Ciò che stupisce nelle appena svolte elezioni comunali a Ravenna è la pressoché totale marginalità nel dibattito pubblico del progetto Ravenna CCS, per uno dei più grandi hub europei di confinamento geologico della CO2, attraverso la iniezione del gas serra nei giacimenti di gas esausti dell’Adriatico.
Quel che più stupisce nelle appena svolte elezioni comunali a Ravenna è la pressoché totale marginalità nel dibattito pubblico del progetto Ravenna CCS, finalizzato a fare di Ravenna uno dei più grandi hub europei per il confinamento geologico della CO2, da ottenere attraverso la iniezione del gas serra all’interno dei giacimenti di gas esausti dell’Adriatico. La tecnologia del Carbon Capture and Storage (CCS), che sta alla base di Ravenna CCS, consiste nella cattura dell’anidride carbonica dalle fonti di emissione e nel suo convogliamento in forma liquida presso i siti di stoccaggio, con l’obiettivo voluto del suo confinamento stabile per tempi gelologici. Nonostante la rilevanza del progetto promosso da ENI e Snam, ed escludendo l’opposizione minoritaria dei movimenti ambientalisti e della candidata della sinistra radicale, è il silenzio generale nel dibattito pubblico su questa tecnologia, destinata a ridefinire il futuro industriale e ambientale della città, a sollevare interrogativi. Nel frattempo, seppure normativamente definite come “sperimentali”, le iniezioni di CO2 nel sottosuolo marino al largo delle coste ravennati – attività svolte da ENI, forte della recente legge che le permette di farle – in totale assenza di qualsiasi di salvaguardia pubblicamente nota. A permettere questo, agevolando nel contempo anche le future attività di stoccaggio, una norma che si fa fatica a non pensarla partorita dal grembo della multinazionale, per quanto il testo appare favorevole alle sue attività di cattura e stoccaggio, presenti e future. Ma è davvero realistico utilizzare il CCS per conciliare la storica vocazione energetica del territorio con gli obiettivi di decarbonizzazione necessari a rispettare i limiti definiti dall’accordo di Parigi? Oppure il CCS non è altro che una delle modalità con cui le aziende fossili possono continuare ad operare indisturbati il loro business estrattivo ed inquinante?
Tra chi pensa che il CCS salvaguarderebbe competenze e occupazione cresciuta sul fossile e i timori di chi lo considera un “cavallo di Troia” per continuare una attività fossile nociva per il pianeta, Ravenna diventa laboratorio inconsapevole di una transizione che da ecologica e sociale, come dovrebbe essere, trova sbocco in un approccio sempre più tecnologico, evitando di mettere in discussione, al contrario affidandosi in toto o quasi allo stesso sistema fossile che ha creato il danno.
Il Progetto Ravenna CCS
Il progetto Ravenna CCS consiste nella realizzazione di una infrastruttura di stoccaggio CO2 in cui l’anidride carbonica viene catturata mediante processi chimici e chimico fisici opportuni a valle dei processi che la generano (attualmente dalla centrale ENI di trattamento di gas di Casalborsetti). La CO2 viene quindi liquefatta, convogliata verso la piattaforma di Porto Corsini Mare Ovest e infine iniettata nell’omonimo giacimento esaurito, a circa 14 km dalla costa ravennate. In progetto si articola in più fasi. La Fase 1, iniziata nel settembre 2024, prevede la cattura, il trasporto e l’iniezione di 25 mila tonnellate all’anno di CO2; la fase 2 a partire dal 2027, consentirà di raggiungere una capacità di stoccaggio di 4 milioni di tonnellate (Mton) all’anno entro il 2030; ulteriori espansioni porteranno i volumi iniettati fino a 16 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, per una capacità complessiva di stoccaggio dichiarata maggiore di 500 milioni di tonnellate. Numeri importanti in relazione alla capacità e all’integrità del sito di stoccaggio, numeri che tuttavia risultano inferiori al 5% del totale della CO2 emessa in atmosfera dall’Italia (337 Mton nel 2023). Valori dichiarati che tuttavia mostrano qualche forte contraddizione con lo stato dell’arte tecnologico, visto che il sito di Sleipner, quello che fino ad ad oggi risulta essere di maggior successo nel CCS, dopo 26 anni di attività ha accumulato “solo” 22 Mton di CO2, un valore che di per sè rende straordinaria la capacità di accumulo annuale di 16 Mton esposta da Ravenna CCS.
