La politica della pace, basata su disarmo, prevenzione dei conflitti, cooperazione internazionale, non è idealismo ma una strategia diametralmente opposta alla politica della guerra. E quest’ultima non è un buon affare.
La politica della guerra si basa sul riarmo, sul nazionalismo, sul dominio degli interessi economici e delle materie prime, sulla politica di potenza, sull’ideologia della geopolitica, sulle aree di influenza, su un’economia liberista e delle diseguaglianze. La politica della pace si base sul disarmo, sulla prevenzione dei conflitti, sulla cooperazione internazionale, sulla democrazia internazionale ed il ruolo degli organismi sovranazionali, su un’economia di giustizia e l’eguaglianza. Non c’è un realismo dei governi (la politica, che presuppone anche la guerra) cui si contrappone un idealismo della pace (che rifiuta le armi): si tratta invece di politiche diverse, di strategie contrapposte, di visioni tra loro irriducibili.
Ricordiamo in poche parole cos’è successo dalla fine della guerra fredda ad oggi: l’esplosione delle guerre, in prevalenza nazionali e interne (ben 49 tra conflitti a bassa, media e alta intensità) con – tra le altre conseguenze – l’accentuazione del fenomeno migratorio; la comparsa delle guerre del e al terrorismo dopo l’attentato alle torri gemelle del 2001; la crescita del nazionalismo aggressivo in molti paesi (non solo nei regimi autoritari, ma anche nelle democrazie); l’aumento verticale del commercio e delle armi e delle spese militari nel mondo (arrivate nel 2022 a oltre 2.200 miliardi di dollari); l’affermazione di un marcato unipolarismo a guida NATO che è intervenuta in diverse guerre (dalla Bosnia Erzegovina all’Afghanistan); la progressiva demolizione del ruolo degli organismi internazionali come le Nazioni Unite; la crescita di una ideologia geopolitica fondata sugli interessi di potenza.
Come ha ricordato Mary Kaldor, le nuove guerre, dopo il 1989, hanno assunto diverse caratteristiche rispetto alle guerre tradizionali: la presenza di attori (militari e civili) non statali (bande, eserciti mercenari, stati auto-dichiarati ecc.); la diffusione del carattere interno di molte guerre dopo la caduta di stati sovranazionali (dove hanno influito motivi di carattere etnico e religioso) ed il disfacimento dell’ordine politico della prima parte del secondo dopoguerra; la diffusione di un’economia di guerra che si intreccia con la criminalità e un’economia degli aiuti umanitari cresciuta enormemente negli ultimi decenni.
Affermare però che negli ultimi anni ci sia stato un ritorno della guerra può essere fuorviante.
Negli ultimi decenni la guerra non si è mai fermata. Scorrendo le statistiche delle Nazioni Unite o i rapporti del SIPRI (il prestigioso istituto svedese per il disarmo voluto da Olof Palme) degli ultimi trenta anni, la guerra è una costante del secondo dopoguerra e del dopo-guerra fredda. Ogni anno decine di conflitti violenti insanguinano il pianeta: conflitti locali, nazionali ed etnici, invasioni, interventi militari che provocano centinaia di migliaia di morti, distruzioni immani, sofferenze che si prolungano nel tempo. Spesso si tratta di guerre dimenticate e nascoste, talvolta asimmetriche, in cui – come ricordato in precedenza – combattono bande paramilitari ed eserciti privati: guerre che, a differenza di quelle di una volta, spezzano le vite più dei civili che dei soldati.
Durante la crisi degli euromissili, nella fase del riarmo nucleare degli anni ’80, Alberto Moravia disse che sarebbe stato necessario “tabuizzare” la guerra, cioè renderla un tabù come succede per altri comportamenti umani inaccettabili, come l’incesto. Da allora è successo l’opposto. La guerra è stata rilegittimata come strumento ordinario di politica internazionale (“la guerra come continuazione della politica con altri mezzi”): non è mai diventata un tabù, ma la normalità della politica estera. Il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff, il cui licenziamento politico dall’università di Berlino fu la miccia della rivolta degli studenti tedeschi nel 1968, scrisse una ventina d’anni fa un saggio, intitolato Critica della politica estera, in cui argomentò il legame indissolubile tra la politica estera, gli interessi di potenza e la guerra. E così è stato in questi anni: la politica estera è consustanziale alla guerra e, comunque, all’uso dello strumento militare.
