La guerra, cominciata con l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, in atto su diversi fronti, è ormai la più lunga negli 80 anni di storia dello stato ebraico e all’interno della società cresce un movimento di opposizione con una consistente partecipazione popolare.
Quando un giorno vedremo la Papamobile, donata ai palestinesi da Bergoglio, entrare a Gaza forse la Striscia non esisterà più e il Medio Oriente sarà ancora un volta dilaniato dalla guerra e dal caos. I piani dell’escalation israeliana si delineano su cinque fronti: Gaza, Siria, Libano, Yemen e Iran, accusati questi ultimi due di avere coordinato il lancio del razzo non intercettato sull’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Qualcuno pensa che la “diplomazia” di Trump possa fermare il governo Netanyahu? C’è da dubitarne visti i precedenti del presidente Usa e dei governi americani che lo hanno preceduto.
Il piano israeliano per Gaza approvato nella notte tra domenica e lunedì – che prevede il richiamo di migliaia di riservisti – comprende la conquista della Striscia e l’intensificazione degli attacchi contro Hamas. Durante la riunione del gabinetto di sicurezza il primo ministro israeliano ha affermato che continuerà a «promuovere il piano di Trump» per «la partenza volontaria degli abitanti di Gaza».
In sintesi: conquista e pulizia etnica. I palestinesi verranno cacciati dal nord e dal centro per essere concentrati nel sud della Striscia, il che significa moltiplicare il disastro umanitario già in atto in una sorta di inferno dove da oltre due mesi non entrano aiuti per il blocco israeliano.
Gaza è sull’orlo della carestia: «Lì non entrerà neppure un chicco di grano», aveva dichiarato il 7 aprile il ministro delle finanze Smotrich. A lui e a questo governo non importa nulla che usare come un’arma gli aiuti umanitari è una violazione del diritto internazionale. Tutto questo non accade per caso è ma un piano fortemente voluto dalla leadership israeliana che intende cacciare i palestinesi dalla Striscia, vivi o morti.
La catastrofe umanitaria sulle sponde del Mediterraneo è creata apposta per mettere con le spalle al muro la comunità internazionale e il mondo arabo, costretti, un giorno, a fare qualche cosa davanti alle immagini dei palestinesi che muoiono di fame. Ma questa è un fase già avanzata della crisi: prima gli israeliani concentreranno la popolazione in campi profughi, chiamati «isole», dove sopravvivere a stento o morire lentamente e senza alcuna prospettiva per il futuro. Noi staremo a guardare e dei gazawi resteranno gli scheletri: ecco come va a finire il piano Trump di «Gaza Riviera», per coloro che ancora credono alle sue pericolose carnevalate.
Certo, non tutto per Netanyahu va bene. La guerra, cominciata con l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, in atto su diversi fronti, è ormai la più lunga negli 80 anni di storia dello stato ebraico e all’interno della società cresce un movimento di opposizione con una consistente partecipazione popolare. Per contrastarlo il premier continua a ordinare le mobilitazione dei riservisti: Israele, nella sua testa e in quelle dell’estrema destra al potere, deve diventare un paese in stato di mobilitazione permanente ed effettiva. Siamo allo stadio finale del sionismo? Una nazione colonizzatrice sempre in armi ma mai sicura, con un leadership che non si cura più neppure della sorte dei suoi ostaggi. Un messaggio di morte, non di vita.
Per giustificare la mobilitazione permanente si aprono nuovi fronti. Tra questi la Siria sta assumendo un ruolo sempre più importante, con l’invio di truppe sul campo che, secondo lo stato ebraico, avrebbero il compito di proteggere i drusi dopo una serie di episodi violenti nel paese. Alcuni di loro, infatti, si sono rivolti a Israele dopo aver subìto attacchi da parte di gruppi radicali sunniti, ma altri temono che il coinvolgimento di Tel Aviv possa trascinare la Siria, ma anche in Libano, verso la tanto temuta divisione del suo territorio. Non è un caso che il leader druso libanese Walid Jumblatt abbia appena compiuto una visita inaspettata a Damasco al siriano Al Jolani.
Qual è la strategia dello stato ebraico? Fare leva sulle questioni etnico-settarie per ridurre il Medio Oriente a micro entità facilmente manovrabili. Certo, in Siria le cose non vanno esattamente come vorrebbe Netanyahu, basti pensare all’accordo tra Erdogan e i curdi e alla stessa presenza militare della Turchia. Ma la cosa essenziale per Israele – e per gli Usa – è la destabilizzazione continua per imporsi come potenza egemonica in Medio Oriente, evitando qualsiasi trattativa che possa implicare concessioni.
Anche nel complesso militar-industriale israelo-americano non sempre le cose vanno come vuole Netanyahu. Almeno in apparenza. Per ora Trump sembra voler frenare un eventuale attacco di Israele all’Iran che comunque può contare su alleati come Mosca e Pechino, capitali con cui gli Usa devono trattare sull’Ucraina e sui dazi. Ma Netanyahu morde il freno: nel suo progetto di escalation vede rovine fumanti in tutto il Medio Oriente, la scomparsa definitiva di intere nazioni e dei loro popoli. Una guerra senza fine.
Articolo pubblicato da il manifesto del 6 maggio 2025