Nel quadro delle emissioni globali, per avere un impatto significativo nella lotta ai cambiamenti climatici, la capacità di sequestro della CO2 tramite CCS a livello globale dovrebbe essere dai 2 ai 16 miliardi di tonnellate (Gton) l’anno, una cifra enormemente irrealistica. Oggi il mondo emette circa 40 Gton/anno di CO2 e gas assimilati, mentre tutti i progetti CCS operativi nel mondo totalizzano insieme appena 50 milioni di tonnellate, lo 0,1% del totale. Ravenna CCS, sito che vuole essere operativamente il più grande d’Europa, punta a stoccare 16 Mton/anno: una goccia rispetto ai 400 Mton/anno emesse dall’Italia: meno del 5%. Non è questa la chiave per la decarbonizzazione del Paese, ma puo’ facilmente diventare la chiave per continuare ad estrarre fossili.
Oggi c’è entusiasmo per il CCS. Le temperature medie globali che aumentano e l’assenza di una evidente azione di decarbonizzazione dell’economia stanno spingendo la tecnologia oltre le sue reali possibilità. Motivata dalla dalla necessità di decarbonizzare i settori “hard to abate” e spinta anche dai reports dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), che sempre più fanno affidamento sulle tecnologie per descrivere le necessità di decarbonizzazione, appare oggi in avvio una fase che si configura come una raccolta di generosi fondi pubblici e incentivi fiscali da parte di aziende private, le stesse aziente che hanno provocato e continuano a provocare il dissesto climatico in cui siamo immersi.
E’ della scorsa settimana la notizia che la Commissione Europea intende varare una norma per imporre alle aziende fossili Carbon Capture and Storage per 50Mton di CO2 entro il 2030, una quantità pari tra il 10 ed il 12% delle emissioni dovute alla produzione del cemento e dell’acciaio, ma attorno all’1.5% delle emissioni globali europee. Ed anche qui il tentativo delle compagnie fossili di accaparrarsi fondi pubblici per lo scale-up del progetto di Ravenna appare essere a buon punto. A fine 2023, la Commissione Europea ha inserito il progetto CCS integrato “Callisto Mediterranean CO2 Network”, descritto nel seguito, come eleggibile nella lista dei Progetti Integrati di Interesse Comune (IPCEI). I progetti IPCEI sono considerati progetti infrastrutturali transfrontalieri chiave per l’Europa e beneficiano di procedure accelerate di approvazione e implementazione nonché, sotto determinate condizioni, dell’accesso ai fondi europei della Connecting Europe Facility (CEF), con il possibile ottenimento di finanziamenti pubblici a fondo perduto per supportare gli studi di fattibilità e lo sviluppo delle infrastrutture per la ricezione, il trasporto e lo stoccaggio della CO2. “Callisto” (Carbon LIquefaction transportation and STOrage), progetto che vede ENI e SNAM in partnership con Air Liquide capofila, fa perno proprio sul polo di stoccaggio CO2 di Ravenna CCS con l’obiettivo di farne un sito di confinamento geologico transfrontaliero, per il quale si prospetta la ricezione di CO2 proveniente anche dalla Francia, a partire dal distretto di Fos-Marseille. CO2 trasportata in forma liquefatta da infrastrutture tubiere costruite appositamente allo scopo. Il tutto in assenza di dati e documentazione pubblica, compresa quella di sicurezza, in un’area già provata dalla subsidenza dovuta dall’estrazione del gas naturale, e storicamente soggetta a terremoti. Nulla si sa su tempi e costi.
Quello che comunque è noto è che i progetti CCS sono intrinsecamente costosi e i costi, come i rischi di riemissione della CO2, siano essi di tipo spontaneo o dovuti a singoli eventi geologici, possono solo aumentare con il tempo. Ma anche di questo poco si parla, fatta salva, come vedremo avanti, la presenza di azioni di monitoraggio che poco hanno a che fare con le scale reali.
Il modello italiano
A confermare la tesi che il CCS ravennate consista più in una grande operazione a favore delle aziende fossili che di un reale processo di decarbonizzazione arriva il testo del cosiddetto “Decreto Energia” (d.lgs. 9 dicembre 2023, n. 181, convertito in legge n. 11 il 2 febbraio 2024). Qui l’articolo 7 è specificatamente dedicato alle attività di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica, ed è evidente a chiunque sia in grado di decifrarne i contenuti come tale articolo rappresenti una vera e propria corsia preferenziale per l’ENI e le altre aziende fossili.
