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C’è modo e modo di “fare i conti” con la natura

La natura può avere un valore economico? È una forzatura assegnare un corrispettivo monetario a “servizi” che ci vengono forniti gratuitamente da essa, e considerare l’ecosistema che li genera come una riserva di valore finanziario accumulato. Eppure, questo avviene sempre più spesso…

L’Agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile (2015), afferma di voler «integrare i valori degli ecosistemi e della biodiversità nelle pianificazioni nazionali e locali e nei processi di sviluppo» (Target 15.9). Giusto, ma ci sono due modi opposti di intendere l’“integrazione”: sottoporre rigorosamente le attività antropiche alle leggi biogeofisiche che regolano gli ecosistemi (la fisiologia della natura: strutture, processi, funzioni dei sistemi naturali), oppure ridurre la natura a “capitale” considerandola un giacimento di sostanze, sistemi e servizi che possono avere un qualche utilizzo economico e piegarla alla logica di mercato.

Inutile dire che i decisori politici e i loro fidi consiglieri, gli economisti, intendono procedere per la seconda strada. Lo strumento “scientifico” che si sono dati per attribuire ai servizi ecosistemici un valore economico scambiabile sul mercato si chiama Contabilità del Capitale Naturale. Una metodologia complessa di contabilizzazione degli stock di materia e di biodiversità, il cui culmine è contrassegnare gli ecosistemi e i loro servizi in valuta corrente. Lo scopo dichiarato è quello di spingere le imprese ad apprezzare maggiormente il valore dei beni naturali utilizzati durante i processi produttivi e incorporarlo nel prezzo dei prodotti. Si pensa, operando in tal modo, di riuscire ad ottenere una “crescita verde”, equilibrata e sostenibile.

In questa ottica la quantificazione del valore economico dei servizi ecosistemici è considerata premessa indispensabile per la creazione di transazioni economiche e finanziarie che hanno come sottostanti tali servizi. Ciò avviene già con l’Emission Trade System (“crediti di carbonio”), i PES (Pagamenti di servizi ecosistemici), i bond e i vari tipi di obbligazioni garantite da cespiti patrimoniali naturali, ovvero da miglioramenti del loro rendimento, anche in termini di “capitale reputazionale”.

Poderosi studi documentano possibilità e limiti dei sistemi di contabilizzazione monetaria degli stock e dei flussi generati dai cicli vitali naturali. Vedasi l’attività dell’International Society for Ecological Economics e il progetto di ricerca The Economics of Ecosystems and Biodiversity. Dal 2012 è stato istituito anche l’Intergovernamental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES). La Commissione statistica delle Nazioni Unite ha adottato nello stesso anno il System of Environmental-Economic Accounting (SEEA), un modello articolato di rappresentazione dell’insieme dei rapporti tra economia e natura attraverso cui è possibile “integrare i conti ambientali nella contabilità nazionale”.

Accanto alla parte consolidata e non controversa di tale modello, adottata come standard per la statistica ufficiale, con la quale si raccorda il mondo biofisico alle attività economiche senza schiacciarlo sulle seconde, è stato formulato un sistema di “conti sperimentali degli ecosistemi”. Questi, se per una parte offrono la possibilità di una rappresentazione biogeofisica degli ecosistemi (estensione, condizioni, ecc.) su base territoriale e con l’utilizzo di classificazioni dettate dalle scienze naturali, per la restante parte concretizzano la possibilità di attribuire alla natura un valore monetario finito attraverso l’introduzione del concetto di “servizi ecosistemici” e l’individuazione dei “benefici economici” da essi forniti.

2.

Ora, una parte degli esperti del SEEA e alcune istituzioni internazionali tra le quali troviamo in prima linea la Banca Mondiale, non soddisfatti dello status sperimentale dei conti degli ecosistemi, sta rielaborando questa parte del sistema, con l’obiettivo di fare anche di questo uno standard ufficialmente riconosciuto dalla comunità statistica internazionale e dare così un peso e un’aura di attendibilità ben maggiori di quello attuale alle valutazioni monetarie dei vari “pezzi” di natura o di aspetti del suo funzionamento (precisamente, ci si riferisce ai cosiddetti “servizi finali”, cioè quelli che hanno una immediata utilità per gli esseri umani).

