La presidente del Consiglio ha avuto colloqui di alto livello, a partire da quello con Xi. Ma non si è portata alcun dossier aperto. Anche sull’auto e l’ingresso di produttori cinesi in Italia, mentre si decidono dazi in Europa, non si notano passi avanti.
I risultati degli incontri della Meloni in Cina
La gran parte degli atti e delle dichiarazioni dei membri di questo governo, a partire da quelli di Giorgia Meloni, si possono, almeno a parere di chi scrive, tranquillamente classificare in tre ampie categorie: quelli negativi, quelli di pura propaganda, quelli infine del tutto inutili. Per quello almeno che si sa, il viaggio della presidente del Consiglio in Cina appartiene a quest’ultima categoria sia sul fronte economico che su quello politico.
Il successo del viaggio nel paese asiatico di una delegazione straniera si misura il più delle volte con il peso economico dei progetti da realizzare annunciati; si parla così di accordi, cifrati di solito in dollari, per 1 miliardo, 5 miliardi, 20 miliardi e così via. Di tutto questo nei documenti degli incontri non c’è alcuna traccia e neanche un vago accenno. Il ministro D’Urso assicura che le intese concrete seguiranno. Vedremo…
Cina e Italia hanno firmato in effetti un accordo triennale che, dopo il recente raffreddamento dei rapporti tra i due paesi, in teoria delinea dei meccanismi per rafforzare e rilanciare la cooperazione in diversi ambiti. L’elenco è molto lungo e comprende quasi tutto; sono citati i settori dell’industria e del commercio, gli investimenti, la tutela della proprietà intellettuale e delle indicazioni geografiche, l’agricoltura e la sicurezza alimentare, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile, la cultura e il turismo, il contrasto alla criminalità organizzata, senza infine dimenticare l’istruzione. Come ha scritto qualcuno, una bella cornice, ma manca il quadro.
Si è poi parlato in particolare di veicoli elettrici e di energia pulita, oltre che di intelligenza artificiale.
Intanto a che punto sono i rapporti economici generali tra i due paesi?
Partiamo dai dati. Nel 2023 abbiamo esportato in Cina merci per 19,2 miliardi di euro e ne abbiamo importate per 47,6 miliardi, quindi con un deficit di bilancia commerciale di 28,4 miliardi. Per la Cina le esportazioni verso il nostro paese rappresentano sì e no il 5% delle sue esportazioni totali. Peraltro rispetto al 2022 le cose sono migliorate per Pechino: le esportazioni sono cresciute di parecchio e le importazioni sono diminuite sostanzialmente dello stesso passo. Il primo semestre del 2024 registra pesanti cali sui due fronti. Siamo comunque il quarto paese, tra quelli dell’UE, come volume di esportazioni in Cina e e la Cina è al secondo posto, escludendo i paesi UE, per quanto riguarda le importazioni. Dei risultati senza infamia e senza lode. Ma di certo non siamo tra i paesi prioritari in queste faccende per il gigante asiatico.
Venendo ora agli investimenti diretti, nel 2022 il livello complessivo di quelli italiani in Cina si collocava sui 15,5 miliardi di euro e di quelli cinesi in Italia a soli 2,3 miliardi. Per quanto riguarda questi ultimi il loro irrilevante livello (non che quelli italiani in Cina siano a livelli clamorosi) si spiega almeno in parte con gli ostacoli che il governo Draghi e quello attuale hanno posto nel tempo alle iniziative cinesi, ma anche in generale alla scarsa attrattività che il nostro paese ha in generale per gli investitori esteri.
Comunque sul piano formale l’accoglienza cinese è stata impeccabile; Giorgia Meloni è stata ricevuta dal capo dello Stato, dal primo ministro, dal presidente della Camera.
Il presidente Xi ha chiesto in particolare all’Italia di giocare un ruolo costruttivo nei legami tra la Cina e l’UE, sapendo bene che Meloni non può (è noto, tra l’altro, che oggi appare abbastanza isolata a Bruxelles e che sull’atteggiamento della UE verso il paese asiatico pesano ben altre forze) e non vuole farlo. Da parte sua la nostra presidente del Consiglio ha ribadito, senza tanta convinzione, che l’Italia sarà un ponte con l’Europa. Intanto una parte della stampa atlantista del nostro paese ha ridicolmente parlato di un minaccioso riavvicinamento dell’Italia alla Cina.