Secondo l’atto normativo, semplicemente utilizzando la definizione “sperimentale” una azienda può avviare un progetto di stoccaggio che può esser prorogato fino a 9 anni, con una possibilità massima di stoccaggio pari a 100.000 tonnellate di CO₂. Senza valutazioni ambientali preliminari, senza garanzie finanziarie e assicurative e accaparrandosi diritti sui giacimenti esauriti. Passata la “fase sperimentale”, i controlli vengono comunque allentati, stabilendo procedure accelerate per le valutazioni ambientali, e decisioni caso per caso, sostanzialmente discrezionali per quanto riguarda l’entità delle garanzie dovute per eventuali danni provocati dalla tecnologia. In assenza completa di trasparenza, con nessun obbligo esplicito di pubblicazione dei dati completi. A dispetto dalla sicurezza dichiarata dalle aziende, dopo 20 anni qualsiasi danno provocato dall’attività pregressa di stoccaggio passa in carico allo Stato. Un bell’incentivo per una attività i cui risultati li sapremo forse tra 100 anni, data le lentezza dei processi geologici. Infine, come ciliegina sulla torta, il conflitto di interessi che diventa norma: nel testo normativo è previsto che il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica si può avvalere anche di società aventi comprovata esperienza nei settori della cattura, trasporto e stoccaggio di CO2, per predisporre il quadro tecnico, normativo e renumerativo dell’attività di CCS. Caso unico al mondo, il controllato esplicitamente stabilisce su cosa il controllore lo debba controllare e quanto debba esser esser pagato per l’attività per cui viene controllato. A pensar male si fa peccato, ma viene spontaneo ipotizzare che l’intero o gran parte dell’articolo 7 sia stato scritto da qualche “manina” dell’ENI.
Il laboratorio della CO2 sottomarina
In Italia esiste un laboratorio di eccellenza per gli studi della CO2 in ambiente marino. A Panarea le emissioni vulcaniche che affiorano dai fondali delle isole Eolie forniscono da tempo informazioni e dati preziosissimi sul comportamento della CO2 nell’acqua marina (si vedano ad esempio i risultati del progetto europeo ECO2). Il laboratorio naturale permette l’accesso a diversi gruppi di ricerca, siano essi afferenti a organizzazioni e finanziamenti di carattere pubblico o di carattere privato, come quelli promossi dalle aziende interessate al CCS. L’attività permette di studiare i percorsi della CO2 nel fondale marino, la sua evoluzione chimico-fisica e i cambiamenti che essa induce nell’acqua dove fluisce, sulle rocce circostanti e sulla flora e fauna marina. E’ una attività meritoria sotto diversi punti di vista, siano essi chimico-fisici, biologici o geologici. Tuttavia c’è un rischio concreto che le attività scientifiche che si svolgono a Panarea possano diventare oggetto di strumentalizzate da soggetti interessati a farlo. Le aziende fossili potrebbero facilmente promuovere e utilizzare questi studi per affermare la sicurezza dello stoccaggio sottomarino del diossido di carbonio. Se anche in natura la CO₂ viene rilasciata in mare senza conseguenze catastrofiche perchè temere gli immagazzinamenti sottomarini? A Panarea possiamo studiare dal vivo come la natura sia capace di gestire la CO₂, ma questo non è traslabile su una qualsiasi scala industriale. A fronte delle qualche decina di tonnellate all’anno che si disperdono in acque basse, a Ravenna, per esempio, si discute di milioni di tonnellate pompate allo stato liquido in profondità, con dinamiche completamente diverse. E’ indiscutibile che scientificamente il paragone regga poco, eppure anche questo può diventare un facile argomento per tranquillizzare l’opinione pubblica.
Una nota in conclusione
Mentre Ravenna CCS e il progetto transnazionale “Callisto” si propongono di creare al largo della costa ravennate il maggiore sito europeo di stoccaggio della CO2, con l’obiettivo di immagazzinare al largo di Ravenna tonnellate di CO2 di provenienza francese e italiana, ottenendo allo scopo anche finanziamenti pubblici, troppe domande cruciali restano nell’ombra: quali garanzie abbiamo sulla stabilità di quel giacimento già provato dalla subsidenza? Chi pagherà se passati venti anni la CO₂ dovesse fuoriuscire, magari per un terremoto? E, in ultima analisi, perché investire miliardi in una tecnologia che, nella migliore delle ipotesi, ci aiuterà a gestire solo una frazione delle emissioni? Quale eredità lasciamo alle generazioni successive?
La verità è che il CCS rischia di diventare il paravento perfetto per continuare il business as usual, un “facciamo come sempre” che prova malamente a colorarsi di verde. Mentre parla di catturare la CO₂, ENI non ha affatto abbandonato l’estrazione di gas e petrolio. E con i fondi pubblici che fluiscono verso questi megaprogetti, c’è ancora una volta, quasi stabilito per legge, il concreto pericolo di un sistema dove i costi sono socializzati e i profitti privatizzati.
