Top menu

Crisi finanziaria: patrimonio e pregiudizi

I governi dovrebbero comprare quote delle banche invece della loro spazzatura. Una misura che ha avuto successo in Svezia, ma è scartata per motivi ideologici

In queste note cerchiamo di mostrare come il cosiddetto piano Paulson, che pure, vista la drammaticità della situazione, andava comunque alla fine approvato, appare almeno in parte sbagliato dal punto di visto tecnico e inaccettabile dal punto di vista politico. Speriamo soltanto che più avanti, magari dopo l’eventuale elezione di Obama, esso possa essere radicalmente rivisto, come del resto credono e sperano diversi economisti ed uomini politici statunitensi; si veda ad esempio quanto scrive in proposito a caldo P. Krugman (Krugman, 2008).

Chi è H. Paulson

Prima di essere nominato ministro del Tesoro due anni fa, egli ha rivestito a lungo l’incarico di responsabile della Goldman Sachs, quella che era considerata la migliore banca di investimento del paese. Come tale egli è stato uno dei principali protagonisti dell’ondata di finanziarizzazione dell’economia e di messa a punto dei meccanismi di securitization, sviluppo dei mercati dei derivati, forte aumento dei livelli di indebitamento delle istituzioni finanziarie, che sono al cuore dell’attuale crisi. Questo processo di mutamento degli obiettivi e dei meccanismi della finanza, acceleratosi nell’ultimo periodo, è spiegato molto bene ad esempio in un relativamente recente testo del francese Peyrelevade (Peyrelevade, 2005).

Visti i presupposti, non c’è da meravigliarsi che la prima stesura del piano Paulson, “frettolosa e confusa” (Krugman, 2008), fosse, per alcuni aspetti, un gigantesco regalo fatto dal ministro ai suoi amici banchieri, azionisti e manager, e questo fatto è stato certamente difficile da digerire da parte dei contribuenti, ciò che spiega la loro ira degli scorsi giorni. Da allora, peraltro, la bozza ha avuto qualche cambiamento migliorativo: sono stati introdotti dei provvedimenti a favore dei privati che stanno soffrendo a causa della crisi dei mutui, è stato aggiunto un meccanismo per ottenere che le banche a favore delle quali si effettua l’intervento di salvataggio cedano al settore pubblico azioni privilegiate della propria impresa; è stato elevato il livello di protezione dei depositi bancari; si sono introdotte misure per ridurre il livello delle remunerazioni dei manager bancari. Ma, per altro verso, sono stati anche inseriti degli elementi peggiorativi, come degli ennesimi sgravi fiscali che appesantiscono il già spaventoso deficit pubblico – deficit che dovrebbe così raggiungere all’incirca il 10% del pil nel bilancio 2009.

In ogni caso, le prime reazioni all’approvazione del piano da parte dei mercati finanziari sono state, come si è visto, molto negative.

Tardi e poco

Dal punto di vista tecnico, il piano Paulson intanto è arrivato molto tardi; esso, pur nelle sue gigantesche dimensioni, non dovrebbe comunque riuscire a mettere fine alle difficoltà, dal momento che esso le affronta, almeno in parte, dal lato sbagliato. Il piano offre certo una gigantesca iniezione di liquidità al sistema, anche se la legge, per ragioni tecniche, comincerà a diventare operativa solo a partire grosso modo dalla fine di novembre –chissà cosa potrà succedere prima di allora! Ma resterà comunque aperto un problema ancora più importante di quello della liquidità, che è quello della solvibilità (Wolf, 2008, a, b), problema che il piano Paulson non affronta in alcun modo. Il punto è che la struttura del capitale delle banche americane presenta un gigantesco livello di indebitamento (vedi il nostro articolo nel numero precedente di questo stesso sito) e un basso livello di mezzi propri. Ad esempio, la banca di investimento in cui ha lavorato Paulson aveva, prima degli avvenimenti dell’ultimo mese, un rapporto mezzi propri/debiti che era di uno a trentadue circa e la media per le banche americane è comunque intorno a uno a quindici.

Sarebbe da questo punto di vista, quindi, più corretto utilizzare le risorse disponibili per entrare nel capitale delle banche, rinforzando la loro struttura patrimoniale. Questo risolverebbe in parte anche il problema della liquidità. Ma intervenire su questo fronte comporta delle evidenti remore ideologiche negli Stati Uniti. Si tratta di un passo radicale che i politici, specialmente quelli repubblicani, non si sentono certo di intraprendere; né i parlamentari sembrano volere, d’altra parte, che arrivino i capitali cinesi, giapponesi od arabi, se non in misura ridotta. Forse la speranza di Paulson è quella che con questa iniezione di denaro ritorni la fiducia sul mercato e si trovino quindi i capitali privati disponibili successivamente ad intervenire, cosa che ci sembra molto difficile, almeno nelle dimensioni che sarebbero necessarie. In ogni caso, la fiducia del ministro del Tesoro sembra mal riposta, viste le reazioni dei mercati.