Un compito che presenta ostacoli sia tecnici che teorici, oltre che limiti epistemologici e di utilità per le politiche socioeconomiche. Infatti, anche ammettendo che ciò abbia un senso, non è facile traslare un valore non economico in uno monetario. Rimanendo a noi, gli indicatori di base della vitalità della biosfera (che dipende dalla complessa interrelazione di geni, specie e ambiente, essendo la realtà fisica una rete di relazioni inscindibili) sono fisici e si misurano in chili, litri, metri, secondi, ampere, joule, tesla… unità tra loro non equivalenti. Quelli economici si misurano in dollari, euro e yuan, valori convertibili. Come si sa, comparare pere e mele è sempre stato difficile anche per i più raffinati scienziati.

Ma al calcolo economico sono sufficienti valori omogenei o convertibili, sempre comparabili. Nel calcolo economico intervengono solo marginalmente gli aspetti psicologici e sociali più impalpabili e fondamentali (il gusto, le tradizioni, la percezione dei rischi, le sensibilità sentimentali, il senso morale, ecc.) che variano nel tempo e nei luoghi la scala dei valori di riferimento. Non è quindi il calcolo, ma un altro tipo più profondo di saggezza, a dover guidare le scelte di fondo. Pensiamo alle lotte dei popoli indigeni a difesa di territori e fiumi che hanno valore sacrale, oltre che simbolico o estetico, alla profonda saggezza intrinseca nel considerare la terra come qualcosa che abbiamo preso in prestito dai nostri figli e non come un cespite ereditato dai padri.

Potremmo dire, facendo un gioco di parole che per poter assegnare un “valore alla natura”, dovremmo prima metterci d’accordo sulla “natura del valore” che vogliamo prendere a riferimento. Oppure potremmo tagliare corto ogni riflessione filosofica dicendo che nel mondo contemporaneo, dominato dalla globalizzazione economica, il pensiero e il sentire prevalenti sono quelli utilitaristici e che quindi è inevitabile che nell’era dell’Antropocene popolata dall’homo oeconomicus, tutto ciò si rifletta nell’adozione del valore monetario (che misura il valore di scambio di una merce) a misura unica di ogni cosa, bene e servizio. Ma la rassegnazione e la resa al pensiero neoliberista non hanno portato grandi frutti, quindi insistiamo nel cercare la natura del valore.

Non chi sei – domandiamo –, ma quanto guadagni. Non a cosa serve, ma quanto costa. Non da dove viene, ma di chi è. In tal modo però si perdono di vista tutti i valori delle cose e delle relazioni che non entrano direttamente e immediatamente nella catena di valorizzazione del denaro. Per paradosso, se nelle intenzioni degli inventori del concetto di Capitale Naturale (i padri nobili sono gli economisti Ernst Friedrich Schumacher, Robert Costanza, Herman Daly) vi era l’intento di rendere visibile anche agli economisti e ai politici il valore basilare, essenziale, intrinseco della natura, ora invece, attraverso i modelli che riducono la fisiologia della biosfera a flussi di valori di scambio e vedono l’importanza della biosfera meramente nell’essere riserva di tali valori, si ottiene il risultato contrario: la banalizzazione e la obliterazione dei valori non economici della natura.

3.

In Italia, con la legge n. 221/2015 “Disposizioni in materia ambientale”, al fine di «promuovere misure di green economy», è stato istituito un Comitato per il Capitale Naturale presieduto dal ministro all’Ambiente e composto da vari Ministri, da Istat, Ispra, Cnr, Enea, Banca d’Italia, da vari esperti tra cui due ex ministri (Enrico Giovannini e Edo Ronchi) e dai direttori scientifici di WWF, Lipu, Legambiente (Gianfranco Bologna, Danilo Selvaggi, Giorgio Zampetti) e vari professori universitari, espressione di punta delle scienze ecologiche in Italia. Nel dicembre del 2019 il Comitato ha pubblicato il Terzo Rapporto sul Capitale Naturale. Un documento di grande interesse per la mole di dati analizzati sullo stato di salute degli ecosistemi e per i dubbi che suscita circa l’applicazione del sistema dei conti ambientali, per la parte di valorizzazione degli ecosistemi e dei loro servizi resi gratuitamente all’umanità.