Per affrontare la crisi climatica, servono meno illusioni tecnologiche e più coraggio nel cambiare radicalmente il nostro modello energetico e di sviluppo, al contrario di quanto avviene. E, detto con le parole di Kevin Anderson, già direttore del Tyndall Centre for Climate Change Research e professore di Energia e Cambiamenti Climatici alle Università di Uppsala e di Manchester: il CCS può avere un ruolo importante nell’arresto delle emissioni di alcuni processi industriali, in particolare del cemento e forse dell’acciaio (ma per l’acciao esistono tecnologie di produzione che operano in assenza di emissioni, ndr), ma per far questo non serve utilizzare il CCS allo scopo di sostenere un’industria petrolifera e del gas che deve essere gradualmente eliminata entro 10 o 15 anni al più tardi, se vogliamo rispettare gli impegni presi nell’accordo di Parigi.
Il Carbon Capture and Storage (CCS) |
Il Carbon Capture and Storage (CCS) è un processo sviluppato dall’industria petrolifera da più di 50 anni, atto a recuperare riserve fossili nei pozzi depleti. La tecnica (chiamata al tempo Enhanced Oil Recovery, EOR) implica il pompaggio di CO2 pressurizzata nei giacimenti in via di esaurimento per effettuare il recupero di petrolio altrimenti inaccessibile, aumentando in questo modo la produzione fossile. Operando una rimozione della CO2 (Carbon Dioxide Removal, CDR) a valle dei processi che la generano, o addirittura attraverso la cattura diretta dall’aria, questa può essere successivamente liquefatta per compressione, trasportata in siti specifici ed infine pompata sottoterra in formazioni geologiche, come giacimenti di petrolio o gas depleti, falde acquifere saline o anche nelle profondità marine dove le alte pressioni dell’acqua la manterrebbero bloccata. Verrebbe così realizzato un contenimento fisico, per uno stoccaggio a lungo termine, almeno nelle intenzioni. Nel caso di presenza di rocce basaltiche la CO2 puo’ subire trasformazioni chimiche, carbonatandosi in forma solida mediante reazioni di spostamento di silicati. Battezzata Carbon Capture and Storage, la tecnologia è pienamente assunta dall’IPCC, sin dal 2005 vieppiu’ recentemente ribadita. Restano dubbi nel generalizzare la possibilità di evitare che la CO2 confinata trovi possibili vie di fuga verso la superficie, pericolosa anche a causa delle capacità asfissianti del gas. L’abbattimento del carbonio dai siti di produzione avviene mediante processi chimico-fisici, che richiedono a loro volta energia per il recupero del gas separato. Date le competenze tecnologiche possedute, candidata naturale nella implementazione del CCS è l’industria petrolifera. L’applicazione del CCS alla produzione energetica da fossili comporta un incremento di circa il 40% dei consumi, con relativi costi (ed emissioni da abbattere). Questo non ha ancora permesso una reale diffusione della tecnologia, che nei fatti non è andata oltre l’implementazione di alcuni siti pilota. La situazione è in evoluzione, anche spinta dalla necessità sempre più impellente per gli stati di “fare qualcosa” senza troppo disturbare il mercato, fronte degli effetti di un riscaldamento climatico che si manifestano con sempre maggior frequenza. Oltre alle modalità di finanziamento pubblico o basate sulla tassazione delle emissioni, un metodo potenziale per rientrare dei costi del CCS consiste nell’utilizzare la CO2 catturata per attività e prodotti a valore aggiunto che la blocchino per tempi di entità variabile. In questo caso la tecnologia prende il nome di CCUS, dove la U sta per utilizzo (Utilization). Si va dall’utilizzo del gas per le bevande gasate (!), o al suo impiego come reagente chimico, per la produzione di “carburanti sostenibili” (che nel loro utilizzo la riemetteranno), polimeri, manufatti di breve o di lungo utilizzo od altro. Questo oltre al tradizionale EOR, che ora ricade nel CCUS. Tra i principali rischi del CCS troviamo: Fughe di CO₂: Rilascio accidentale da serbatoi geologici, con possibili effetti su ecosistemi e clima. Acidificazione delle acque: Se la CO₂ si dissolve in acqua marina (danni a flora/fauna). Sismicità indotta: Iniezione ad alta pressione può causare micro-terremoti. Corrosione delle infrastrutture: La CO₂ umida è corrosiva per tubazioni e pozzi. Fallimento del confinamento: Difetti nelle rocce di copertura (es. argille) possono permettere la risalita di CO₂. |