Arrivano conferme della contaminazione dei militari russi che si sono accampati senza protezioni alle porte del sarcofago della centrale. Mosca ha sempre negato i rischi e anche i dati medici dei bambini di Chernobyl ospitati e curati in Italia non sono mai stati tracciati, come dice questo reportage del 2000.
Sul terrazzino che si affaccia sul quarto reattore alla centrale di Cernobyl l’indicatore di radiazioni segnava 1.218 micro rontgen. Il reattore era stato ricoperto, bene o male; sul terreno avevano buttato metri di cemento, avevano scrostato, pulito e ripulito. A qualche chilometro di distanza, in Bielorussia, nel distretto di Braghin, in una zona morta ma accessibile, anzi frequentata, nella località di Ostrogladie, il nostro indicatore di fortuna, (rimediato dal veterinario locale) appoggiato per terra, sul muschio, di fianco a una casa abbandonata, segna più di 2.200 micro rontgen. E’ talmente irreale la situazione che dopo aver atteso per qualche minuto che l’indicatore completi la sua crescita, si lascia perdere perfino il record da Guinness dei primati (gli italiani più stupidi del marzo 2000) e risaliamo all’interno protetto del pulmino. A Ostrogladie, le autorità che oggi preferiscono che non si vada tanto in giro con rilevatori di radiazioni, 14 anni fa si sono limitate ad allontanare subito la popolazione e poi hanno lasciato fare alla natura. Il degrado della radiazione prima o poi (24 mila anni?) sarebbe seguito.
Lungo la strada, Tamara, che funge da delegata di Legambiente Solidarietà in Bielorussia, racconta: “Nel 1986, al momento del disastro ero responsabile dell’istruzione tecnico-professionale a Brest. Quando si è trattato di organizzare il lavoro dei liquidatori, io usavo una macchina di servizio e mi muovevo nella zona da evacuare per le necessità della protezione civile. Ero io che registravo gli altri, mentre nessuno ha registrato me, proprio perché non prendevo ordini; e poi c’era altro da pensare. Così, tecnicamente, non sono un liquidatore…”, e non ha neppure la relativa pensione, aggiunge con un sorriso. “Era un lavoro difficile, mancavamo di molto di quello che sarebbe servito; mancavamo di quasi tutto. Pure si è fatto il possibile e rischiando un po’, abbiamo evitato peggiori guai”.
L’untore
Tamara è una donna vivace e coraggiosa. Preferisce non parlare di sé e del passato, ma raccontare del caso di un medico del gruppo di George Beliavski, l’ecologo ucraino amico di Legambiente, che compiendo cento autopsie di persone decedute per eventi diversi, ha raggiunto la prova di una morte unica, la radiazione, che ha finito per “ostruire” organi mai presi in considerazione dalla medicina delle malattie nucleari. Invece di essere preso sul serio, il medico è stato arrestato e condannato, per propagazione di notizie false e tendenziose. “E’ uscito dalla prigione un mese fa, ora è agli arresti domiciliari”. E con obbligo di tacere.
Tamara parla anche del “muro storto”, che “pende come la torre di Pisa”, e sostiene il tetto del sarcofago al quarto reattore di Chernobyl. E’ un aspetto preoccupante, perché l’usura e le sollecitazioni determinate dalle radiazioni possono provocare nuovi disastri, come un nuovo vento di polveri atomiche.
Poco lontano, ma a radiazioni abbattute, c’è il paese di Miculici. Legambiente è attesa alla scuola. Attualmente sono iscritti 84 alunni, divisi in 13 classi, distribuite sull’intera scuola dell’obbligo, dai 6 ai 17 anni.
A scuola in Bielorussia
“Prima” gli allievi erano 300, ma ormai a Miculici abitano solo 200-250 persone e nei tre villaggi vicini che fanno capo alla scuola forse altrettante. Inoltre è un fatto che “dopo” nascono molti meno bambini… Cinque ragazzi sono immigrati; alcune famiglie, moldave o russe, o anche bielorusse sono venute a cercare nel cratere di Chernobyl una forma di sopravvivenza: una casa abbandonata, ma in buono stato, da occupare, una piccola pensione statale con la quale vivere.
