Il Brasile, sesta economia al mondo, in mano a un presidente come Bolsonaro, sodale di Bannon. La classe media l’ha scelto per paura di perdere i “lussi”. E i ricchi per privatizzare terre e servizi.
Il Brasile, la sesta economia del mondo, ha votato e nel secondo turno delle presidenziali di domenica 28 ottobre non ha invertito la rotta che sembra portarlo – e di corsa – verso una democrazia censuaria nel migliore dei casi.
I rischi per la tenuta stessa democrazia, una conquista che risale solo al 1985, rischi insiti nella vittoria dalla peggiore destra del continente incarnata nel capitano Jair Bolsonaro del Partito social liberal – neo liberale, amico di Steve Bannon, nostalgico della dittatura, ostile alle minoranze e in particolare agli indios e a tutte le tematiche ambientali – non sono riusciti a modificare le intenzioni di voto già registrate dai sondaggi Datafolha.
Lo scarto con il candidato presidente del Pt Fernando Haddad si conferma molto ampio, dal 55,13 di Bolsonaro al 44, 87 per cento di Haddad. Il Pt riesce a conquistare solo quattro governatorati concentrati nel Nord-est del Paese, una zona più povera e tradizionale roccaforte di Pt.
La campagna elettorale si è svolta soprattutto sui social sul modello già sperimentato negli Stati Uniti da Bannon per l’elezione di Donald Trump. Ma comunque la stampa mainstream non ha negato appoggi a Bolsonaro e alla sua retorica “del cambiamento” rispetto al quindicennio di “petismo”, cioè del governo Pt di Luiz Inacio Lula da Silva prima e di Dilma Rousseff dopo. Così proprio il Paese-guida della rinascita dell’America Latina oggi si presenta con il taglio più netto rispetto al recente passato di democrazia sociale.
Non è senza forza che le élite proprietarie sono riuscite a travolgere la sinistra al governo: la magistratura ha operato forzature denunciate anche da organizzazioni internazionali delle procedure legali per mettere Lula e Dilma fuori gioco, uno in galera e l’altra senza possibilità di fare politica dopo la procedura di impeachment che l’ha estromessa dal potere.
La campagna elettorale di Bolsonaro è stata giocata sulla “sicurezza” – in un Paese dove la violenza è diffusa e si verificano circa 70 mila omicidi ogni anno – e sulla “corruzione”, anch’essa assai diffusa. Si dice che siano state messe in campo le tre B: “biblia, boi, bala” intendendo con questi tre termini gli evangelici – il 30% della popolazione e l’elettorato più retrogrado anche sul piano dei diritti civili -, l’agrobusiness di un Paese che è il primo produttore al mondo di carni e il secondo di soia – e i militari e l’industria bellica.
Il vice di Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, accusato di essere stato tra i militari torturatori negli anni della dittatura, ha annunciato a scrutinio ancora in corso quale sarà la prima misura che metterà in atto: confermare la riforma pensionistica voluta da Michel Temer – l’ex vice di Dilma Roussef che l’ha sostituita nel lungo periodo transitorio verso le elezioni – e quindi aumentare i “benefici” dei militari.
A proposito di benefici e beneficiati, a vedere quelli delle politiche inclusive del quindicennio passato e gli spostamenti dei flussi elettorali già al primo turno, è proprio una revanche di classe quella che sembra essere uscita dalle urne brasiliane. A dirlo è l’analisi del centro internazionale di studi sulle diseguaglianze, il World Inequality Database. Anche se serviranno ancora altri strumenti analitici per interpretare lo spostamento dei quasi 10 milioni di voti pari allo scarto tra Bolsonaro e Haddad, quando solo pochi mesi fa le intenzioni di voto sembravano ancora preferire un possibile candidato Lula rispetto agli altri in campo.
Nel rapporto “Il Brasile diviso: ritorno alla polarizzazione crescente delle diseguaglianze” si nota come dal 2002 il 50% dei brasiliani più poveri sono stati più inclini a votare il Pt rispetto al 10% più ricco. Nel periodo di crescita economica trainata dall’export e dai prezzi alti dei prodotti petroliferi, i redditi dei “decili inferiori” sono aumentati due volte più velocemente della media nazionale. Quindi secondo il laboratorio internazionale di ricerche statistiche, sociologiche e politiche basato sulla scuola di economia di Parigi (Wid) non è tanto la “corruzione” e la “sicurezza” ad aver spostato i voti della classe media, quanto la paura di perdere, con la nuova crisi economica degli ultimi tre anni, potere di acquisto e lussi.
In effetti, si dice, il reddito medio pro capite è aumentato del 18% tra il 2002 e il 2014 ma a ben vedere ne hanno beneficiato soprattutto i più poveri, attraverso programmi tipo Bolsa Familia (il tasso di povertà si è ridotto dal 30 al 15% della popolazione) e i più ricchi. Il conflitto strisciante, che ha portato ora alla vittoria dell’estrema destra in un Paese di 147 milioni di elettori, ha quindi riguardato essenzialmente l’impiego delle risorse federali – gli investimenti durante il Milagrinho, il piccolo miracolo economico del 2006, sono stati ingenti, soprattutto in infrastrutture e servizi scolastici e sanitari – e più in generale le politiche pubbliche. Le classi medie urbane con tassi di scolarizzazione medio-alti hanno finito per cambiare schieramento, preoccupate – come si vede dal sondaggio sulle tematiche elettorali – dai servizi sanitari, dalla scuola e dalla creazione di posti di lavoro. E anche dall’inflazione che a partire dal 2013, in virtù dell’aumento dei salari minimi e dall’attivazione di una contrattazione nazionale volute dai governi Pt, hanno aumentato il costo del lavoro, incluso quello domestico.
In ogni caso Haddad ha avuto troppo poco tempo dopo l’esclusione definitiva della candidatura di Lula, ancora in carcere, e troppo poco carisma per mobilitare gli elettori rimasti disorientati e incerti, molti delusi dalle corruttele scoperte nell’apparato del Pt dall’inchiesta Lava Jato. Lo dimostra il grande numero di schede nulle o bianche (addirittura 11 milioni in tutti il Paese) che vanno a sommarsi ai 30 milioni di astenti.
A leggere la ricerca del Wid un “errore” del Pt potrebbe essere stato quello di aver evitato una seria riforma fiscale durante gli anni della prosperità, lasciando invece correre i mercati finanziari e il credito al consumo. Oppure si può dire che la lotta alla povertà sia stato il cruccio fondamentale del Pt al governo, mentre il resto della struttura sociale è rimasto sostanzialmente invariato: un Paese dove le storture sono eclatanti, dove ci sono 12 gruppi patrimoniali a detenere la maggior parte dei capitali e oltre 2.000 imprese e dove il 45% delle terre coltivabili è in mano all’1% dei grandi proprietari latifondisti che producono l’80 per cento del raccolto. Così anche le terre che Lula aveva dato in esclusiva ai popoli indios ora fanno gola alle compagnie dell’agrobusiness (intanto il Brasile con Temer si è tolto dalla Cop21) e ai loro partner internazionali.