A volte si associano termini completamente diversi: guerra, conflitti, lotta. Ma la lotta di solito ha delle regole e non annienta gli avversari. I conflitti possono essere nonviolenti e rappresentano il sale delle relazioni sociali e della democrazia, che a sua volta è un modo per risolvere le controversie senza ricorrere alle armi. La guerra è invece un crimine, e basta: non rispetta le regole, nemmeno più quelle del diritto internazionale umanitario, è per sua natura violenta e ha come obiettivo la distruzione del nemico. Ci sono sicuramente delle eccezioni, come le guerre di difesa o la seconda guerra mondiale, ma per noi vale in linea di massima quanto affermava Erasmo da Rotterdam contro la teologia predominante del tempo: sempre meglio una pace ingiusta, che una guerra giusta. Anche perché è rarissimo che la guerra termini in modo giusto. La pace si fa tra nemici, non tra amici; è sempre un compromesso e lascia molto spesso insoddisfatti chi pensa di essere dalla parte della ragione. La guerra non porta alla riconciliazione se non in rarissimi casi (come parzialmente in Sudafrica, dove però non ci fu guerra, ma un’oppressione violenta di una minoranza), ma è causa di ulteriori fratture e sofferenze nelle popolazioni che ne hanno subìto le conseguenze.
Nella Cipro divisa in due di oggi, c’è forse la pace giusta a cinquanta anni dalla guerra turco-cipriota del 1974? E nella Bosnia Erzegovina, il trattato di Dayton del 1995 ha forse portato alla stabilità e alla riconciliazione tra le nazionalità? E in Medio Oriente, dove palestinesi (massacrati in questi mesi dalla ritorsione israeliana su Gaza) e curdi vedono ancora negati i loro diritti, c’è forse giustizia? E poi c’è un’altra cosa da ricordare: la guerra non è così efficace nel raggiungere gli obiettivi che si prefigge e non porta di per sé maggiore stabilità. La guerra molto spesso è un tragico fallimento. L’intervento americano e della NATO ha forse portato stabilità, pace e diritti umani, innanzitutto per le donne, in Afghanistan dopo venti anni di occupazione? E ancora in Medio Oriente, due guerre del Golfo contro l’Iraq (1991 e 2003) hanno forse portato stabilità e pace in quell’area? E l’intervento dei bombardieri dal cielo di francesi e americani nel 2011 ha portato la pace in Libia? Certamente ha contribuito a defenestrare Gheddafi, ma da allora la guerra civile ha insanguinato il paese.
A partire dal 1999, con la guerra in Kosovo, si è tentato non solo di rilegittimare, ma di nobilitare la guerra. Magari chiamandola in altro modo: per la guerra in Ucraina, Putin ha parlato di “operazione militare speciale”, in occidente la guerra del Golfo fu definita “operazione di polizia internazionale”. E la guerra del 1999 fu chiamata umanitaria (si parlò anche di ingerenza umanitaria) e il primo ministro inglese di quei tempi, Tony Blair, forse influenzato dal passato di dominazione coloniale del suo paese, disse che dovevamo inaugurare l’epoca dell’imperialismo dei diritti umani, il cui compito era di esportare la democrazia in quei paesi riluttanti ai nostri valori e alle regole che si è dato il consorzio internazionale.
Solamente che quelle regole erano spesso, e lo sono anche oggi, a geometria variabile, per cui a seconda dei popoli e delle aree geografiche coinvolte valeva, e vale ancora, il principio dei “due pesi, due misure”: abbiamo ricordato il caso dei palestinesi e dei curdi, ma la lista potrebbe essere lunga, dal popolo Saharawi ai Rohingya, a tanti altri. I diritti umani vengono misurati con il metro della geopolitica, della realpolitik, degli interessi della politica estera dei paesi interessati. E c’è anche un altro punto a questo collegato. Invece di legittimare il consorzio internazionale, dando più forza alle Nazioni Unite, alle politiche multilaterali, al disarmo e alla prevenzione dei conflitti, si è scelta in questi anni la strada opposta: quella delle alleanze militari, del riarmo, dell’interventismo militare.