Gli insegnanti sono 16, alcuni molto giovani. La giovane direttrice è un po’ intimorita, un po’ per la visita preannunciata degli “italianski”, e più di un po’ per l’arrivo di Anna, un’elegante signora che però è anche l’ispettore generale di tutte le scuole del distretto di Braghin. Anna è talmente autorevole che chiamarla provveditore è proprio meschino. “Alla fine degli studi obbligatori – ci spiega – gli allievi del distretto che oggi sono 2.750, possono andare alle scuole tecniche e professionali, ai licei del capoluogo, Gomel, e poi all’università, a Minsk. E’ tutto gratuito. I nostri ragazzi però fanno più fatica degli altri. Ogni anno lasciano la scuola per un mese, a turno”.
Se nessuno li vuole
Partono per il sanatorio, per zone pulite, per l’estero: “Come i bambini che arrivano da voi, in Italia. E se non si riesce a combinare il soggiorno, se nessuno li vuole, allora restano per un mese ‘dentro casa’, come se fossero agli arresti domiciliari. Così il loro apprendimento lascia un po’ a desiderare”. Ma si rifaranno: Anna è sicura dei suoi ragazzi.
Si entra in una prima elementare, 11 bambini di 6 o 7 anni. Comincia a leggere uno del primo banco. Segue il rigo con un dito, un testo lunghissimo, con piccoli caratteri fitti. Il bimbo tiene il libro tutto storto, tanto che sembra che il suo indice si arrampichi, ma in fretta, senza esitazioni, lungo la parete delle parole. Poi legge una bimba, altrettanto spedita; si chiama, come sapremo più tardi, Caterina. Due bambini sono stati in Italia, d’estate, e dicono “Ciao, arrivederci”. Poi si entra in una primina, di gente di 5 anni. A Miculici manca la scuola materna. Sette bambini sono seduti su un tappeto spelacchiato e tentano di fare un unico puzzle che sembra un Ravensburg da 7.000 pezzi. C’è uno scaffale di resti di giochi di plastica.
Attenti al borsch
I giochi veri sono dipinti sulla parete. “Questo è un trenino, questo è un orsetto”. Legambiente chiede: “Qualcuno dei vostri fratelli è stato in Italia?” Risponde, dopo essersi guardata intorno, una tipa vispa: “No. Ma mia mamma è incinta di un fratellino…”. Come dire: chissà che quel fratellino non vi vada bene, non abbia più fortuna di noi. Il portavoce dell’asilo di Miculici si chiama Angelika.
Dall’aula di scienze spunta una professoressa austera (tutto il mondo è paese), mentre dalla parete sogghigna, sotto il barbone, Mendelev, quello della tavola, finalmente a casa. In palestra, tre ragazze grandi fanno una specie di saggio, guidate da una maestrina di poco più anziana. Le ragazze si muovono un po’ goffamente, svogliate. Si sentono osservate. Fanno la parallela svedese, poi improvvisano una corsetta, ma è chiaro che non sono convinte.
Intanto i più piccoli hanno mangiato. La mensa è un aspetto importante per la scuola e per la resistenza di Miculici. Per un paio di pasti al giorno i ragazzi e i bambini mangiano qualcosa di accettabile. Un emissario del cuoco continua ad arrivare in sala-insegnanti dove la delegazia è a rapporto con la direttrice. Il cuoco è molto preoccupato per il suo borsch che in effetti è diventato freddo.
Alla mensa della scuola di Miculici, dentro il cratere di Chernobyl, un abile cuoco è in ansia per la sua zuppa di cavoli rossi con panna acida: la migliore cucina della Bielorussia, la più ospitale. Quando Legambiente riprende la via, confusa nel gruppo che saluta c’è la maestrina della ginnastica, labbra rosse, ricci scuri, tutta carina, in minigonna e giacca con tanti bottoni. Nessuno le ha parlato. Non ha parlato con nessuno. Non è entrata nella cronaca della giornata.
