Il grande freddo/Il “collegato ambiente” in discussione alla Camera istituisce il “Comitato per il capitale naturale”. Quali sono i rischi di un comitato controllato dal governo
L’iter del disegno di legge intitolato “Disposizioniin materia ambientale per promuovere misure di green economy e per ilcontenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali, partito a febbraio 2014 (con il governo Letta) come “collegato ambientale” alla legge di stabilità 2014, è giunto – dopo l’approvazione dalla Camera a novembre scorso – alla fase dell’esame e votazione degli emendamenti da parte della XIII Commissione (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato (sede referente). L’articolo 50 di tale DDL, non ancora esaminato, istituisce il “Comitato per il capitale naturale”. Coloro che pongono la questione ambientale al centro del proprio sentire (o almeno non troppo in periferia) probabilmente, e legittimamente, avranno una prima reazione molto favorevole alla lettura dell’articolo, che così viene presentato dagli estensori del DDL:
“Gli attuali sistemi di valutazione delle politiche dipendono principalmente da indicatori di tipo economico-sociale (come il PIL, il tasso di inflazione, il tasso di disoccupazione eccetera). Non sono stati sino ad ora integrati nei processi economici i dati relativi al consumo del capitale di base che consente di perseguire benessere e sviluppo, ossia il capitale naturale e i servizi ecosistemici, costituiti dalla varietà delle risorse della natura e della vita sul pianeta, grazie alle quali la specie umana vive e si sviluppa, alle quali non viene assegnato un valore. In questo modo si incrementano i già preoccupanti livelli di deficit nei confronti dei sistemi naturali (ben individuati dai numerosi indicatori ambientali da tempo consolidati nella prassi scientifica a livello internazionale), che compromettono lo stato di benessere, di salute e di sviluppo economico delle nostre società.”
Belle parole. Ma la fregatura è sempre dietro l’angolo, e prima di cedere alla tentazione di esultare, riteniamo sia opportuno svolgere alcune riflessioni critiche tanto sulla natura e le funzioni di tale comitato, come delineate nel DDL, quanto sulla nozione stessa di “capitale naturale” richiamata nel nome del comitato.
A ben vedere, già nella presentazione del DDL si coglie un aspetto fondamentale dell’impostazione seguita. Si coglie una visione secondo la quale affinché i dati riguardanti l’uso del patrimonio naturale possano avere un peso nella valutazione delle politiche occorre che alle diverse componenti di tale patrimonio venga assegnato un valore. Insomma: la risposta all’esigenza di tenere in conto, allo stesso tempo ed in maniera equilibrata, sia l’economia sia le questioni ambientali starebbe nel considerare in termini monetari tutto ciò che conta; ovvero, il ruolo del patrimonio ambientale va apprezzato, o può esserlo, solo in termini del suo contributo alla produzione di beni e servizi monetizzabili, quindi oggetto di scambi su mercati effettivi o potenziali1.
Ma passiamo al testo del DDL. L’articolo che istituisce il comitato si suddivide in 5 commi. Il primo ne fissa la composizione: 9 ministri, un rappresentante della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, il Governatore della Banca d’Italia, il Presidente dell’Istituto nazionale di statistica, il Presidente dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche e il Presidente dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, o loro rappresentanti delegati. Da ultimo, il comitato è integrato, a discrezione del ministro dell’ambiente (che lo presiede), “con esperti della materia provenienti da università ed enti di ricerca, ovvero con altri dipendenti pubblici in possesso di specifica qualificazione”. Una primissima valutazione è che in questo comitato ci sarà di sicuro molta economia, resa forte da molti ministri in esso presenti, mentre una disponibilità immediata di conoscenza relativa agli ecosistemi e alle interferenze esercitate sul loro funzionamento dal sistema socioeconomico è assicurata al comitato stesso da alcuni membri di estrazione tecnica e non governativa.