In questi anni – lo dice sempre il SIPRI – le spese militari sono aumentate costantemente fino a superare la stratosferica cifra di 2.200 miliardi di dollari: le guerre servono per utilizzare e consumare questa particolare merce, rivitalizzando un’industria bellica che in questi anni non ha mai smesso di lavorare. La guerra è sempre una buona scusa per nuove commesse militari. Tutti hanno aumentato le spese militari in questi anni: Stati Uniti, Cina, Russia, India, Europa. Da ricordare però che il 40% della spesa militare è degli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea, complessiva- mente, ha una spesa militare superiore di tre volte a quella della Russia.
Ora, dopo i conflitti armati nella ex-Jugoslavia degli anni ’90, una guerra drammatica è tornata a lambire l’Europa, con la Russia di Putin che ha sferrato una criminale aggressione all’Ucraina. Sarebbe utile ricostruire le dinamiche che hanno portato dalla prima (2014) alla seconda guerra in Ucraina (2022), evidenziando il ruolo giocato dalla NATO e dall’Occidente. Non c’è qui spazio per approfondire il tema. Sarebbe in questo contesto utile discutere il modo con cui l’Occidente ha affrontato il disfacimento, dopo il 1989, delle società e degli Stati del cosiddetto “socialismo reale”. È stato fatto un gioco sporco, in cui si sono alimentati i nazionalismi e i separatismi, e sono state sostenute scelte economiche liberiste che hanno distrutto le società e gli Stati, incrementato le diseguaglianze e dato il via libera alla proliferazione di quel particolare fenomeno che, grazie alle privatizzazioni selvagge, ha nutrito un sistema di potere (non solo in Russia) fatto di oligarchi, padrini e padroni politici al governo, nomenklatura varia. E poi, ovviamente, l’allargamento della NATO verso l’Est. Invece di scegliere la strada del multilateralismo e della sicurezza comune (sono appena passati quarant’anni dal documento di Olaf Palme che proprio nella sicurezza comune e condivisa vedeva il solo possibile futuro delle relazioni internazionali), l’Occidente ha confermato e ha accentuato la scelta dell’unipolarismo, delle alleanze militari, del riarmo. Così non si va lontano.
In Ucraina non c’è nessuna guerra da vincere. Bisogna invece vincere la pace. E bisogna andare per gradi: la pace è una cosa estremamente complessa, molto più raffinata e difficile della guerra. Intanto serve tempo: per questo è necessario un cessate il fuoco seguito da una tregua lunga. Questa può essere la condizione dell’inizio di un negoziato che porti a un compromesso e poi a un appuntamento che abbia un respiro e una prospettiva ben più ampia: quello di una conferenza internazionale di pace capace di affrontare in modo complessivo tutte le questioni, dai confini alla tutela delle minoranze, dallo status di territori che ambiscono a una loro autonomia alla creazione di zone “di fiducia” demilitarizzate. Ora, il principio, che deve valere per Putin e per tutti coloro che si comportano come lui è che con la guerra non si va da nessuna parte: i risultati sono illusori, dietro l’angolo c’è il fallimento, ma soprattutto la tragedia è garantita per tutti.
In Medio Oriente, senza il cessate-il-fuoco e la fine del massacro della popolazione civile a Gaza (il 70% dei 25 mila morti fino ad oggi sono donne e bambini) non si possono porre le condizioni di una pace possibile, che ha alla sua base un assunto fondamentale: sicurezza dello Stato di Israele e nascita di uno Stato Palestinese vanno di pari passo, non c’è sicurezza del popolo israeliano senza realizzare i diritti dei palestinesi ad avere un proprio Stato.
Ma la guerra è il trionfo dell’ingiustizia, della sofferenza umana, della violazione dei diritti umani. Solo una politica della pace, come voleva Padre Ernesto Balducci, e non un’ambigua politica estera, che inevitabilmente è legata al vecchio paradigma di potenza mettendo al primo posto gli interessi nazionali ed economici, può garantirci un futuro diverso dal presente tragico che stiamo vivendo. Ma bisogna ribaltare l’ordine delle priorità della politica nazionale e internazionale: il multilateralismo contro l’unipolarismo, la democrazia internazionale contro la realpolitik, la prevenzione dei conflitti contro l’interventismo militare, il federalismo contro il nazionalismo, le Nazioni Unite contro le alleanze militari, la cooperazione contro la competizione, il disarmo contro il riarmo.