È sempre più necessario e giusto che l’economia tenga in buona considerazione la natura, non ignori il suo valore basilare, essenziale, altrimenti il “consumo di natura” rischia di superare la capacità di carico degli ecosistemi e di collassarli. Ha scritto saggiamente Gianfranco Bologna: «Se non saremo capaci di connettere seriamente l’economia e l’ecologia nei nostri modelli di sviluppo sarà veramente difficile fare passi in avanti verso un mondo più sostenibile»[1].

Quando le attività antropiche rompono i cicli vitali ecosistemici e si superano “i confini del pianeta” (Planetary Boundaries), le forze della natura sembrano ribellarsi – in realtà trovano semplicemente dei nuovi equilibri evolutivi – e provocano distruzioni nella fragile “seconda natura” (l’habitat artificializzato, gli strumenti esasomatici) che gli esseri umani si sono costruiti attorno. Vi sono attività economiche sempre più diseconomiche, proprio perché provocano più danni che utilità, anche in termini squisitamente monetari. È noto uno studio commissionato qualche anno fa dal governo della Gran Bretagna allo staff dell’economista Nicholas Stern, che dimostrò come l’incidenza dei costi di ripristino, mitigazione e adattamento (un paio di punti di Pil) causati dal riscaldamento del clima superi il valore degli investimenti necessari per evitarli.[2]

Insomma, anche nella logica costi/benefici, la prevenzione è sempre più economica. Il Pil, invece, potrebbe aumentare a seguito di catastrofi ambientali. Uno dei motivi della crescita di 3 punti del Pil nel 2017 negli Stati Uniti furono gli uragani Harvey e Irma, come ebbe a dire Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analitics: «Il recupero da eventi meteorologici estremi può aiutare l’economia espandendo la spesa dei consumatori»[3]. Il famoso volume Shock Economy[4], di Naomi Klein, spiegava bene i meccanismi.

Inoltre, molte “risorse” naturali presentano dei limiti fisici che le rendono sempre più scarse, quindi rare e preziose, così da condizionarne l’uso. Da qui il proliferare di metodiche e normative volte a valutare le pressioni e gli impatti antropici (footprint ecology) delle diverse attività economiche nei diversi contesti naturali. Un lavoro di classificazione ciclopico che tiene impegnate schiere di analisti, statistici, matematici, modellisti dovendo mettere a sistema una serie enorme di informazioni relative a vari domini dello stato dell’ambiente naturale e le pressioni che le diverse classi di attività antropiche esercitiamo su di esso.

Una problematica non semplice da gestire considerando che gli ecosistemi naturali e i cicli di vita sono per definizione correlati e interdipendenti. Per gli scienziati della Terra (naturalisti, biologi, geologi, geografi, agroforestali, ecc.) non è facile prevedere, valutare e calcolare l’entità e la gravità delle pressioni antropiche. Tant’è che – a fronte di palesi fallimenti – ad un certo punto si è fatta strada la necessità di prendere in considerazione il più saggio dei principi “della nonna”: quello di precauzione, contenuto già nella Dichiarazione di Rio del 1992 e citato anche nell’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (2007). Il suo scopo è garantire un livello di protezione preventiva dell’ambiente in caso di assenza di certezze scientifiche sui rischi di determinate azioni. Inutile ricordare che un principio tanto di buon senso comune quanto vago non sta avendo alcuna pratica attuazione. Basti pensare alla continua immissione in commercio di nuove sostanze chimiche di sintesi non sufficientemente testate.