Sembra quindi legittimo temere, già in base alla lettura del primo comma, che al centro dell’attenzione del comitato ci sarà la Natura solo in quanto presupposto dell’attività economica, non la Natura in quanto vita, né la Natura in quanto presupposto della vita umana. Si potrà obiettare che l’attività economica è a sua volta presupposto della vita umana, perciò alla Natura questo ruolo non è negato, bensì solo visto attraverso la mediazione dell’attività economica. Ma per quanto sia vero che la vita umana dipende dalla Natura attraverso l’attività economica, è anche vero che essa ne dipende anche direttamente. La mediazione dell’attività economica riguarda ad esempio il cibo e il riparo, senza dubbio imprescindibili, ma va osservato che la dipendenza della vita umana dalla Natura va ben oltre la disponibilità degli elementi necessari a far fruttificare la terra e a costruire. Questa dipendenza include quella dalla disponibilità di aria respirabile e di acqua potabile nonché di condizioni climatiche accettabili – elementi ancora non o non del tutto sotto il controllo del sistema economico – e coinvolge indirettamente (e imperscrutabilmente) tutto il funzionamento dell’ecosistema globale. E per quanto sia vero che l’economia è in parte al servizio della vita umana, è anche vero che tale parte è minima, ormai. Per il resto, sembra piuttosto al servizio di sé stessa e intenta alla distruzione del vivente.
Si può osservare poi, a supporto di una visione non aprioristicamente entusiastica, che il nome del comitato è perfettamente in linea con la distorsione della sua composizione sopra paventata. Tale nome è significativo nella misura in cui definisce l’oggetto generale della sua attività. È importante, in quest’ottica, soffermarsi sia sul “per il” che sull’utilizzo della parola capitale e tutto ciò che essa porta con sé. “Per il” può indicare “per la salvaguardia del” come “per lo sviluppo e la valorizzazione del”. Tra questa seconda accezione e la promozione dello sfruttamento economico della Natura, il passo è molto breve. Il punto è che una tale interpretazione rimane affidata allo stesso comitato una volta insediato. Capitale rimanda al valore economico e allo sfruttamento economico della Natura, non alla sua protezione. Chi ha a cuore la protezione della natura, e non la sua “valorizzazione”, dovrebbe parlare di patrimonio naturale. Non si tratta di una mera questione nominalistica: la riduzione della Natura ad attributo del sostantivo “Capitale” ha importanti conseguenze pratiche. Le parole sono importanti perché aprono, chiudono o rivelano prospettive sul mondo. La prospettiva dominante è quella del capitale, appunto.
La distinzione tra capitale e patrimonio potrà sembrare inutile, o perfino dannosa, a chi pensi, nella nostra società sottomessa alla dimensione economica, che solo “dando un valore alla Natura” (sottintendendo “economico, monetario”) la si possa proteggere. Parlare di una qualsiasi cosa come di un capitale è, sul piano linguistico, appunto un modo di “dare un valore”. Si tratta evidentemente del valore economico, non necessariamente quantificato ma potenzialmente quantificabile: in quanto capitale, la Natura viene a partecipare della sfera economica, e l’essenza dell’economia è lo scambio, o quanto meno la scambiabilità. Tra la concettualizzazione della Natura come qualcosa che è per sua natura scambiabile, la quantificazione in termini di valore monetario, e la sua effettiva “messa a frutto” il passo è spesso molto breve.