La nazionalizzazione di una parte importante del sistema bancario del paese appare quasi inevitabile. In Gran Bretagna le autorità del paese stanno cominciando a considerare seriamente l’ipotesi.

Mancano poi nel piano delle misure che affrontino anche gli altri aspetti di fondo dei problemi: tra gli altri, quello di un ritorno ad una più forte regolamentazione e controllo pubblico del sistema da una parte, quello di un riequilibrio del sistema finanziario rispetto a quello dell’economia reale, superando il grande sbilanciamento che si era prodotto negli ultimi anni e ponendo in qualche modo di nuovo le risorse finanziarie al servizio delle attività produttive.

Dalla finanza all’economia reale

D’altro canto, la crisi sta contagiando anche l’Europa; per altro verso, da quasi esclusivamente finanziaria che era, essa si sta trasferendo pesantemente sul terreno reale. Nel solo numero del 3 ottobre del Financial Times vengono riportate due notizie rilevanti a questo proposito, la prima che riguarda il terreno operativo, la seconda quello teorico. Per quanto riguarda il primo fronte, il quotidiano sottolinea come il mercato del commercial paper, un settore che riguarda i prestiti a breve termine delle imprese, si stia prosciugando e come anche imprese del calibro della General Electric e dell’ATT non riescano più a finanziarsi su tale mercato. In relazione al secondo aspetto, il giornale riporta le principali conclusioni di un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale che sottolinea come, facendo riferimento alle esperienze delle più importanti crisi finanziarie passate, a questo punto l’economia americana sia molto esposta a una recessione. Nello stesso giorno si ha inoltre notizia di una rilevante riduzione degli ordini all’industria e di una caduta nei livelli di occupazione di 159.000 unità nel mese di settembre, mentre diversi stati e municipalità dell’Unione, tra i quali la California, lanciano dei gridi d’allarme sul fatto che non hanno più denaro in cassa.

E’ molto difficile quindi, a questo punto, evitare la recessione. Si può solo discutere su quanto essa potrebbe essere lunga e grave.

Dal punto di vista politico, la crisi in atto dovrebbe essere un catalizzatore per rilevanti cambiamenti e per spingere i vari governi e i vari parlamenti ad avviare una svolta radicale nei rapporti tra finanza ed economia reale, tra intervento pubblico e iniziativa privata nel settore finanziario.

In realtà, quello che sta accadendo invece per il momento, con l’incoraggiamento delle autorità politiche, in Usa come in Europa, è la formazione di giganteschi conglomerati finanziari – negli Stati Uniti, ormai, tre sole banche controlleranno la gran parte dei depositi del paese-, il cui eventuale salvataggio, magari fra qualche anno, produrrebbe problemi ancora più giganteschi di quelli attuali; si tratta comunque di una soluzione che presenta risvolti inquietanti già oggi a livello di concentrazione del potere.

Come già accennato, pensiamo che, invece di comprare i titoli tossici delle banche, il governo farebbe meglio a prendere il controllo anche azionario di tali istituzioni. Se esso debba essere poi temporaneo – come è successo con le crisi norvegese e svedese della fine degli anni ottanta e dei primi anni novanta, o anche negli Stati Uniti a diverse riprese dopo la crisi del 29 con la creazione di grandi strutture pubbliche-, oppure permanente, appare tutto da discutere. In ogni caso, si risolverebbero più problemi. Pensando poi che nel lungo termine il governo potrebbe guadagnarci sopra e comunque ottenere dei dividendi dall’iniziativa, andrebbe sottolineata l’esigenza che tali risorse vengano poi utilizzate per fini sociali (si veda su questo punto Blackburn, 2008 e Comito, 2008) e non, magari, per degli ulteriori sgravi fiscali ai ricchi.

La democrazia della finanza

Un altro approccio, complementare al precedente e di tipo più generale, potrebbe essere quello di incamminarsi nella direzione dello sviluppo di un processo di democratizzazione della finanza.

Si tratta certamente di un tema molto complesso e sul quale il dibattito deve ancora cominciare.

