Putin, il nazionalismo, l’uso della guerra per il consenso, il potere autoritario. C’è tutto questo, e altro, negli scritti di Anna Politkovskaja – uccisa sotto casa a Mosca 16 anni fa –, libri che illuminano il nostro presente.
Anna Politkovskaja è morta il 7 ottobre del 2006, uccisa con colpi d’arma da fuoco da uno o più killer nell’androne di casa, a Mosca. Sono passati sedici anni, ma è sempre la lettura dei suoi scritti la miglior guida per capire gli avvenimenti “russi” di oggigiorno. Non son certo sufficienti, ma non c’è di meglio per riflettere sul potere, l’esercito, la guerra ucraina. Anna P. è il nostro corrispondente di “pace”, se il termine è consentito, e avendo partecipato alla prima e soprattutto alla seconda guerra cecena, svoltesi alla fine del millennio scorso e poi all’inizio del nuovo secolo, ha mostrato come si fa a entrare nelle cose. Il suo giornale era poco diffuso, ma decisivo per capire le ragioni e i torti. Ci restano i suoi libri; in Italia se ne sono letti almeno cinque (tre di Adelphi, uno di Fandango e l’ultimo della collana bestsellers di Mondadori, uscito ancora quest’anno con una prefazione di Adriano Sofri. (Cecenia – Il disonore russo, Fandango libri 2003; La Russia di Putin, Gli Adelphi 639, 2005; Diario russo, Gli Adelphi 645, 2007; Per questo, Gli Adelphi 646, 2009; Proibito parlare, Oscar Bestsellers Mondadori, anno 2022, quattordicesima ristampa).
Sono libri che cercano tutti di raccontare la Russia a se stessa. Per noi che leggiamo da fuori, è utile (ed è difficile dimenticare) il capitolo finale di Cecenia – Il disonore russo. Il suo titolo è: “Perché non amo Putin”. In poche pagine Anna P. scrive un vero trattato, appassionato, di democrazia e di politica per tutti i giorni. Sapendo come allora è andata a finire, dobbiamo esserle grati fino in fondo per l’insegnamento sincero e commovente. “Per me Putin è una funzione, non una persona”. E prosegue: “Riguardo a questa persona ho delle esigenze molto semplici: un presidente deve operare per far diventare il suo paese migliore e più prospero. Ma da noi non è successo niente del genere. Moralmente la Russia di Putin è ancor più sporca di quella di Eltsin, è una discarica di immondizie coperta di rovi”. Più avanti Anna P. scrive: “Non amo il presidente del mio paese perché ha giocato (e continua a giocare) giochi ideologici pericolosi per il mio paese: lo fa per mantenere condizioni che sono gradite alla popolazione che lo mantiene al potere”.
I giochi pericolosi del presidente russo secondo Anna P. sono in sostanza tre. “Il primo gioco, probabilmente il più pericoloso, porta il vecchio nome di nazionalismo. Questo gioco, questo sfruttamento del sentimento razzista, è cominciato con la guerra in Cecenia. … A voler essere precisi, la guerra in Cecenia non sarebbe cominciata se l’ancor poco conosciuto tenente-colonnello Putin non avesse avuto bisogno di ampliare la sua quota di popolarità in vista delle elezioni presidenziali. … Il secondo gioco pericoloso messo in atto da Putin parte dal primo e si chiama ‘antiriconciliazione’… Mi spiego. Dopo una guerra, una società si preoccupa della riconciliazione nazionale, è una questione di sopravvivenza. … Da noi niente del genere. Menati per il naso da Putin, facciamo di tutto per organizzare una separazione interetnica. Facciamo di tutto, e ne siamo coscienti, perché il fossato fra le diverse componenti della popolazione si ingrandisca, fino a diventare invalicabile. … Ogni processo ha la sua logica. Se non aspiriamo alla riconciliazione, ci saranno sempre più ‘nemici’ e l’odio nei loro confronti troverà una valvola di sfogo chiara. Di qui il terzo gioco di Putin che si chiama ‘diritto alla giustizia sommaria’. Anna P. spiega che se nel picchiare, fare violenza, uccidere, si è convinti di agire patriotticamente, con “violenza giusta”, lo Stato che eventualmente fosse chiamato a giudicare, non riterrà necessario alcun processo, anzi riterrà di essere di fronte all’opera di cittadini, o soldati, o ufficiali, patrioti che agiscono per il bene della Russia. Forse anche gli operatori che andarono a sparare ad Anna P. nell’androne di casa, nell’ascensore, a Mosca – e questo nel giorno compleanno del presidente Putin, il 7 ottobre del 2006 – pensarono di essere patrioti che agivano per il bene di Russia.