Noi pensiamo sia vero semmai il contrario, cioè che non serva dare un valore alla Natura ma che gliene debbano essere riconosciuti tanti, o in altre parole che al fondo di molti problemi – tra cui sicuramente quelli ambientali – ci sia proprio il dominio della dimensione economica, che questo dominio vada superato e invece in tal modo lo si estende, che questa impostazione sia contraddittoria rispetto alla sacrosanta idea di andare “oltre il PIL” e che l’espressione “assegnare un valore alla natura” (usata anche nella presentazione dell’articolo sopra citata) giochi in maniera pericolosa sull’ambiguità della parola “valore”. Senza ritenere di doverlo esplicitare, infatti, si intende “dando un valore economico alla Natura”, ed economico vuol dire esprimibile in termini monetari. Questo è il tipo di valore che si confà ad un capitale. Ma questo valore non può rappresentare i valori (etici) che sostengono un patrimonio (dell’umanità presente e futura). È per definizione relativo, negoziabile, laddove servono paletti assoluti e fermi, perché gli equilibri naturali impongono limiti ineludibili. Il patrimonio è intangibile, salvo casi eccezionali. Un capitale va giocato sulla piazza economica, per definizione. Con ciò non si intende sostenere che non vi siano sovrapposizioni: alcuni elementi o aspetti del patrimonio naturale sono anche capitale.
Riconoscere l’importanza che per il buon funzionamento dell’economia può avere un buono stato di salute della Natura è importante, fa fare un passo in avanti, perché fa sorgere qualche esigenza di mantenimento di questa base produttiva, cioè di conservazione della Natura. Ma il passo è piccolo e insufficiente: assumere la prospettiva del capitale naturale, cioè della Natura come elemento di supporto della produzione, ed eventualmente la valutazione monetaria come espressione del valore della Natura tout-court, e assumere decisioni di fare o non fare a partire da questa prospettiva, se non addirittura sulla base di quella valutazione, vuol dire appiattire la Natura sul suo valore economico in quanto capitale, annullando gli altri aspetti. Non intendiamo assolutamente dire che siano queste le intenzioni di chi promuove il concetto di capitale naturale e la valutazione monetaria: denunciamo solo i pericoli di un approccio parziale e che facilmente si presta ad interpretazioni distorcenti.
L’attribuzione di una natura economica (e magari di un determinato valore monetario) a una qualsiasi cosa, apre la strada alla sua alienabilità, ovvero alla possibilità di scambiarla o sostituirla con qualcos’altro – all’inizio magari questa possibilità è solo teorica, ma alla lunga è facile che diventi reale, come il land grabbing2. La sostituibilità del capitale naturale (con capitale manufatto) è, non a caso, quel che definisce l’idea di sostenibilità debole cui si rifanno coloro che ritengono che il progresso tecnico incorporato nel nuovo capitale manufatto permetterà di fare a meno di risorse ambientali scarse (inclusa la capacità di assorbire scarti). La qualificazione della Natura come capitale apre la strada alla sua effettiva “messa a frutto”: perché non dovremmo realizzare sul mercato il valore dei servizi che un capitale ci può fornire? In fin dei conti, la ratio del mantenerlo sta proprio nell’assicurarsi il valore di quei servizi. Il punto cruciale – che qui si vuol contrastare – è quello di passare dalla centralità della Natura in quanto dotata di valore (anche economico ma non soprattutto quello) alla centralità del valore economico della Natura.