Ben venga, quindi, un’attenzione che faccia emergere i costi ambientali nascosti, non contabilizzati dalle aziende (esternalizzazioni), e contro-produttivi delle attività economiche. Ma c’è modo e modo di “fare i conti” con la natura. C’è una bella differenza tra “tenerla da conto”, cioè preservarla, o “metterla sul conto delle spese”, nel novero, cioè, delle cose destinate a perdersi!

4.

Con i primi studi dello staff di Robert Costanza pubblicati nel 1997 su Nature[5], in cui il valore globale dei servizi ecosistemici veniva stimato in 33 trilioni/anno di dollari, aggiornato nel 2007 in 145 trilioni/anno (due volte il Pil mondiale), è stato inaugurato uno specifico campo di ricerca e un vero e proprio progetto scientifico chiamato Natural Capital Accounting, spesso esplicitamente – e significativamente – connesso alle “policy”.

Secondo un altro studio[6] la perdita di valore dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di capitale naturale e alla perdita di biocapacità rigenerativa sarebbe di 23 trilioni di dollari ogni anno. Oggi esistono infinite iniziative per cercare di armonizzare i criteri e canonizzare le modalità di ricerca, come tenta di fare il manuale delle Nazioni Unite sui conti sperimentali degli ecosistemi, in corso di revisione.

Con il crescere delle evidenze della crisi ecologica è invalsa l’idea di considerare l’immensa ricchezza bio-geo-chimica della Terra come un insieme di stock di beni e di flussi di servizi ecosistemici che costituiscono un patrimonio non troppo dissimile da altri a disposizione dell’umanità, tanto da “meritare” l’appellativo di capitale. Un’impostazione assai equivoca e pericolosa.

Poiché, se da un lato riscopre un concetto antico e cioè che «La natura è la fonte dei valori d’uso (e di tali valori consta la ricchezza reale!)» – come ebbe a scrivere Karl Marx nella Critica al programma di Gotha riprendendo una costatazione persino banale che risale a William Petty, economista e politico inglese del Seicento –, dall’altro lato l’idea che la Terra sia una riserva, un giacimento, un deposito di servizi da mettere a frutto nei processi economici, un “capitale” appunto, non è al fondo diversa da quella – che si vorrebbe tanto abbandonare – in cui si vedeva la natura un agglomerato di sostanze da mettere a frutto nei processi economici e induce al più grave degli errori in cui è caduta l’antropologia culturale occidentale antropocentrica: quello di credere di poter disporre del creato e non invece di esserne parte, di dipendere da esso.

Un errore non solo filosofico ed etico, ma portatore di conseguenze pratiche immediate in termini di sovrautilizzo (overshoot), degradazione ed esaurimento delle risorse disponibili “a buon mercato”[7]. Questa situazione di crescete “scarsità” conduce inevitabilmente ad ampliare la competizione sociale e i conflitti geopolitici.

Quindi: «Ha senso attribuire un valore economico alla natura?», come i chiedono gli stessi estensori del Terzo Rapporto sul Capitale Naturale. I quali continuano: «Per cedere i frutti sul mercato? Per ripristinare una funzionalità perduta?». È sicuramente una forzatura logica attribuire un valore monetario, cioè di mercato, a “servizi” che ci vengono forniti gratuitamente dalla natura, e considerare l’ecosistema che li genera al pari di un asset, di una riserva di valore finanziario accumulato e capace di generare interessi a chi ne dispone l’uso. Eppure è ciò che avviene sempre più spesso.

5.

Abbiamo recentemente scoperto, grazie al Coronavirus, l’esistenza dei Cat.Bond, Catastrophe Bond e Pandemic Bond emessi dalla Banca Mondiale (e non solo) per raccogliere capitali da impiegare in casi di catastrofi naturali in paesi colpiti e bisognosi di aiuti. Inutile dire che i tassi di interesse concessi agli investitori sono altissimi (fino all’12,1% nel caso del bond da 95 milioni di dollari emesso nel 2017 dalla MB legato ad Ebola ed altre epidemie), ma ad alto rischio. Infatti, nel caso si verifichino davvero le catastrofi i capitali investiti nei bond vengono incamerati e usati come prestito ai paesi che ne hanno bisogno.

