Il racconto dell’inviato de il manifesto a Chernobyl 14 anni dopo il collasso del reattore 4: sole scintillante, vento, neve e 1238 milli-roentgen sopra il mostro ancora vivo. Stipendi da fame, ricordi radioattivi.
In aprile del 1986 Chernobyl era una sconosciuta cittadina sul fiume Priapit nell’Ucraina del nord. A circa 25 chilometri a monte vi era – e vi è – una centrale nucleare. Allora si chiamava Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin, ma il nome e la fama sinistra della sciagura ricaddero su Chernobyl. I reattori in funzione erano quattro mentre altri cinque o sei, di cui si vedono gli scheletri abbandonati, erano in costruzione. I quattro reattori costituivano un’unica enorme costruzione. Per qualche motivo di ricerca o di carriera scientifico-amministrativa il reattore numero quattro, il più recente, il più sicuro, venne utilizzato per un esperimento. Erano le 1,21 del 26 aprile. Il reattore quattro esplose, crollò il tetto, il materiale nucleare prese fuoco, le turbine saltarono per aria e si sbriciolarono in un magma che rilasciò trenta o quaranta volte la radioattività di Hiroshima. Con il reattore crollò probabilmente anche l’Unione sovietica.
I morti nella centrale quel giorno furono ufficialmente 31 lavoratori della centrale. Tecnici e pompieri comuni entrarono nell’inferno per cercare di ridurre il disastro. Nessuno è sopravvissuto. Un monumento, tutto considerato sobrio, ne ricorda il coraggio e la dedizione. In tre mesi sopra la fornace infuocata del quarto reattore fu costruito un tetto, il cosiddetto sarcofago, quello che ancora oggi, dopo 14 anni, copre sommariamente il reattore numero quattro. In quattordici anni si attribuiscono alle conseguenze dell’evento 65 mila morti, nelle tre repubbliche di Ucraina, Russia e Bielorussia dove l’incidente è avvenuto. Per un gioco di venti il 70% della polvere radioattiva e caduta sull’incolpevole Bielorussia, l’unica repubblica dell’Unione sovietica a non avere centrali nucleari.
La nube radioattiva
La radioattività ha invece sorvolato senza recare danni la capitale Kiev – per meriti politici ed organizzativi, come vedremo qui a fianco nel racconto della nostra interprete che allora faceva la bambina a Kiev – o forse per intervento salvifico del protettore San Michele. Centinaia di migliaia di persone dovettero lasciare la zona radioattiva e almeno sei altri milioni di persone convissero con la radioattività ed ancora oggi ci convivono, non avendo potuto o voluto allontanarsi.
A Chernobyl siamo arrivati aggregandoci ad una delegazione di Legambiente-solidarietà guidata da Angelo Gentili. Due gli obiettivi: fare qualcosa per ridurre le conseguenze del disastro di allora, che ancora rendono più fragili i bambini e i ragazzi di oggi, e mettere in luce i nuovi pericoli che l’esistenza stessa del reattore quattro, del suo fratello maggiore reattore tre e di svariati cugini e fratelli minori che se non nell’area di Chernobyl, bontà loro, ma a Rivne come anche a Khemelnitsky si vogliono costruire con l’appoggio del governo americano e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Ieri il direttore della Bers ha incontrato il presidente dell’Ucraina per cominciare il finanziamento delle centrali e si profila un accordo per la chiusura dell’intera centrale di Chernobyl entro il 2000. Qui dovrebbe entrare il G7 anche se i due programmi sono intrecciati.
Reattore al lavoro
II fatto è che il reattore tre (diviso solo da una parete, speriamo robusta, dal reattore quattro, quello esploso) continua a funzionare con frequenti arresti; mentre i responsabili politici dell’Ucraina assicurano di non poterne fare a meno. Legambiente da quattro anni ha portato in Italia 15 mila bambini della zona contaminata di Ucraina e Bielorussia (quest’anno saranno 2 mila) per consentire loro di fare una piccola vacanza di un mese, cambiando aria (e acqua e latte e tutto il resto dell’alimentazione). II tutto avviene tramite 150 gruppi locali che provvedono ad affidare i bambini presso famiglie di ogni parte d’Italia o presso strutture collettive. Inoltre sono partiti per il cratere di Chernobyl 20 Tir di aiuti, soprattutto medicine, materiali diagnostici, omogenizzati. L’ultimo Tir è atteso in Bielorussia per domani, ma risultava ancora fermo a qualche frontiera.