Cancellare la distinzione tra capitale e patrimonio ha un profondo significato antropologico: è un elemento della gestazione dell’uomo nuovo del liberismo, per il quale tutto può essere scambiato, purché si tragga utilità dallo scambio. Quel che conta sono solo le funzioni delle cose. Tra le cose, la Natura non occupa alcun posto speciale. Il che può essere descritto con un paradosso: passeggiare in un bosco di plastica potrebbe avere la stessa utilità che passeggiare in un bosco vero, se solo – ragionando per assurdo – il primo fosse realizzato in modo tale da poter fornire tutti quei servizi ecosistemici (dalla fotosintesi al frusciar del vento tra le foglie) che possono essere utili all’uomo direttamente o indirettamente e che il bosco vivo già fornisce; se poi consideriamo che da un lato resterebbero assicurati gli stessi servizi di un bosco vero e dall’altro, attraverso la produzione del bosco di plastica, verrebbero garantiti profitti aggiuntivi, si potrebbe arrivare a dire che produrre il bosco di plastica (e tagliare il bosco vivo) sarebbe addirittura meglio! Peraltro, al di là dell’evidente paradosso e ragionando più in generale, che senso hanno affermazioni del tipo “il valore globale dei servizi che la natura fornisce è di 60, 100, o 500 mila miliardi di euro l’anno”? Quale è l’informazione fornita? A che tipo di processo valutativo può servire? È davvero un tale dato ciò che manca per riuscire a capire il vero valore della Natura?3
Nell’impianto delle valutazioni monetarie un argine all’assurdo (ideo)logico di quanto sopra si potrebbe forse pure trovare, e precisamente nel “valore di esistenza”. Ma di porre questo valore uguale a infinito – come dovrebbe essere – non se ne parla neanche! Si prendono invece tante valutazioni individuali e marginali (nel senso della teoria economica marginalista), e le si scambiano per valutazioni globali. È come scambiare il PIL per il valore totale dei beni e servizi prodotti, dimenticando che una parte essenziale di questo valore, parte nota come surplus del consumatore, nel PIL non entra per nulla: com’è noto anche agli economisti che sostengono l’opportunità della valutazione monetaria ad ogni costo, i valori di mercato sono collegati (nella misura in cui lo siano con l’utilità) con l’utilità marginale, non con quella totale. Ma – tanto per fare un esempio – l’utilità per una popolazione dell’intero raccolto dal quale dipende la sua sopravvivenza è infinita, non commesurabile con il valore di mercato di quantità di altri beni che non possono valere come sostituti di quel raccolto. Più in generale, l’utilità sociale – comunque la si pensi – è cosa ben diversa dalla somma delle valutazioni individuali e questo andrebbe tenuto presente anche nell’ambito di esercizi di teoria economica basati sul criterio di Pareto, per i quali – per farla breve – laddove l’utilità di qualcuno aumenta senza che quella di qualcun altro diminuisca l’utilità sociale aumenta anch’essa. La legittimazione ideologica dello scambio come unico principio regolatore della vita sociale passa anche per queste “dimenticanze” teoretiche. Appare singolare che spesso gli stessi critici del PIL come indicatore di benessere siano tra i promotori della valutazione monetaria del capitale naturale. Purtroppo è di moda cercare termometri unidimensionali per misurare insiemi di fenomeni estremamente vasti e variegati. Di fronte alla complessità non esistono scorciatoie.
Certamente dobbiamo conoscere meglio il patrimonio naturale per meglio proteggerlo e qualche sforzo in tal senso a livello internazionale si sta facendo. La contabilità del patrimonio naturale e dei servizi ecosistemici costituisce una frontiera di sviluppo molto interessante dei sistemi statistici ufficiali – in particolare nell’ambito della Contabilità Ambientale – ed è campo di controversie di grande importanza, quale appunto quella sulla valutazione monetaria dei servizi ecosistemici (pure richiamati nel testo e nella presentazione dell’articolo del DDL). Una cosa su cui tutta la comunità della statistica ufficiale si trova d’accordo è che vadano sviluppati innanzitutto i conti fisici. È un campo vastissimo, che per la parte dei servizi riflette la varietà delle funzioni svolte dall’ecosistema a beneficio dell’uomo, e sta a cavallo tra scienze della natura e scienze sociali.
Il comma due dell’art. 50 fa (poca) luce sulle funzioni del comitato: dispone che esso trasmetta annualmente al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’economia e delle finanze (che però è presente nel Consiglio dei Ministri, oltre che nel comitato stesso: un lapsus rivelatore?) “un rapporto sullo stato del capitale naturale del Paese, corredato di informazioni e dati ambientali espressi in unità fisiche e monetarie, seguendo le metodologie definite dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e dall’Unione europea, nonché di valutazioni ex ante ed ex post degli effetti delle politiche pubbliche sul capitale naturale e sui servizi ecosistemici”. Il richiamo alle metodologie definite da ONU e UE vuol dire: statistica ufficiale; sembra ovvio d’altro canto che le valutazioni ex-ante ed ex-post debbano basarsi su una solida base statistica ufficiale, oltre che su metodologie condivise. Però non si vanno a creare le infrastrutture necessarie a colmare i ritardi esistenti su questi fronti. Si delinea quindi un impianto interessante ma privo di almeno un pilastro fondamentale.
