Sembra fantasioso sperare in un mutamento di politica economica da parte del governo tedesco. Strettamente sorvegliato nelle sue decisioni dai sostenitori dell’austerità a tutti i costi
Apparentemente l’ostinazione nelle proprie idee, a volte anche contro ogni evidenza, sembra essere uno dei caratteri più consolidati dell’animo tedesco. Se ci fosse ancora bisogno di una dimostrazione di tale assunto, ne stiamo avendo una riprova crescente negli ultimi mesi.
L’economia del paese sta segnando risultati sempre meno positivi, cui i media nazionali ed internazionali hanno dato un certo risalto e sui quali quindi non torniamo. Si veda in proposito, ad esempio, un’accurata analisi di Philippe Legrain (Legrain, 2014).
C’è, in conseguenza di questo, nonché a ragione del pessimo stato della situazione dell’eurozona, ormai un coro assordante di voci, in giro per il mondo, che esorta il governo teutonico a cambiare politica; la richiesta è in particolare quella di accrescere i consumi interni e gli investimenti pubblici da una parte, di dare respiro alla BCE e alla ricostruzione dell’euro e dell’eurozona dall’altra.
Ma la Merkel, il suo ministro delle finanze, nonché la Bundesbank –quest’ultima in modo anche feroce -, oppongono un ferreo fuoco di sbarramento alle richieste di svolta nella politica economica e mostrano invece con orgoglio il progetto di bilancio pubblico per il 2015 che indica delle entrate in equilibrio con le uscite. E intanto gran parte degli elettori applaudono a tale politica, convinti semmai che il paese stia dilapidando i propri soldi a favore degli spendaccioni paesi vicini.
Per aggiungere al danno anche la beffa ora la Germania, per bocca del suo ministro delle finanze, Wolfgang Schaeuble, annuncia con la massima serietà possibile un piano di nuovi investimenti pubblici in infrastrutture di 10 miliardi di euro in tre anni (ciò che corrisponde allo 0,1% del pil del paese nello stesso periodo), ma per sovrappiù solo a partire dal 2016. Godiamoci tale manna! E questo, viene sottolineato senza vergogna dallo stesso ministro, da una parte come contributo al sostegno della crescita europea, dall’altra ribadendo che l’operazione sarà portata avanti senza intaccare il sacrosanto principio del pareggio di bilancio. E c’è anche chi in Europa saluta con soddisfazione tale annuncio; si veda, ad esempio, cosa scrive in proposito il corrispondente da Berlino di Repubblica (Tarquini, 2014).
Va sottolineato, a questo proposito, come l’istituto di ricerche economiche DIW abbia stimato che sarebbe necessario invece un livello di nuovi investimenti pubblici per circa 1000 miliardi di euro.
Intanto le prospettive della moneta comune si incupiscono. Un autorevole commentatore come Wolfgang Munchau (Munchau, 2014) sottolinea così come due anni fa fossero tutti preoccupati per una possibile crisi dell’euro a ragione della situazione dell’indebitamento pubblico di vari paesi; quella questione è stata, almeno per il momento, tamponata, ma ora incombe una minaccia forse ancora più grave, quella della depressione. Ci dirigiamo verso la stagnazione secolare di cui parla L. Summers, afferma l’autore, ed intanto la Germania sarà contenta di aver contribuito in maniera determinante a tale risultato. Nel frattempo ferve il dibattito sulla politica economica del paese.
Il duro dibattito sul fronte interno – Issing e i Cinque Saggi
Non mancano certo in Germania le teorizzazioni a favore del mantenimento dello status quo in economia. Abbastanza rappresentativo in questo senso appare uno scritto recente di Otmar Issing (Issing, 2014), figura di rilievo nel paese, già membro del board e capo economista della BCE (meno male che ha lasciato tali incarichi da tempo).
Chiedere alla Germania di cambiare politica e avviare un programma più espansionista, dice Issing, significa spingere il paese verso la stessa, infelice, situazione dei suoi vicini. Esso gode oggi, invece, di un quadro di quasi pieno impiego; l’economia cresce al livello del suo potenziale, il budget appare in equilibrio, l’inflazione è bassa, ma non c’è pericolo di deflazione; il paese avrebbe semmai bisogno di una politica monetaria meno espansionista di quella che ottiene in questo momento dalla BCE, mentre esso gode di un livello di indebitamento ben al disopra di quelli che sarebbero degli obiettivi ragionevoli.
Chiaramente, afferma l’autore, un certo numero di decisioni prese dal governo di coalizione sono di segno negativo. Tra queste, quella di ridurre l’età pensionabile per certe categorie, ciò che priverà il paese di una parte dei lavoratori specializzati necessari per mantenere le imprese sul mercato internazionale; dannosa anche l’introduzione di un salario minimo.
Perciò la richiesta di stimolare l’economia attraverso il deficit spending, dice Issing, è una politica dogmatica che tende a prevalere sui sani principi dell’economia.
Molto duro con alcuni aspetti della politica della Merkel appare anche un recente documento elaborato dai Cinque Saggi, importante organismo di analisi e consulenza del governo. In tale elaborato si sostiene la convinzione che ci sono troppe decisioni dell’esecutivo che aumentano la spesa e che possono rendere meno flessibile il mercato del lavoro, in linea sostanzialmente con quanto sostenuto da Issing.