Legambiente è anche salita su una specie di terrazzino, proprio di fronte al cosiddetto sarcofago del quarto reattore, per inalberare uno striscione: “Stop Chernobyl!” e altre parole cirilliche. Era una giornata radiosa: c’era il sole scintillante sulla neve e sul ghiaccio c’era un vento moderato e c’erano 1218 micro-roetgen su quella terrazza, come indicava un segnalatore digitale. Cento volte più di una radiazione forte. Legambiente aveva le apposite tute di carta e le mascherine. Subito sotto, più vicini alla centrale, gli operai del terzo reattore o quelli che – edili o meccanici – curano come possono la manutenzione esterna del quarto reattore, guardavano incuriositi i fantasmi sul terrazzino. Essi erano vestiti in modo normale e sembravano normalmente rilassati.
Ma quanto guadagnano?
Quanto guadagnano gli operai della centrale? L’abbiamo chiesto al gentile funzionario in divisa che non cercava neppure di impedire la manifestazione (“basta che non fotografiate il muro”, diceva, “c’e un vincolo militare. E’ per evitare gli atti di terrorismo”). “Un operaio specializzato guadagna 100 dollari; un caporeparto o un saldatore arriva a 130; un manovale o un inserviente arriva alla metà di questa cifra. Ma il fatto importante è che almeno lavorano tutto il tempo e riescono a sfuggire alla disoccupazione. Le donne vanno in pensione a 45 anni e gli uomini a 49”. Sapremo in un’altra conversazione che però le pensioni sono meno di un terzo del salario e quindi è molto difficile sopravvivere di sola pensione. Intorno alla centrale lavorano in diecimila. E’ escluso chi abbia meno di 18 anni o più di 50, anche se su questo punto c’è qualche incertezza. I bambini non sono accolti e neppure le donne in “età riproduttiva”. Da una porta sbuca una ragazza di apparenti 25 anni che fa subito colpo su Rai3, di là della porta qualche computer e altre ragazze. E allora, chiediamo? Le regole sono una cosa, ma il dover lavorare, il coraggio, le raccomandazioni sono cose diverse, ci fanno capire.
Dal terrazzino si vede il sarcofago 100 metri lontano. Tanto le parti metalliche e quelle di cemento sembrano – e certo sono – corrose dall’acqua e dal gelo. Con una telecamera apposita ci mostrano i buchi che del resto avevamo visto ad occhio nudo. Un modellino nell’ufficio serve per mostrare i punti di un cedimento prossimo venturo. Alle pareti le foto delle autorità – e campeggia Al Gore – che hanno visto il mostro. Si direbbe che il governo ucraino preferisca mettere in evidenza i pericoli. “Vedete il nostro coraggio – sembra il messaggio lanciato dal governo – e la nostra povertà? Ora tocca a voi, signori del mondo, padroni del G7”. A meno di tre chilometri dalla centrale c’è la città martire. Pripiat è una vera città, con case di dieci piani, grandi viali, edifici pubblici. I lavoratori della centrale abitavano qui e l’hanno lasciata per l’eruzione della centrale, in poche ore. L’aspetto forse più noto di Pripiat sono la grande ruota e l’autoscontro. Le barchette della grande ruota sono gialle e restano appese là in alto contro il cielo. Le automobiline sono scolorite e rugginose. Molte sono pancia all’aria, ci si potrebbe ispirare un regista a corto di immaginazione che debba fare un film sulla fine del mondo.
A partire dalla centrale vi sono molte zone di pericolo. Va detto che il pericolo – quarto reattore a parte, anche se il discorso è un po’ privo di senso – si sta lentamente diluendo. Nel senso che si riduce e si spande. Tra un po’ di anni tutta la falda acquifera dell’Eurasia avrà un po’ dell’acqua di Chernobyl. La fascia più interna è quella di forse sei milioni di persone nelle tre repubbliche. Chi poteva, nei primi tempi, ha mandato via i figli. E’ la fascia detta dell'”evacuazione volontaria”. Poi c’è una fascia di 30 chilometri quadrati di evacuazione obbligatoria. Più all’interno c’è la fascia proibita. Dalla fascia obbligatoria i profughi hanno ricevuto per anni una sovvenzione da parte dello stato che si è via via ridotta. Così le persone sono tornate, con coraggio, nella loro terra. In molti casi si tratta di contadini che praticano l’autoconsumo, senza badare ai pericoli di quello che mangiano e bevono. Tra i frutti della terra i più pericolosi, perché raccolgono le radiazioni, sono i funghi oppure le bacche del bosco. Con un sorriso un po’ furbo e un po’ innocente, una coppia di anziani contadini ci ha detto: “Certo che mangiamo i funghi, non ce ne sono mai stati così tanti. E tutti per noi”.