Occorre evidenziare che nella statistica ufficiale non esiste una definizione di “capitale naturale”, né una tale definizione è reperibile nel resto dell’art. 50, il che vuol dire che si potrà pescare una definizione tra le tante esplicitamente o implicitamente rintracciabili in letteratura, o magari coniarne una nuova. È da tenere presente, al riguardo, che nella statistica ufficiale esistono altri termini spendibili per il nome di un simile comitato, anche se magari non altrettanto accattivanti di “capitale naturale”.
La valutazione delle politiche, soprattutto quella ex-post, dovrebbe essere indipendente e priva di condizionamenti. Con nove ministri o loro rappresentanti nel comitato, e un potere discrezionale così ampio nella determinazione della composizione complessiva, qualche perplessità è quanto meno legittima.
Mettendo insieme tutto quanto sopra, e tenendo conto di precedenti simili esperienze (e in particolare di una commissione attiva qualche anno fa presso il ministero del tesoro), si può facilmente prevedere come nei fatti si configurerà il funzionamento del comitato. Gli alti dirigenti che verosimilmente saranno delegati a rappresentare i vari ministri e presidenti, ne rappresenteranno il nervo politico e meneranno la danza, magari senza capire gran che del merito delle valutazioni tecniche da licenziare, ma facendo molta attenzione all’opportunità di avallare determinate risultanze delle analisi e offuscarne altre. Questi alti funzionari sono bravi soprattutto in una cosa: duellare senza farsene accorgere in punta di fioretto dialettico, sollevando ove necessario questione di metodo, e in generale giocando non nelle regole ma con le regole, che come ci ha insegnato Bordieu è il vero gioco del potere. Alle spalle di questi alti dirigenti siederà una piccola schiera di funzionari formalmente cooptati nel comitato (gli “altri dipendenti pubblici in possesso di specifica qualificazione”): questi saranno il nervo tecnico del comitato. Alcuni di loro capiranno l’oggetto di cui si parlerà e si daranno molto fare perché si produca il rapporto e questo non crei problemi. Accanto o anche dietro a questi, altri funzionari, almeno altrettanto esperti nel merito, lavoreranno nell’ombra, senza riconoscimento formale, a fare analisi e valutazioni che altri imperscrutabilmente promuoveranno o affosseranno. Il tutto, beninteso, “a costo zero” per le casse dello Stato, ma non per le altre attività relative ai compiti istituzionali che giocoforza verranno sacrificate; per non dire che la mancanza delle necessarie risorse aggiuntive spingerà alcuni servitori dello Stato a far uso pesantemente del proprio tempo privato nella speranza di un futuro, ma incerto, riconoscimento. L’incognita maggiore sono gli “esperti della materia provenienti da università ed enti di ricerca”, che il ministro dell’ambiente potrà scegliere. L’Italia è sempre e ancora il meraviglioso Paese in cui c’è il rischio che un cavallo sia fatto senatore con un colpo di penna. Certamente a ragionare su questi temi non saranno chiamati esperti scelti dalla comunità scientifica sulla base di un qualche meccanismo democratico, con spazi certi per ecologi e altri scienziati naturali, e per esperti di interazione tra economia e ambiente e tra società e ambiente. Ma di tali esperti abbiamo bisogno.E il loro reclutamento per un comitato in cui si valutano le politiche dovrebbe essere basato su criteri genuini che ne garantiscano l’indipendenza.