Che cosa si debba intendere con l’espressione accennata è comunque, ad esempio, dibattuto in un recente volume di Shiller (Shiller, 2008), un economista certamente non di idee rivoluzionarie. Egli fa riferimento in generale al periodo del New Deal, che aveva visto, tra l’altro, l’approvazione di una serie di nuove regole a favore delle classi più deboli della società, ad esempio, tra l’altro, con l’estensione della durata dei mutui immobiliari e delle facilitazioni per l’accesso alla casa.

Shiller propone intanto che venga promossa da parte pubblica un’infrastruttura informativa sui prodotti e sulle strutture finanziarie molto migliorata rispetto al passato – chi ha sottoscritto mutui subprime non aveva spesso idea a che cosa poteva andare incontro -, attraverso la creazione di strutture di consulenza aperte a tutti –attività di cui oggi possono godere solo le persone benestanti; l’introduzione, sempre da parte del governo, di una commissione per il controllo della correttezza dei prodotti finanziari emessi sul mercato, struttura che protegga il consumatore e che serva anche da avvocato e da servitore civico; la messa a punto di contratti standard di mutuo per la casa secondo dei criteri migliorativi; ancora con riferimento allo stesso mercato immobiliare, la stesura di contratti i cui termini siano aggiustati continuamente, anche su base mensile, in risposta alla capacità di reddito del sottoscrittore; su di un piano più vasto, infine, l’autore sottolinea la necessità di coprire i rischi di reddito dei cittadini durante tutta la loro vita, mediante, tra l’altro, dei contratti di tipo assicurativo appositamente studiati.

Si può discutere dei singoli aspetti del programma e cercare di migliorarlo, ma l’idea appare in generale molto interessante.

Intanto, attendiamo le nuove puntate della crisi.

post scriptum (11 ottobre 2008)

Eravamo stati facili profeti nel pronosticare che il piano Paulson non sarebbe stato sufficiente a sistemare le cose –anzi, nessuno ne parla quasi più- e che bisognava arrivare ad una ricapitalizzazione pubblica delle banche. Ora sembra che nelle prossime ore –o nei prossimi giorni- il governo americano, vincendo infine le sue remore ideologiche, voglia incamminarsi per quella strada; sempre in ritardo peraltro rispetto alle necessità. Nel frattempo, visto l’aggravarsi della crisi, bisogna arrivare, almeno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, più che ad una semplice immissione di capitale pubblico, ad una vera e propria nazionalizzazione, più o meno temporanea –superando ancora una volta delle remore pesanti-, che metta in grado i pubblici poteri di ordinare in particolare alle banche di ricominciare a prestare soldi alle altre banche, riaprendo così i circuiti del credito; appare necessario, inoltre, che le banche centrali fungano, almeno temporaneamente, da banche ordinarie, prestando soldi su larga scala direttamente alle imprese, come ha cominciato a fare forse troppo timidamente la Fed; in alternativa, o in maniera complementare, bisogna mettere in piedi, temporaneamente, un sistema di assicurazione dei crediti che le banche concedono al sistema produttivo.

Sia permesso di aggiungere che ovviamente, nei prossimi giorni, si deve manifestare al massimo la cooperazione internazionale; a questo proposito, la riunione prevista del G-7 sulla crisi appare peraltro fortemente monca, vista l’assenza di chi ha in questo momento più soldi a disposizione e il cui intervento finanziario appare indispensabile alla buona riuscita del piano di rientro; stiamo parlando in particolare della Cina. Speriamo che almeno ci sia al vertice un buon collegamento telefonico con Pechino.

Ma a parte la crisi finanziaria, la preoccupazione cresce anche per le difficoltà dell’economia reale, che hanno anche una loro autonomia rispetto al solo elemento finanziario. Ma la trattazione di questo tema richiederebbe un altro articolo.

Riferimenti bibliografici

Blackburn R., The subprime crisis, New Left Review, marzo-aprile 2008

Comito V., I progetti di riforma del sistema finanziario dopo la crisi, www.finansol.it, 30 settembre 2008

Financial Times, 3 ottobre 2008

Krugman P., A leadership vacuum, International Herald Tribune, 4-5 ottobre 2008

Peyrelevade J., Le capitalisme total, Seuil, Parigi, 2005

Shiller R. J., The subprime solution, Princeton University Press, Princeton, New Yersey, 2008

Wolf M., Paulson’s plan was not a true solution to the crisis, Financial Times, 23 settembre 2008, a

Wolf M., Congress decides it is worth risking another depression, Financial Times, 1 ottobre 2008, b