La casa di Caterina
Gli italianski si fermano in una casa di Miculici. E’ azzurra, di legno, allegra. A ricevere gli ospiti una giovane signora sorridente, Elena. E’ stata avvertita poco prima. All’interno ci sono due bambini praticamente sull’attenti. Uno dei due è Caterina, la lettrice della prima elementare. Suo fratello Misha, poco meno di tre anni, fa tutto quello che fa lei. Elena racconta: viene dalla Russia, era analista contabile in una cooperativa agricola, dove ha conosciuto Sasha che ora è suo marito e lavora ancora come trattorista. Sono venuti qui perché era possibile occupare una buona casa abbandonata e il governo dava sussidi per i bambini. Oggi la situazione è questa. Elena riceve l’equivalente di 12 dollari (un dollaro americano vale 900.000 vecchi rubli bielorussi) tra maternità, che dura tre anni, e “pensione” per i minori di 18 anni che sopravvivono nella zona. Il salario di Sasha è 8 dollari al mese. “Ma salari e sussidi sono in ritardo di tre mesi. Il governo non paga”. Dollari e rubli inutili scottano, nelle tasche degli italianski. “Così coltiviamo e mangiamo un po’ di patate”, sorride Sasha. “Ma fate analizzare i prodotti dei campi?” incalza Legambiente. Sasha allarga il sorriso: “Ma pensa davvero che noi si vada all’istituto per fare le analisi? So bene che dovremmo farlo. Ma prima di tutto bisogna non morire di fame”.
Il sabato dell’ospedale
Quando la mattina Legambiente ha impilato in un magazzino un po’ del carico umanitario portato dall’Italia all’ospedale di Braghin, ha sentito con qualche stupore che cibi, medicine e latte in polvere dovevano essere analizzati, e quindi attendere, prima di essere utili; e soprattutto che gli omogeneizzati per i più piccoli, nel caso fossero di carne, erano proibiti in Bielorussia, per via di “Mucca pazza”. Gran cosa la burocrazia, se riesce a essere permissiva per le peggiori radiazioni e rigida per una ormai remota diceria. Il fatto è che bisogna pur proibire qualcosa.
L’ospedale di Braghin è quasi vuoto di sabato. La maggior parte degli ammalati tornano a casa e rimangono solo quelli contagiosi, o sotto operazione, o gravi. Degli altri, molti hanno malattie che non si curano stando a letto in ospedale. Un medico pediatra racconta che, come tutti i non raccomandati, dopo la laurea è finito qui: per una ferma di tre anni, in modo di ripagare l’investimento fatto dallo Stato su di lui per il periodo di studi. Dopo, ha preferito rimanere e sta nel cratere ormai da dodici anni. Non si è sposato – poche ragazze verrebbero qui spontaneamente – ma è contento così.
Soldi soldi soldi
E’ lui che ci accompagna in un giro per l’ospedale, ci presenta un anestesista appena arrivato che – in pantofole – oggi non ha niente da fare. “Come mai è arrivato qui, dottore?” Il dottore ci mostra un ritaglio di giornale. Offrivano questo posto. “Lo stipendio – 120 dollari – era assai conveniente. E sono venuto”. Il pediatra, quello in missione, guadagna solo 70 dollari.
Di soldi si parla anche con una giovane infermiera che si vergogna un po’ di essere fotografata. Porta con grazia una specie di cappello da cuoco. Vuole sapere quanto guadagna una sua collega in Italia e quando le si dice che arriva anche a 1.000 dollari, lei che ne riceve 30 si appoggia al muro per non cadere per terra. Un po’ scherza, ma un po’ di capogiro lo deve avere sul serio di fronte alla prospettiva di tanti soldi.
I corvi ci guardano
A fianco dell’ospedale c’è un’altra ala in costruzione, ma i lavori sono fermi, in attesa di finanziamenti. E intanto la manutenzione di tutti i giorni non si fa, osservano sconsolati i medici. Di fuori una miglioria è stata fatta. Per tenere lontani i corvi che con il loro gracidare danno fastidio a tutti, si sono tagliati alberi a decine. I corvi, cupi cugini russi di quelli californiani di Hitchcock, poco più lontano, aspettano.