Specifica attenzione merita infine il comma 4, che stabilisce che il comitato “promuove anche l’adozione, da parte degli enti locali, di sistemi di contabilità ambientale e la predisposizione, da parte dei medesimi enti, di appositi bilanci ambientali, finalizzati al monitoraggio e alla rendicontazione dell’attuazione, dell’efficacia e dell’efficienza delle politiche e delle azioni svolte dall’ente per la tutela dell’ambiente, nonché dello stato dell’ambiente e del capitale naturale. In particolare il Comitato definisce uno schema di riferimento sulla base delle sperimentazioni già effettuate dagli enti locali in tale ambito, anche avvalendosi di cofinanziamenti europei”. Bene, anzi potenzialmente ottimo, ma con parecchi punti interrogativi, la risposta ai quali può addirittura far cambiare segno alla valutazione.
Alcune indeterminatezze o ambiguità della formulazione richiamano temi che a suo tempo avrebbero dovuto essere dipanati dalla commissione cui si è accennato sopra, ma rimasti in sospeso:
– Che rapporto c’è, nelle intenzioni del legislatore, tra i “sistemi di contabilità ambientale e i “bilanci ambientali”? Perché dei primi il comitato dovrebbe promuovere “l’adozione” e dei secondi “la predisposizione” da parte degli enti locali?
– Che vuol dire “adozione”? L’unica cosa chiara è che non si tratta di “predisposizione”, essendo questa parola riservata ai “bilanci”. A predisporre i conti potrebbero dunque essere chiamati soggetti esterni, con tutto quel che ne consegue.
– Come va interpretato “finalizzati a”? È riferito ai soli “bilanci” o anche ai “conti”? Il “monitoraggio e la rendicontazione” (cioè la valutazione) delle politiche sono effettuati già nei “bilanci” – predisposti dallo stesso ente che attua le politiche! – o questi devono esserne solo una base (eventualmente insieme ai conti)?
Altro grosso caveat va posto sul prendere a riferimento e modello (nella stessa formulazione del comma, con la separazione tra “sistemi di contabilità ambientale” e “appositi bilanci ambientali”) le sperimentazioni fin qui effettuate dagli enti locali (en passant: perché c’è bisogno di dire nel DDL da chi sono state finanziate le sperimentazioni? Forse i cofinanziamenti europei le mettono al riparo da critiche?).
Le sperimentazioni in questione hanno in effetti grandi limiti. Uno, importante, è nell’eterogeneità e, in molti casi, nella mancanza di coerenza con le prescrizioni della contabilità ambientale della statistica ufficiale (nonostante i cofinanziamenti europei). Non si tratta di un requisito puramente formale: senza omogeneità e coerenza con principi contabili condivisi (quelli della statistica ufficiale lo sono a livello internazionale), non c’è comparabilità e certezza di significato delle risultanze. Altrettanto rilevante è il fatto che queste sperimentazioni non forniscono di per sé una base adeguata per la valutazione (monitoraggio e rendicontazione dell’attuazione, dell’efficacia e dell’efficienza) delle azioni svolte dall’ente per la tutela dell’ambiente. In esse infatti non si definisce un modello di relazione causale tra le azioni dell’ente locale e le risultanze ambientali, ma ci si limita per lo più ad affiancare ad una contabilità (monetaria) relativa alle spese degli Enti territoriali per la protezione dell’ambiente (quindi attinente al “programma”), una contabilità (fisica) relativa al territorio governato (quindi attinente al “contesto”: non solo “lo stato dell’ambiente e del capitale naturale”, ma anche le pressioni generate da tutti gli attori presenti sul territorio). Questo è un presupposto necessario per l’analisi richiesta dalla valutazione delle politiche, ma non può costituire in sé una valutazione. Peraltro si tratta di un presupposto assolutamente non sufficiente, perché ignora gli aspetti non monetari delle azioni messe in atto dall’ente locale e le azioni messe in campo dagli altri attori (pubblici e privati, economici e non) presenti sul territorio, che in genere sono preponderanti, quanto a contributo al risultato finale, rispetto alle azioni dell’ente locale. L’aspetto per eccellenza problematico della valutazione delle politiche – stabilire cosa sarebbe successo senza – è semplicemente ignorato, come se potesse bastare la lettura di qualche tabella descrittiva in cui le informazioni sono giustapposte in modo scoordinato. Il che rimanda alla necessità di disporre di modelli interpretativi della realtà e degli effetti – non solo delle politiche, ma delle azioni umane in generale – sull’ambiente che andrebbero fatte da un organismo indipendente sulla base di metodologie condivise, oppure – meglio – sulla base di un processo democratico e di un metodo partecipativo che veda il coinvolgimento nelle valutazioni di tutti gli interessati. Diversamente, le occasioni di polemica e screditamento dello strumento non potranno che moltiplicarsi.