Le notizie sulla stampa cinese
Sempre a proposito di stampa, ad uno sguardo superficiale può sembrare che quella cinese abbia dato un importante risalto alla visita della Meloni. Prendiamo ad esempio uno dei due quotidiani in lingua inglese pubblicati da Pechino, il China Daily (l’altro è il Global Times, quest’ultimo emanazione diretta del partito comunista cinese). Nella sua edizione del lunedì 29 luglio vi si dà notizia della visita in prima pagina, sia pure nella parte inferiore, mentre un editoriale in proposito è pubblicato a pagina 11. In quella del giorno successivo viene inserito un altro articolo sul tema, corredato da una foto della Meloni che stringe la mano a Xi.
In realtà bisogna sapere che un simile trattamento editoriale viene riservato a tutte le visite di capi di Stato e di governo del mondo. Sempre martedì, in effetti, viene pubblicata in prima pagina, ma ahimè con un rilievo parecchio maggiore di quello dato alla visita della Meloni e con una fotografia molto più grande, la notizia della visita a Pechino negli stessi giorni del presidente della Repubblica democratica di Timor-Leste, paese che è anche difficile da individuare sulla carta geografica (per chi non lo sapesse, si tratta di un piccolo Stato del Sud-est asiatico che ha ottenuto l’indipendenza dall’Indonesia nel 2002 e che ha in tutto poco più di un milione di abitanti).
La cosa si ripete in qualche modo nell’edizione settimanale del giornale del 2-8 agosto, che riporta a pagina cinque e con molto rilievo un articolo sulla visita del presidente di Timor-Leste e solo nella sesta uno su quella della Meloni, peraltro con lo stesso rilievo tipografico.
Incidentalmente, considerando la collocazione degli articoli relativi alle due visite, si può pensare che si tratti anche di una sottile vendetta da parte dei cinesi nei confronti della Meloni, che, tra l’altro, prima della partenza per Pechino, aveva fatto sapere a tutti che lei e i suoi accompagnatori si sarebbero guardati bene dal portare con loro in Cina i rispettivi telefonini (si sa, i cinesi ci spiano in tutti i modi); terribile gaffe diplomatica.
Ricordiamo che il governo Meloni non solo ha rinnegato la precedente adesione dell’Italia alla Nuova Via della Seta, ma ha poi operato altri atti ostili verso il paese asiatico. Forse il più grave è stato quello di costringere gli azionisti cinesi di Pirelli, che controllano la maggioranza del capitale della società, a non contare alcunché nelle decisioni dell’azienda. Hanno quindi respinto la volontà di altre imprese cinesi di acquistare il controllo di imprese italiane, sulla scia di Mario Draghi. Poi, grottescamente, mentre a Bruxelles i rappresentanti del governo italiano votano a favore dell’imposizione di pesanti dazi sulle auto cinesi, gli stessi chiedono alle imprese cinesi di impiantare una fabbrica di auto in Italia e anche qualcuna in più, con aggiunta possibilmente di qualche stabilimento per le batterie e per la componentistica.
L’auto cinese
Durante la visita della Meloni si sarà certamente parlato di auto e dintorni, tema che sta apparentemente molto a cuore al nostro governo.
Ricordiamo gli antefatti.
Prima la Fiat e poi Stellantis hanno progressivamente ridotto in Italia la produzione di vetture, scesa ormai da noi a livelli minimi. E nel primo semestre del 2024 è ancora scesa di circa il 20%. Ricordiamo che la situazione regge, sia pure in un modo sempre più precario, attraverso un ampio utilizzo della cassa integrazione negli stabilimenti Stellantis, mentre vengono portati avanti massicci programmi di riduzione dell’occupazione attraverso incentivi monetari e mentre va anche avanti il progressivo pensionamento degli addetti. Quella che era una volta una gloria nazionale è ormai ridotta ad un relitto che naviga perigliosamente i mari del settore. Stellantis preferisce produrre in altri paesi.
Come è noto, a Bruxelles, Ursula Von der Leyen, ha varato con i suoi assistenti, seguendo le direttive di Washington, pesanti dazi sull’importazione delle auto cinesi, mentre si prepara a dare il maggior fastidio possibile ai produttori di quel paese anche in diversi altri settori.