Questa è l’unica strada – lunga, impervia, difficile – per mettere al bando la guerra.
Contro la guerra l’insegnamento di Capitini, di Gandhi e di tanti altri maestri della nonviolenza ha tracciato il solco per l’azione e per le nuove elaborazioni dei movimenti pacifisti e nonviolenti di fronte alla guerra. Naturalmente le proposte del disarmo sono state al centro delle campagne internazionali (dalla messa al bando delle mine alla riduzione degli armamenti nucleari) e dei movimenti italiani per la pace che nel corso degli anni con le campagne Venti di pace (fino agli anni ’90) e poi la Rete Disarmo e Sbilanciamoci! hanno portato avanti con proposte specifiche e concrete, soprattutto in occasione delle leggi di bilancio.
A partire dagli anni ’90, molte nuove pratiche si sono radicate nell’azione nonviolenta dei pacifisti durante la guerra. La diplomazia popolare è entrata nella cultura nonviolenta e pacifista di fronte alle nuove guerre. La diplomazia popolare ha costruito e favorito incontri e dialogo tra gli esponenti delle società civile (o della politica, del governo) di due o più comunità in conflitto, in guerra. La Comunità Sant’Egidio 30 anni fa ha dato un contributo fondamentale per favorire il dialogo tra il governo del Mozambico e la Renamo (il movimento guerrigliero ribelle), fino a raggiungere un accordo di pace. Il Consorzio italiano di solidarietà (ICS) ha provato fare lo stesso in Bosnia nel 1993-4, favorendo il contatto e il dialogo tra i deputati del parlamento della Bosnia Herzegovina di Izetbegovic e quelli delle Republika Srpska di Bosnia di Karadzic, allora coinvolti in una guerra feroce. In Israele nei primi anni ‘80 è nato dopo la prima guerra in Libano il movimento delle Donne in Nero, che poi si è sviluppato in tante parti del mondo, inclusa la ex Jugoslavia dove le donne delle diverse parti coinvolte nel conflitto (serba, croata, musulmana, macedone, ecc.) si incontravano e intraprendevano azioni comuni. Si potrebbero citare altre iniziative condotte in questo contesto.
Un’altra pratica che ha preso piede in tante parti d’Europa, e non solo, è costituita dai Corpi civili di pace. Alla lontana, i Peace Corps, voluti da Kennedy negli anni ‘60 per l’intervento in America Latina, potrebbe essere considerati come i capostipiti di questa esperienza, ma essa era legata soprattutto ad una pratica di aiuto e di cooperazione e aveva il sapore di colonialismo umanitario. In Europa è stato il leader ecologista Alex Langer a dare maggiore impulso a questa idea. Nei primi anni ‘90 diede vita ad un’azione nel Parlamento europeo per varare un’iniziativa in questo senso: un corpo europeo con caratteristiche di una presenza civile e nonviolenta. Venne anche approvata una risoluzione del Parlamento europeo che incoraggiava la Commissione europea ad intraprendere un’iniziativa in questa direzione. In Italia in quegli anni l’associazione Papa Giovanni XXIII promosse il movimento dei caschi bianchi: erano obiettori di coscienza (e non solo) che sfidando la legge andavano a svolgere il loro servizio civile all’estero, nelle aree di conflitto. Questo movimento si sviluppò in diversi altri paesi. Nel 2015 il Parlamento italiano approvò una norma – un emendamento alla legge di stabilità 2016 – che introdusse un finanziamento di 5 milioni di euro per finanziare in 3 anni la sperimentazione dei Corpi civili di pace per 500 giovani nelle aree di conflitto o nelle situazioni di emergenza ambientale.