Per scrivere i suoi articoli, le sue memorie, raccolte da noi in almeno 5 libri, Anna P. si è recata decine di volte in Cecenia, nel corso della prima e soprattutto della seconda guerra. Intervistava madri disperate, raccoglieva il loro desiderio di riavere almeno il corpo del figlio, ucciso chissà da chi. Anna P. era diventata così una sorella con cui sfogarsi, con cui piangere assieme. Allo stesso tempo era una persona capace di spiegare con parole molto semplici, semplici e vere, i sentimenti, le paure, le disperazioni che attraversavano il fronte e le retrovie di una guerra violenta e incomprensibile. Essa era ben nota a entrambi gli schieramenti in lotta, al punto di essere chiamata a offrire una mediazione in entrambi gli avvenimenti decisivi delle azioni terroristiche più eclatanti della seconda guerra cecena: l’assalto al teatro Dombroska a Mosca nel 2003 e l’attacco alla scuola di Beslan l’anno successivo.
Anna P. era nata a New York, nell’agosto del 1958, figlia di due diplomatici funzionari russi, ucraini di origine, impegnati all’Onu. Aveva poi studiato in Russia e si era laureata all’università di Mosca in giornalismo con una tesi su Marina Cvetaeva. Alla nascita si chiamava Anna Stepanovna Mazepa, ma aveva preso il cognome di Politkovskaja sposandosi con un collega giornalista dal quale si era poi separata, dopo che erano nati due figli: Ilya e Vera. Sono notizie tratte da internet, dove si trova anche la rievocazione del recente passaggio della figlia Vera P. nel Programma Piazza pulita (5 maggio 2202) di Corrado Formigli che intervistava Roberto Saviano, capace di mostrare commozione e riconoscenza per la sua collega russo-americana. Saviano riporta alla nostra memoria che al funerale di Anna P. vi era un italiano soltanto, Marco Pannella. Un altro segno di affetto, postumo, per Anna P. è la prefazione di Adriano Sofri a Proibito parlare. Sofri racconta il funerale di Anna P. come sarebbe dovuto essere in uno Stato democratico, e lo contrappone ai veri avvenimenti di quel giorno, a Mosca, nel silenzio delle autorità.
Morirono, nel lavoro di cronaca, dall’anno duemila, uno dopo l’altro, una dopo l’altra, sei persone del suo giornale, la Novaya Gazeta oggi ridotta al silenzio; il direttore, Dmitry Muratov, ha ricevuto l’anno scorso il premio Nobel per la pace, probabilmente in nome, in memoria di Anna P. e dei colleghi.
Al teatro Dubroska dove si rappresentava una commedia musicale, Nord-Ost, era presente sempre molto pubblico, di tutte le età. I terroristi ceceni pensavano a un’azione di grande richiamo, proprio nella capitale della Russia che opprimeva la loro patria. Essi richiedevano il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia. Avevano voluto e ottenuto la presenza di Anna P. per facilitare la trattativa. In “Cecenia. Il disonore russo” c’è il racconto della presenza di Anna al teatro, la discussione con il capo, mascherato, dei terroristi. C’è l’accordo per un rifornimento di succhi di frutta per i bambini, pieni di paura e di sete nel teatro, dopo molte ore di sequestro, il racconto del rischioso andirivieni per i pochi succhi consentiti… e poi altre discussioni, incertezze, sfiducia, volontà di martirio di una parte degli attivisti. Passano due giorni e si arriva al 23 ottobre quando entrano in gioco nel teatro le truppe speciali, dopo che dal sistema di aereazione è stato immesso del Fentanyl o qualche altro gas, forse nervino, in grado di addormentare i ribelli ceceni. C’è la strage. Muoiono, soprattutto soffocati, almeno 129 ostaggi e 39 combattenti, ma le cifre sono poco attendibili. Seguono discussioni, anche alla Duma e processi. Il risultato è una forte stretta sui media, cui da allora è proibito per legge pubblicare notizie non ufficiali. Un anno dopo, i separatisti ceceni assaltano, ai confini della Cecenia occupata, la scuola numero 1 di Beslan in Ossezia del nord. Prendono, al primo, festoso, giorno di scuola, millecento ostaggi: bambini e famiglie. Anna P. cerca di arrivare, di intervenire, vuole fare tutto il possibile perché teme il disastro, le centinaia di morti che poi effettivamente ci saranno. A fatica trova un aereo, dove nel corso del lungo tragitto, le offrono da bere; accetta solo un the che probabilmente è avvelenato. Ma chi le crede? Il governo – sembrò poi di capire – voleva agire senza fastidiosi testimoni. Quella volta, a Beslan, Anna P. non ci sarà.