E addio rendimenti per i detentori dei bond, che poi sono banche e gestori di fondi. Insomma, una scommessa bella e buona, con le banche che fanno da biscazzieri. Ma non scoraggiatevi: molte compagnie di assicurazione specializzate nelle ri-assicurazioni delle assicurazioni hanno emesso prodotti finanziari derivati che assicurano gli investimenti in Catastrophe Bond anche in caso si verifichino catastrofi.

Ci informa Salvatore Cannavò: «Esiste una Borsa di scambio dei titoli catastrofici, il Catex con sede nel New Jersey, in cui chi è esposto su una catastrofe può coprire il rischio con un altro evento che magari non si verifica»[8]. Marco Bersani di Attac ha raccolto questa svelatrice dichiarazione di Mukesh Chawla, coordinatore delle strutture di emergenza per le pandemie della Banca Mondiale: «Se riusciamo a mettere in gioco il denaro privato e continuare a migliorare la struttura dei bond e rendere facile e redditizio per i paesi acquistare l’assicurazione, allora questo può diventare un processo attraverso il quale i paesi possono auto-finanziarsi con il passare del tempo, piuttosto che fare affidamento sull’assistenza dei donatori»[9].

La strategia capitalistica di «assicurarizzazione del mondo» – come la chiama l’economista Luigino Bruni, cioè «il progressivo e veloce allargamento dell’area della vita sociale coperta da contratti assicurativi […] che è alla base dei titoli derivati che sono forme sofisticate di assicurazione (o meglio di scommesse) dove si guadagna anche sulle sciagure altrui»[10] – ha bisogno di contabilizzare la vita in forma di monetary accounting units, riducendola a valore di scambio. La moneta è puro valore di scambio. La moneta è l’incarnazione della fungibilità e trasferisce queste proprietà a tutto ciò cui essa è applicata come misura.

Come scrive George Monbiot editorialista del Guardian, l’applicazione di un valore monetario ai servizi ecosistemici abbatte una parete cognitiva e lo fa esplicitamente quando stima e attribuisce un “valore” e un “prezzo” attraverso la simulazione di mercati ipotetici. «Un segno di sterlina o dollaro piazzato davanti a qualcosa che non sia acquisibile con denaro è privo di senso: un prezzo rappresenta un’aspettativa di pagamento, corrispondente all’andamento del mercato»[11].

La monetizzazione dei beni e dei servizi ecosistemici apre la strada alla loro commodification – quantomeno la rende plausibile – in continuità con la lunga prassi capitalistica delle enclosures, recinzioni-appropriazioni delle commons pool resouces, come “accumulazione originaria”. Una pratica ingiusta poiché crea esclusioni e privilegi, ed anche antiecologica poiché spinge al sovra-sfruttamento del bene. È difficile pensare che lo strumento del mercato (per quanto possa essere ben regolato dalle leve fiscali, monetarie e giuridiche) possa risolvere i problemi del degrado delle risorse naturali e della perdita di biocapacità che il mercato stesso ha provocato. Un vero controsenso.

6.

Il giusto obiettivo di conciliare le ragioni della preservazione della vita sulla Terra con quelle dell’economia (del benessere materiale dei suoi abitanti) non può risolversi assegnando un “giusto prezzo” ai beni naturali. La Terra non la si salva vendendola a pezzetti. Se non fosse altro per la ragione che si tratta in gran parte di beni e servizi non rinnovabili, insostituibili e fondamentali per la riproduzione di ogni forma di vita. Beni, insomma, universali, che andrebbero sottratti dalla disponibilità di chicchessia: singola persona, gruppo sociale, nazione, generazione, specie.

