Ipcc. Definisce il sesto rapporto solo un «solido (ma cauto) compendio delle migliori cognizioni scientifiche del momento». Il suo commento alla fine è lapidario: «Non ci dice quello che dobbiamo fare» ma a questo proposito ricorda che «dipende da noi essere coraggiosi e prendere decisioni sulla base delle prove scientifiche fornite da questi rapporti. Possiamo ancora evitare le peggiori conseguenze – e conclude – ma non se continuiamo come oggi e non affrontiamo una crisi come una crisi».
Ma cosa dice il rapporto che, seppure già sappiamo, è meglio ricordare con una bella spolverata di allarme? Dice ad esempio che in gran parte il sistema di produzione e consumo che va sotto il nome di turbocapitalismo e si è ormai esteso fino al più remoto villaggio di nativi dell’Amazzonia – non lo dice in questi termini, ma si fa per mettere i puntini sulle i – è ormai andato fuori dalla zona della compatibilità con l’equilibrio climatico. Il ritmo della devastazione si è molto accelerato attraverso effetti moltiplicatori come l’alterazione del ciclo delle acque e lo scioglimento dei ghiacciai dell’Artico. La zona oltre il circolo polare ha in effetti smesso di essere il grande regolatore termico della terra ed è diventato un calorifero spinto alla massima potenza, lì il riscaldamento atmosferico ha effetti più intensi dalle due alle tre volte rispetto al resto del pianeta.
Gli studi condotti nei mari artici da équipe di scienziati americani anche recentemente hanno confermato che sciogliendosi il permafrost enormi masse di metano un tempo imprigionate nelle profondità dei ghiacci vengono in superficie e contribuiscono oltre ad una accelerazione ulteriore dello scioglimento, ad alimentare l’effetto serra. Perché, questo l’Ipcc lo mette in evidenza, “il principale motore del cambiamento climatico resta l’anidride carbonica o CO2” ma anche altri gas – in particolare proprio il metano – collaborano non poco. Ciò la dice lunga sulla strategia del ministro alla transizione ecologica Roberto Cingolani ancora imperniata in gran parte sul gas come energia “pulita”. L’Ipcc scrive, papale papale, che “anche limitare l’estrazione e l’impiego di metano porterebbe benefici alla salute e al clima”. Senza poi voler aggiungere parole sulle tremende responsabilità politiche bipartisan per i continui rinvii sull’entrata in vigore delle norme plastica-free per sottostare ai miopi voleri degli industriali padani del settore.
Per il resto gli obiettivi fissati nel 2018 dagli scienziati dell’Onu per il 2030, nell’attuale aggiornamento degli studi vengono anticipati. Per alcuni aspetti, e ce ne eravamo resi conto anche empiricamente e guardando il telegiornale, siamo già fuori tempo massimo. Alcune conseguenze del riscaldamento globale, come lo scioglimento dei ghiacci e l’aumento del livello dei mari sono ormai irreversibili, resteranno così, se non si aggraveranno, per secoli o millenni. Il pianeta subirà un aumento senza precedenti degli eventi meteorologici estremi anche se riuscirà a limitare a +1,5 gradi il riscaldamento globale. L’obiettivo è correre ai ripari il più velocemente possibile e su scala planetaria perché non peggiori ulteriormente. E già ora del resto si calcola che la temperatura media del pianeta Terra sia aumentata di 1,1 gradi. Quindi resta poco margine per evitare che sia superata anche l’asticella degli Accordi di Parigi dei 2 gradi centigradi in più in media. Superata quella soglia i mari inizierebbero a salire di 50 centimetri entro la fine del secolo, e fino a due metri entro il 2100 in caso di un drastico e possibile accelerato scioglimento della calotta glaciale.
Questo è il quadro generale, che poi il rapporto approfondisce con focus dettagliati per le varie regioni del globo. L’Europa e il Mediterraneo emergono tra le zone dove l’impatto, non solo antropico ma anche climatico generale, avranno maggiore rilievo. Quindi chi dice, tra Confindustria e la destra econegazionista, che non ha senso spingere sul freno e sulla neutralità climatica perché sono altre le parti del mondo che continuano a contribuire di più al riscaldamento climatico, dovrebbe prima di tutto pensare che essendo tra i più esposti dovremmo di certo essere i più sensibili e volenterosi. L’India è ancora più esposta ai mutamenti in atto, ma ha sicuramente meno possibilità di noi europei di prendere coscienza del problema e invertire la rotta.
Intanto tra il 28 settembre e il 2 ottobre si svolgeranno eventi divulgativi, indirizzati soprattutto ai giovani, dei risultati degli studi dei panel Onu sul clima. Poi sarà la volta della Cop26 che dovrà decidere il da farsi. E sarà l’Italia insieme all’Inghilterra di Boris Johnson a dover organizzare e gestire il summit mondiale sul clima più importante per la sopravvivenza di miliardi di individui e ecosistemi, a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021. Auguri a tutti noi e se non riusciamo ad avere migliori decisori politici, almeno piantiamo alberi.