Ora, di solito sono le organizzazioni di categoria, attraverso le loro lobbies a Bruxelles come a Washington e in tutti gli altri angoli della terra, a chiedere ai rispettivi poteri pubblici di intervenire per difendere i loro mercati dal “nemico” concorrente. Qui invece assistiamo ad uno spettacolo inedito e contrario: le misure vengono prese con l’opposizione dei produttori del settore e mentre anche altre associazioni di categoria si sono dichiarate ostili alla decisione. Giornali economici di prestigio come il Financial Times e l’Economist hanno manifestato la loro contrarietà ad una decisione che chiaramente danneggia alla fine i consumatori europei; i consumatori saranno infatti costretti a pagare prezzi più alti e ottenere una qualità inferiore dei prodotti (i cinesi porterebbero in Europa molti modelli economici), mentre anche la riduzione dei livelli di inquinamento verrà ritardata. In realtà da questo punto di vista Bruxelles avrebbe semmai dovuto fare ponti d’oro ai cinesi, offrendo agevolazioni di ogni tipo.
Sono ora in corso difficili negoziati tra la Cina e l’UE per cercare un compromesso sulla questione dell’auto elettrica, ma chissà se Washington darà il via libera a un possibile accordo dell’ultim’ora.
I produttori cinesi, di fronte ai dazi Usa e UE, stanno perseguendo una strategia molto aggressiva e a tutto campo. Stanno invadendo i mercati di America Latina, Asia, Africa – paesi che vedono i loro mercati crescere fortemente -, con investimenti commerciali ed industriali, tagliando i ponti alle imprese occidentali in loco; stanno poi aprendo stabilimenti nei paesi europei meno ostili, dall’Ungheria alla Germania, mentre i produttori che hanno visto i dazi aumentare in maniera relativamente contenuta (come è noto, gli aumenti dei dazi sono diversi da impresa ad impresa) vanno tranquillamente avanti nonostante i balzelli, dal momento che i loro margini sono molto elevati. In effetti i vantaggi di costo delle vetture cinesi rispetto a quelle europee e Usa sono stimati in media intorno al 35%. Inoltre fioriscono gli insediamenti cinesi anche nei paesi terzi, dal Marocco al Messico, paesi che hanno un accesso privilegiato ai mercati occidentali.
Il tutto nell’ambito di una più generale grande ondata di investimenti del paese asiatico in atto in tutte le aree del Sud del mondo.
La strategia del governo
In tale quadro la politica dichiarata del governo italiano è, da una parte, quella di spingere Stellantis a portare la produzione annua di vetture in Italia almeno ad un milione di unità e contemporaneamente a convincere qualche produttore cinese ad aprire degli stabilimenti in Italia, con il vincolo di utilizzare per la gran parte componentistica nazionale.
Le trattative con Stellantis durano ormai da parecchio tempo e non sembrano, stando almeno a quello che si sa e si vede, produrre alcun risultato tangibile; anzi Stellantis, mentre ogni tanto fa dichiarazioni per lo meno ambigue sulla questione per bocca del suo amministratore delegato Tavares, senza mai impegnarsi, di fatto sta continuando a cercare di ridurre la forza lavoro negli stabilimenti.
Sembrano procedere con qualche spiraglio, almeno secondo le dichiarazioni di esponenti del governo, le trattative con diversi produttori cinesi; ma anche in questo campo i risultati al momento non si vedono. La fiducia degli stessi cinesi verso il governo italiano non sembra essere molta, mentre, unica notizia certa su quel fronte, è quella che a partire da settembre arrivano, attraverso Stellantis, la prime vetture elettriche economiche della cinese Leapmotor, società in cui il gruppo francese ha una partecipazione azionaria. Ma ricordiamo che il mercato italiano non è in grado al momento di assorbire che un numero molto limitato di vetture elettriche, la loro quota di mercato nel nostro paese si aggira infatti intorno al 5% del totale, contro un 90% della Norvegia. Osta all’arrivo dei cinesi anche la già accennata sfiducia sino ad oggi manifestata dal governo verso il paese asiatico, mentre il mercato nazionale nel comparto si scontra con la carenza di colonnine di ricarica, i prezzi elevati delle vetture, ma anche l’ostilità manifestata dallo stesso governo e dai suoi organi di stampa contro tutto quello che sa di energie pulite, che si traduce anche in scarsi incentivi all’acquisto di vetture pulite. Così non resta che ripetere: vedremo.