Attribuire un valore monetario ad un bene naturale (la valutazione monetaria del mondo naturale) genera pericolosi equivoci. Se da un lato proietta nel linguaggio dell’economia politica dominante l’ombra della ricchezza naturale essenziale, effettuale e intrinseca dei beni naturali, dall’altro rende plausibile la loro sussunzione effettiva – oltre che concettuale – nella sfera dei valori di scambio di mercato e offre gli strumenti logici alla appropriazione dei beni comuni naturali e alla loro mercificazione. Ha scritto il filosofo delle scienze cognitive Roberto Casati: «Uno degli argomenti chiave contro la monetizzazione della natura è che – notoriamente – l’occasione fa l’uomo ladro, anzi, predatore. Se si decidesse che il valore economico della foresta di Fontainebleau è di quaranta miliardi di euro, prima o poi qualcuno troverà che sia una buona idea venderla (“cartolarizzarla”)»[12].

L’espediente di attribuire un “prezzo” e stabilire un “costo” monetario all’utilizzo degli stock e dei flussi di materie primarie potrebbe forse spingere le singole imprese economiche ad economizzare il loro impiego (efficientare i processi produttivi, minimizzare gli scarti, riutilizzare i rifiuti… con il risultato di diminuire la intensità di materia per punto di Pil) e quindi a mitigare gli impatti per unità di prodotto e a procrastinare l’esaurimento delle risorse, ma è destinato a fallire se contestualmente non viene drasticamente ridotto il volume globale complessivo dei flussi di materiali e di energia impiegato nei cicli produttivi e di consumo.

Se l’urbanizzazione non arretra fino a lasciare libera alla Wild Life almeno la metà della superficie terrestre (oggi ne occupiamo i 2/3), così come gli oceani e i mari. Se le risorse non riproducibili non vengono lasciate sotto terra. Se non finisce l’ecatombe di 70 miliardi di animali di allevamento macellati all’anno. Se non si pone alla capacità del lavoro umano di trasformare la materia in merci – e inevitabilmente con esse in residui che tornano nell’ambiente come corpi ad esso estranei, stravolgendolo – un limite compatibile con gli equilibri naturali.

Il concetto che è alla base del Capitale Naturale veicola l’idea di un capitalismo ecologico che è capace di introiettare i limiti planetari cui deve sottostare la crescita economica e di autoregolarsi pur rimanendo nella logica del mercato, cioè senza interferire sulla libera espressione delle preferenze dei singoli consumatori. Un capitalismo miracoloso che impara da solo a interiorizzare le esternalità e a fornire beni e servizi sostenibili mettendo in pratica l’economia circolare.

Il capitalismo ecologico aborrisce ogni imposizione statalista. Non ama le tassazioni ecologiche (come la carbon e la plastic tax), le pianificazioni urbanistiche, le nazionalizzazioni dei “monopoli naturali”, né ogni forma di programmazione economica pubblica. Preferisce manovrare con i mercati delle emissioni, le leve monetarie, la concorrenza, la filantropia nei casi più commoventi di “fallimento del mercato”.

7.

I Rapporti sul Capitale Naturale del Ministero per l’Ambiente rimangono inevitabilmente all’interno dei margini di equivocità del modello concettuale della natura come serbatoio, ma va evidenziato come essi contengano una mole preziosa di dati e di informazioni sullo stato dell’ambiente italiano che altrimenti nessuno raccoglierebbe organicamente, corredata da interessanti confronti internazionali. Da questi risulta che il decennio dedicato dall’Onu alla Biodiversità si chiude con un bilancio drammatico: si riducono le aree utili per gli habitat delle piante e degli animali mentre aumenta il consumo di suolo urbanizzato; si riduce la capacità degli ecosistemi di regolare il clima e di biodegradare gli agenti nocivi e patogeni; diminuisce la impollinazione e la dispersione dei semi; aumenta l’acidificazione dei mari e il loro inquinamento; peggiora la distribuzione dell’acqua; persiste l’inquinamento atmosferico specie in alcune aree metropolitane.