Le posizioni del governo tedesco, criticate all’estero “da sinistra”, sono così, d’altra parte, prese d’assalto “da destra” all’interno del paese, attraverso voci anche molto autorevoli. Tali critiche tendono, tra l’altro, a far apparire anche la Merkel come una pericolosa sperperatrice di denaro pubblico.
Le risposte a Issing
Nel ragionamento di Issing, come del resto in quello dei Cinque Saggi, ci sono a nostro parere alcuni vistosi punti deboli. Intanto l’economia tedesca non va più tanto bene, come sembra invece credere Issing; essa sta rallentando e gli industriali del paese sono preoccupati. Le esportazioni presentano difficoltà crescenti e questo in un paese la cui economia dipende in maniera stretta dal loro andamento dovrebbe destare un certo allarme.
Questo avviene a causa della cattiva situazione economica dei paesi dell’Eurozona –flagello del resto in gran parte autoprovocato-, non più compensata come sino a qualche tempo fa dalla crescita dei paesi extracomunitari (la Russia con le sanzioni, la Cina con il rallentamento e il riorientamento della crescita economica, i paesi del Golfo con la caduta del prezzo del petrolio).
In relazione a tali sviluppi anche gli investimenti privati tendono a rallentare, mentre le prospettive dell’occupazione in molte imprese appaiono a questo punto poco incoraggianti.
Così le ultime proiezioni del governo, della UE, della BCE mostrano che sia nel 2014 che nel 2015 il pil tedesco dovrebbe crescere soltanto di poco più dell’1,0% e tali stime appaiono molto al disotto di quelle che circolavano soltanto qualche mese fa.
Mette conto di segnalare un aspetto importante, anche se particolare, della situazione del paese. Lo stabilizzarsi di tassi di interesse bassissimi sui titoli pubblici sta mettendo in gravi difficoltà sia le imprese di assicurazione, che hanno in portafoglio tanti titoli nazionali, che i fondi pensione. Così, senza un aumento rilevante dei rendimenti di tali titoli, un terzo delle compagnie di assicurazione potrebbe chiudere i battenti nei prossimi dieci anni, mentre le famiglie tedesche vedono le loro pensioni in pericolo e questo, tra l’altro, riduce la loro volontà di spesa, comprimendo la domanda interna (Bastasin, 2014).
Issing ignora poi nella sostanza, più in generale, le complesse relazioni e le reciproche influenze dell’economia tedesca con quella degli altri paesi europei.
A questo proposito interviene con alcune osservazioni critiche ad esempio Lorenzo Bini Smaghi (Bini Smaghi, 2014).
Lo studioso sottolinea come il tasso di risparmio nazionale ecceda quello degli investimenti interni di più di sei punti; l’eccesso di risparmi della Germania e di alcuni paesi vicini non trova all’estero sbocchi sufficienti sul mercato dei prestiti anche perché l’abilità dei paesi dell’euro di indebitarsi appare limitata, visti i vincoli di bilancio. I tedeschi potrebbero dirigersi verso lidi più lontani, ma c’è la memoria della crisi asiatica degli anni novanta e di quella, molto più recente, del subprime negli Stati Uniti. Questo eccesso di risparmi in Europa contribuisce ad avere effetti deflazionistici.
Cosa fare, si chiede Bini Smaghi? I tedeschi potrebbero smetterla di investire in strumenti di debito e fare come la Cina, collocando il loro denaro in azioni e in investimenti diretti; l’altra soluzione è quella di aumentare il debito pubblico tedesco e/o di incoraggiare gli investimenti privati interni. In altri termini, egli, alla fine, del resto come diversi altri, ricorda che la Germania deve stimolare la domanda interna, sia attraverso maggiori consumi (maggiori salari), che maggiori investimenti pubblici. Questo dovrebbe contribuire anche ad aiutare la crescita degli altri paesi europei. In mancanza di che l’economia europea sarà spinta ancora di più in una spirale deflazionistica.
Conclusioni
Alla luce anche del dibattito in corso in Germania appare del tutto fantasioso sperare in un mutamento di politica economica, almeno a breve termine, da parte del governo tedesco. Quest’ultimo appare, in ogni caso, strettamente sorvegliato nelle sue decisioni dai sostenitori dell’austerità a tutti i costi e dagli umori dell’opinione pubblica. Apparentemente non resta quindi che rassegnarsi ad un lento ulteriore declino economico dei nostri paesi, in attesa almeno che l’aggravarsi della situazione induca qualcuno a più miti consigli. Ma allora sarà più difficile di oggi trovare una via d’uscita.
Testi citati nell’articolo
-Bastasin C., La scatola nera dell’economia tedesca, www.ilsole24ore.it, 15 ottobre 2014
-Bini Smaghi L., Here’s why Germany needs to start spending, www.ft.com, 28 ottobre 2014
-Issing O., Blame Berlin for bad policies, not its reluctance to spend more, Financial Times, 24 ottobre 2014
-Legrain P., Non invidiate la Germania, Internazionale, 14 novembre 2014
-Munchau W., The euro is in greater peril today than at the height of the crisis, www.ft.com, 9 novembre 2014
-Tarquini A., L’austerity non abita in Germania, www.repubblica.it, 6 novembre 2014