Per concludere sul comitato: tutto quel che serve a promuovere la conoscenza del patrimonio naturale e la presa in considerazione dell’ecosistema nelle decisioni politiche è ovviamente benvenuto, come lo è l’idea che le politiche vadano sottoposte a valutazione. Per promuovere conoscenza e consapevolezza politica, però, più che di comitati di alto livello, in Italia si sente il bisogno da una parte di processi partecipativi che permettano una condivisione di obiettivi e misure, dall’altra di investimenti massicci nella ricerca e nel buon funzionamento della pubblica amministrazione, a cominciare dall’assicurare risorse umane ad obiettivi da considerare permanenti, tra cui quelli dello sviluppo della contabilità ambientale nell’ambito della statistica ufficiale. I rinnovi dei contratti per molti precari della PA e in particolare di quelli in servizio nel comparto della ricerca (spesso da lunghissimo temposono senza dubbio una buona notizia, anche se giungono faticosamente a pochi giorni dalla scadenza dei contratti stessi. Ma va sottolineato come, in una situazione in cui le risorse umane sono già cronicamente scarse, sia improprio ricorrere al precariato, in una maniera che ormai si può definire strutturale, laddove l’apporto di questi lavoratori è fondamentale per garantire gli obiettivi correnti di funzionamento del sistema. L’incapacità di procedere alla loro stabilizzazione, oltretutto contribuisce ad un grave problema sociale.
Per concludere più in generale, vale la pena evidenziare ancora quello che ci sembra un nesso importante tra il nome del comitato e gli auspici sotto i quali esso nasce: se la Natura è vista come un capitale da “valorizzare”, difficilmente potrà essere considerata prioritaria la ricerca sul sistema ambientale e sulle interferenze del sistema antropico con il suo regolare funzionamento, mentre la farà comunque sempre da padrona una triste scienza che tutto quel che tocca in oro trasforma. Il che, insegna il mito, significa distruggere le basi della vita.
1 Ispirato ad una filosofia non troppo diversa è il Natural Capital Committee britannico. Di segno diverso, compiutamente naturalistico, è invece l’esperienza dei Comités du Patrimoine Naturel francesi. Si noti l’antitesi capitale – patrimonio. 2 Qualcosa del genere viene prefigurata dall’art.53 dello stesso DDL, che sembra proprio aprire una simile inquietante prospettiva. 3 Già nel 1997 Robert Costanza (et al.) davano su Nature la notizia che il valore dei servizi ecosistemici valevano il doppio del PIL mondiale. Nel frattempo i primi, in quantità e qualità, sono certamente diminuiti, mentre la crescente scarsità ne ha fatto salire i prezzi (per lo più prezzi ombra, come gli economisti chiamano il valore ipotetico attribuito a qualcosa che non ha un prezzo di mercato). Oggi lo stesso Costanza (et al.) valuta in quasi 4 volte tanto il valore degli stessi servizi. Anche il PIL mondiale è cresciuto di quasi 4 volte. La Natura continuerebbe a darci il doppio di quel che ci dà l’economia … si direbbe che tutto va bene!