Il Rapporto poi, sulla scorta di specifici focus mette in evidenza alcune criticità economiche, ad esempio: il danno monetizzabile dovuto alla perdita di suolo produttivo per produzione agricola ammonta a 424 milioni di euro l’anno; il costo sociale monetizzabile annualmente evitato grazie al servizio di sequestro del carbonio fornito dai mari varia tra i 9,7 e i 129 milioni di euro l’anno e quello evitato grazie al servizio ecosistemico di controllo dell’erosione dei terreni varia da 34,8 a 149 miliardi di euro. E così via. Peccato che queste e simili cifre – che in sé misurano la perdita effettiva o potenziale di valori prodotti – vengano spesso presentate in letteratura come “il valore” dei corrispondenti servizi ecosistemici. Per contro, a fronte di poche e decrescenti risorse destinate alla conservazione degli ecosistemi, evidenzia ancora il Rapporto, vi sono nascosti nelle pieghe del bilancio dello stato molti più consistenti sussidi dannosi alla biodiversità.

Il Terzo Rapporto in particolare è interessante poiché problematizza e relativizza il concetto di Capitale Naturale proponendo di introdurre una distinzione tra natura “per noi” e “per sé”. La natura “per sé” andrebbe a costituire un “super-Capitale” naturale intangibile. «Esiste un ambito della natura che non è direttamente rivolto a noi, non è risorsa, non è servizio, non è uso e consumo e, per certi versi, nemmeno è Capitale. È un super-Capitale, un patrimonio di valore superiore». E ancora: «Il super-Capitale è anche ciò che permette la (e concorre alla) esistenza del Capitale. È natura che crea natura (torna alla natura) e quindi anche servizi per l’umanità. È fine ma anche mezzo. È il giusto, ma anche l’utile»[13].

Non vi è dubbio che l’impostazione sia idealistica, che la scommessa sia giocata sulla forza della pura volontà (di non mercificare la natura, nonostante si accetti la monetizzazione dei suoi servizi) e che al centro, super o normale che sia, rimane il Capitale, con la Natura a fare da aggettivo… ma almeno l’ambiguità d’intenti è scongiurata, e il policy maker avvertito: non si usino gli argomenti del valore economico per allungare le strade che ci han portato a vedere il precipizio.

 

Note bibliografiche

[1] G. Bologna, La natura ha un valore, anche economico, In “Ecoscienza”, n. 3, 2010. Cfr. anche il documento del WWF, Verso un’economia ecologica. Dare valore al Capitale Naturale, 2017.

[2] Cfr. N. Stern, The Economics of Climate Change: The Stern Review, 2006: http://www.lse.ac.uk/GranthamInstitute/publication/the-economics-of-climate-change-the-stern-review/

[3] Citato in Il Giorno, “L’America torna locomotiva”, 28 ottobre 2017.

[4] N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, 2007.

[5] R. Costanza, R. d’Arge, R. de Groot et al., The value of the world’s ecosystem service and natural capital, In “Nature”, 387, pp. 253-260, 1997.

[6] Natural Capital at risk: The top 100 externalities of business, in “TruCost”, 2013: https://www.trucost.com/publication/natural-capital-risk-top-100-externalities-business/

[7] Cfr. Raj Patel e Jason W. Moore, Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo, Feltrinelli, 2018.

[8] S. Cannavò, Nuovi lupi, in “Il Fatto Quotidiano”, 5 marzo 2020.

[9] M. Bersani, https://comune-info.net/ce-chi-scommette-sulla-tua-salute/?, 4 marzo 2020.

[10] L. Bruni, Assicurati, ma non al sicuro, in “Avvenire”, 24 giugno 2012.

[11] G. Monbiot (traduzione di Aldo, Emanuele e Marta Femia), Price Less, la Natura non é capitale, in “Sbilanciamoci.info”, 3 luglio 2018: https://sbilanciamoci.info/price-less-i-concetti-di-natura-e-capitale/

[12] R. Casati, Necessità della foresta inutile, in “Il Sole 24 Ore”, 5 giugno 2016.

[13] Ministero dell’Ambiente, Terzo Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale, pp. 25-26: https://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/sviluppo_sostenibile/iii_rapporto_stato_capitale_naturale_2019.pdf