Altre pratiche sono state portate avanti nel corso degli anni: l’interposizione nonviolenta tra contendenti armati o nelle aree di confine tra le comunità in conflitto (come fanno i caschi blu delle Nazioni Unite), i progetti di dialogo e riconciliazione – dopo la fine della guerra, ovvero incontri tra gruppi sociali, donne, giovani, ecc. iniziative educative miste, ecc. Va detto che queste attività sono state praticate ad esempio anche nell’Europa occidentale ed in particolare nell’Irlanda del Nord negli anni ’80 e ’90, dove si possono enumerare molti esempi di attività educative e sociali che hanno riunito soprattutto i giovani cattolici e protestanti. La branca irlandese del Servizio civile internazionale (International Voluntary Service) è stata molto attiva in questo senso attraverso iniziative come i campi di lavoro, gli scambi culturali. Abbiamo ricordato l’esperienza sudafricana della Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Altre iniziative di ricongiungimento delle comunità sono state tentate ad esempio in Bosnia Erzegovina, tra le donne di diversa provenienza etnica di Srebrenica e in Israele-Palestina, dove 35 anni fa si è dato vita al Villaggio di Nevé Shalom dove convivono famiglie israeliane e palestinesi, educando nelle stesse classi i figli arabi ed ebrei e festeggiando insieme le feste religiose degli uni e degli altri.
Nell’ultimo decennio del bipolarismo, gli anni ’80, era emerso nel movimento pacifista anche un altro concetto – fondamentale – oltre a quello della difesa (nonviolenta): quello di sicurezza, come già ricordato in precedenza con le proposte di Olaf Palme e Willy Brandt. Non si tratta di privilegiare la difesa di qualcuno, ma la sicurezza da costruire insieme con quel qualcuno da cui ci si sarebbe dovuti difendere: la sicurezza comune. Questa prospettiva, dopo il 1989, non è andata avanti: alle Nazioni Unite non è stato dato il ruolo che avrebbero dovuto avere; invece del multipolarismo si è affermato l’unipolarismo; invece della cooperazione è la guerra.
Ora, rimane l’ultimo, ma fondamentale obiettivo del pacifismo: la prevenzione. Non bisogna aspettare che scoppi la guerra per intervenire. La prevenzione delle guerre è fondamentale. Servono strumenti, pratiche e politiche per evitare lo scoppio di conflitti violenti. La politica della nonviolenza può e deve fare molto. Questo significa capacità di agire sul terreno delle istituzioni e dei governi, capacità di monitorare e di fare proposte di rallentamento delle tensioni sul campo, volontà di organizzare iniziative ed incontri di dialogo e di confronto per evitare l’incomunicabilità tra le parti in campo e poi la guerra. Compiti molto difficili per organizzazioni ed esperienze di società civile, che non hanno mezzi, soldi, strumenti. Soprattutto se pensiamo che i governi – che pure avrebbero mezzi e strumenti – niente fanno per il condizionamento delle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite e l’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) potrebbero avere questo ruolo, ma i paesi che ne fanno parte non glielo permettono. Ricordiamo che nel 1992 Boutrous Boutrous Ghali – il Segretario generale delle Nazioni Unite di allora – propose un’Agenda per la pace che indicava una strada che poi non è stata seguita (per colpa dei governi): rafforzamento del ruolo di prevenzione e di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, con maggiori strumenti e un’autonomia operativa necessaria per gli interventi nelle aree di conflitto. L’Agenda rimase lettera morta – ripetiamolo ancora – per colpa dei governi nazionali. Da quel tentativo di riforma e rinnovamento delle Nazioni Unite – dopo la fine guerra – prese piede in diversi paesi un movimento di società civile per sostenere quella speranza. In Italia si organizzarono diverse assemblee e molte marce Perugia-Assisi per ribadire che serviva un “Onu dei popoli” (espressione che aveva utilizzato don Tonino Bello per la “marcia dei 500” a Sarajevo il 10 dicembre del 1992). Servivano delle Nazioni Unite che riprendessero l’adagio iniziale della Carta costitutiva (“Noi popoli delle Nazioni Unite”), che fossero veramente democratiche e in grado di intervenire tempestivamente per prevenire le guerre e per mantenere la pace. Quella speranza non va lasciata a morire. Se la nonviolenza è anche politica, allora la democrazia internazionale diventa un passaggio fondamentale per la costruzione di un mondo con sempre meno guerre e per una convivenza delle differenze politiche, religiose e culturali dell’intero pianeta.
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