Oxana (Rossana), l’interprete che ci accompagna, spiega che anche gli insegnanti che hanno studiato all’università statale devono riscattare lo studio gratuito con tre anni di permanenza nelle zone disastrate, prima di tornare nelle residenze abituali; “ma non tutti lo fanno – aggiunge -, qualcuno cerca e trova come evitare la fatica”. Oxana ha studiato storia dell’arte italiana a Perugia; si occupa di rapporti tra Bielorussia e artisti italiani dei secoli d’oro e racconta divertita di uno studioso che teorizza la Bielorussia come nucleo originario di tutta l’arte europea, “prima ancora della Grecia”. Alla nostra domanda sullo studio della storia russa e bielorussa, racconta della regina italiana Bona. “Era una Sforza, era di Milano”.
Oxana viene da Brest. Allora, tanto per stringere l’ottica della storia, le chiediamo se nelle loro scuole si studia di Trotskij che a Brest ha firmato la pace; e come. Risponde che qualcuno, a cavallo degli anni novanta, se ne è interessato, ma poi anche Trotskij è scomparso dal quadro, un po’ come Stalin. “Abbiamo altro di cui occuparci”, conclude.
La prova della normalità di Braghin è offerta dalla discoteca. La italianska delegazia è andata in discoteca il sabato sera, dopo una serie di brindisi piuttosto robusti con il sindaco e il vice primario, animati da una discussione rimasta insoluta. “Possiamo mandare un furgone-laboratorio attrezzato per raccogliere i dati sui bambini che arrivano in Italia?”, chiedeva Legambiente. Al che il sindaco e gli altri rispondevano che la questione, ancorché ragionevole, riguardava però le autorità centrali, che preferivano che i dati non fossero separati da quelli delle altre zone a rischio, sia pure lontane.
A traduzione avvenuta, qualcuno borbottava che anche mischiando il latte radioattivo con quello normale, la radioattività media del latte assunto si sarebbe diluita; ma anche il valore statistico e scientifico del risultato; e soprattutto quello politico: “Questo latte è buono da bere”, restava opinabile.
Lenin e la discoteca
Dunque la discoteca. Si passa per la via principale di Braghin finché la via non si allarga nella piazza. A sinistra il monumento a Lenin, a destra il monumento a un carro armato o meglio un piccolo vero carro armato verde, montato su un piedistallo; in mezzo la discoteca, nell’edificio che si può immaginare fosse la sede dell’organizzazione giovanile, il Komsomol.
Sopra la discoteca, un enorme quadrante a numeri rossi dà nella notte tre indicazioni successive: ora, temperatura, stato delle radiazioni. Sabato sera, in discoteca erano 19 micro rontgen. Un affare da ridere, per reduci da Ostrogliadie.
Dentro un gran buio, qualche decina di ragazzi tutt’intorno, le “luci” della discoteca ridotte a una serie di normali lampadine elettriche che si spengono e si accendono. La luce si muove, in modo neppure troppo ossessivo, con il ritmo delle lampadine. Il massimo è una penna laser che descrive segni rossi sul soffitto e sul pavimento. La musica che non rimbomba neanche troppo, proviene da un complesso costituito da uno stereo e un altoparlante da comizio. Si balla. In realtà ballano soprattutto alcune ragazze, anche spigliate. La musica, assicurano i più esperti, è disco-dance di qualche anno fa, inframmezzata da rock russo e perfino da una roba italiana, almeno per le parole che si intuiscono, ma che nessuno riesce a riconnettere a niente.
A un certo punto c’è una musica adeguata e tutte le ragazze cominciano a muoversi a tempo, agili, scintillanti, sotto le loro tremende lampadine. Non importa, la musica trascina davvero. Anna, il terribile ispettore generale, che certo conosce le ragazze una a una, balla anche lei, elegante, composta. Ballano le interpreti, balla Valeria, balla Oxana, balla la italianska delegazia. Ballano, in un angolo, tre giovani poliziotti di pattuglia, cercando di non farsi vedere.